Sensi (Raffaella Vicario)

OCCHI – Il gomito

Scena I Primo piano sul gomito. Sono seduta sul sedile posteriore, le mie gambe pigiate tra quelle di altre due persone. Lui, accanto al guidatore, tiene il braccio fra i due sedili anteriori ed il gomito è davanti ai miei occhi. Una piccola protuberanza rotonda, scura, liscia. Lo sguardo scivola lungo l’avambraccio fino alla mano, piccola, unghie curate, dita forti. Fa caldo, c’è l’aria condizionata, ma il calore è nella testa. Mi sposto in avanti ed ora ci tocchiamo. Pelle fresca, cerco di non pensare. I due, dietro di me, si accarezzano – brividi sulla schiena.

Scena II Area di servizio. Sosta. Scendono per un caffè, io rimango in macchina. Lui ritorna con una lattina ghiacciata che faccio scorrere sul collo e sulla nuca in cerca di refrigerio. Primo piano sulla lattina. La apro. Gocce di coca cola schizzano il suo braccio ed iniziano a colare giù. Richiamo irresistibile. Chiudo gli occhi e raccolgo il liquido con la lingua, giù, giù, fino al gomito che mi riempie la bocca. Disegno piccoli cerchi concentrici con la lingua, assaporando il gusto di pelle morbida e profumata.

Scena III Primo piano sulle mani posate sulle mie ginocchia. Contatto fra pelle fresca, bagnata, e gambe bollenti, sudate. Carezze. Mi sento scuotere, apro gli occhi ed il braccio è ancora lì, siamo arrivati al mare. Ho dormito, ho sognato. Faccio per scendere e la lattina, che avevo tra le gambe, si rovescia su quel gomito, sorrido e lo accarezzo facendo finta di asciugare.

NASO – Esse

Se qualcuno le avesse chiesto cosa l’aveva colpita di lui non avrebbe saputo rispondere. Il tono quieto della voce, forse, le spalle larghe, oppure la sua gentilezza discreta, quel modo di essere sempre presente, attento alle piccole cose senza essere invadente. Non lo sapeva, un insieme di particolari; eppure qualcosa le sfuggiva, qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco. Iniziò a fantasticare ad occhi aperti, mentre l’ennesimo semaforo rosso ritardava l’incontro. Immaginò la propria schiena nuda contro il suo corpo, il viso di lui affondato fra le spalle e poi umido, caldo, la lingua che l’accarezzava. Una cosa prominente, dura, le disegnava linee sinuose sul dorso, infinite esse che s’intrecciavano sulla sua pelle come un tatuaggio invisibile, un desiderio incredibile le fece contrarre i muscoli delle gambe. Frenò la sua immaginazione e si concentrò alla ricerca di un parcheggio.
Era davanti al portone ora, battiti cardiaci accelerati, percorse il vialetto d’ingresso ed il respiro, a tratti, le venne meno, suonò il campanello, gambe molli. Una voce dall’interno, la sua voce: “E’ aperto.” Entrò in casa e lui era lì, nella penombra di un pomeriggio afoso, che le sorrideva. Chiuse la porta lentamente, prendendo tempo per permettere al suo cuore di calmarsi, far cessare quei battiti che le rimbombavano nelle tempie. Gli diede le spalle appoggiandosi con tutte e due le mani alla porta, come per assicurarsi che fosse chiusa davvero, alla ricerca, in realtà, di un sostegno ulteriore, visto che le gambe non sembravano voler fare il loro dovere. Lui la raggiunse e, abbracciandola, le posò il viso sulle spalle premendolo forte e lasciandola, per un momento, senza respiro. Un sorriso la illuminò, si voltò e lo guardò, sguardo limpido, sorriso timido; ecco il particolare che le era sfuggito, ciò che davvero l’aveva colpita senza che se ne rendesse conto, l’unico tratto audace, impertinente, quasi arrogante in quel volto dagli occhi dolci, l’improbabile matita che disegnava volute invisibili sulla sua schiena: il naso! Quella singola parte prominente, così virile da provocarle il desiderio inconscio di commistioni promiscue. Un lampo malizioso le balenò negli occhi, gli sfiorò le labbra e poi glielo mangiò avidamente.

BOCCA – Il dentista

Sdraiata sulla poltrona, con le gambe allungate, si sarebbe sentita a suo agio se non fosse stato per quella luce al neon sparata negli occhi e per l’odore di disinfettante che pervadeva la stanza. La tensione le fece inconsciamente serrare le dita sui braccioli, lui si infilò i guanti, preparò gli strumenti e le si avvicinò sorridente. Con quello sguardo pacifico non le avrebbe fatto mai del male, pensò per un attimo, chiuse gli occhi, aprì la bocca e gli si consegnò con rassegnazione.
Si aspettava che, da un momento all’altro, lui azionasse il trapano scuotendole i nervi già tesi, invece, un sottofondo di musica jazz invase l’ambiente, una tecnica per rilassare i pazienti, pensò, e poi cominciò ad esplorarle la bocca. Con un pollice le teneva la lingua, mentre con l’altra mano le carezzava le gengive modificando la pressione delle dita a seconda delle esigenze. Per un attimo le immagini che le si formarono in testa la imbarazzarono, nessun uomo aveva mai penetrato la sua bocca con una tale delicatezza e, allo stesso tempo, con fermezza ed autorità. Sentiva la consistenza della lingua sotto le sue dita, mentre le alzava dolcemente le labbra per infilare i tamponi. Il sibilo stridente del trapano la riportò alla realtà, riaprì gli occhi e lo sguardo bonario del suo dentista la fece sorridere mentalmente.

ORECCHIE – Cotton fioc

Fin da piccola uno dei momenti più belli della giornata era l’ora del bagno. Una quieta pausa fra un gioco e l’altro, sola con mia madre che si prendeva cura di me. Dopo il bagno mi avvolgeva nell’accappatoio e mi sdraiava sul letto, per la “reazione” diceva, in realtà si concedeva anche lei una tregua lasciandomi sulle lenzuola, tranquilla che, per un po’, me ne sarei stata buona lì, accucciata nel caldo umido tepore della spugna. Tornava dopo una decina di minuti, mi cospargeva di talco profumato, mi infilava il pigiama ed io mi accoccolavo sulle sue ginocchia in attesa della pulizia delle orecchie. Mi assoggettavo volentieri a quella che la maggior parte dei bambini considera una tortura, perché quella semplice operazione d’igiene quotidiana mi dava un piacere immenso. Sognavo di essere un elfo che viveva in un mondo minuscolo, costruito all’interno degli alberi, fatto di grotte e di cavità che attraversavo lasciandomi scivolare lungo percorsi infiniti che si attorcigliavano su sé stessi fino a toccare il fondo di questo mondo immaginario.
Ancora oggi provo un sottile piacere quando mi accarezzo le orecchie, fingendo di aver bisogno di pulizia. Non è strano quindi, che mi sia innamorata grazie ad un cotton fioc. Tre volte alla settimana nuoto dopo il lavoro, ed è lì che l’ho conosciuto, compagno di corsia. Un tipo di poche parole, ma molto cortese. Tra una vasca e l’altra ci siamo scambiati qualche battuta sulla comune passione per l’acqua ed abbiamo deciso di iscriverci alle gare indette dal nostro circolo sportivo. Il primo giorno di gara ero molto tesa, avevo dormito poco, sono arrivata tardi e sono entrata in acqua senza prima riscaldarmi. Dopo i primi cento metri un crampo al polpaccio, ma ho continuato lo stesso a nuotare, appena poche bracciate ed un nuovo crampo al piede…poi più niente. Ho ripreso i sensi a bordo vasca, circondata da volti preoccupati che muovevano le labbra, ma non udivo alcun suono. Ho chiuso gli occhi e qualcuno mi ha portata in braccio fino ad una panca vicino all’infermeria. Lui è arrivato immediatamente, si è seduto, mi ha sollevato la testa e l’ha adagiata sulle sue ginocchia. Istintivamente mi sono accucciata su un fianco mentre mi accarezzava i capelli, poi con una naturalezza inaspettata ha preso un cotton fioc ed ha iniziato a passarmelo nell’orecchio che gli offrivo. Esplorava ogni piega con delicatezza, accarezzava dolcemente l’esterno per poi andare in profondità, facendomi provare una sensazione di piacere incredibile. Sentivo un calore violento salirmi sulle cosce ed immaginavo le sue mani che mi sfioravano diventando sempre più insistenti. Ho aperto gli occhi, le guance in fiamme, il suo viso chino su di me che mi guardava con un espressione indefinita di desiderio e perplessità. La voce al megafono chiamò il suo nome per la partenza e si allontanò a malincuore.

MANI – Guanti

Le mani le davano da mangiare, ma non nel senso comune del termine. Dall’età di sedici anni, infatti, le sue mani bianche ed affusolate, sempre curate perfettamente, erano state notate dal responsabile di un’agenzia pubblicitaria che le aveva offerto un contratto per una serie di spot. Al momento le era sembrata una magnifica opportunità ed aveva accettato l’offerta, vincolando le sue mani ad una nota società di cosmetici per otto anni. Non aveva considerato il fatto che, da quel momento in poi, quelle mani non le sarebbero più appartenute, staccate dal corpo, così come apparivano sui manifesti, in televisione e sui giornali, e, soprattutto, staccate dalla testa visto che non potevano ubbidire alle sue esigenze, racchiuse costantemente da due paia di guanti in inverno, e dai soli guanti di cotone in estate. Ogni sensazione era filtrata dal tessuto che le imprigionava le dita; il sole, il vento, la pioggia, la sabbia, le mani di un uomo, nulla poteva sfiorare la sua pelle candida e lei, d’altro canto non poteva toccare niente senza la protezione dei guanti. L’unico momento in cui era libera era durante le foto o le riprese pubblicitarie.
Le sue amiche le raccontavano delle loro prime esperienze, di quanto era dolce la pelle dei ragazzi, e soffici i loro capelli, e lei la sera, da sola nel letto si accarezzava sognando, senza sentire il fremito del proprio corpo se non attraverso i guanti. Erano trascorsi sette anni da allora, e lei si era chiusa in un mondo isolato dal resto, porcellana di rara bellezza, lontana, irraggiungibile, intoccabile. Gli uomini la sognavano quando le vedevano muovere quelle mani eteree, così bianche da sembrare trasparenti, ma era lei che si sentiva trasparente, privata della gioia del tatto. Così, anche gli altri sensi le si erano assopiti, vedeva, ma non guardava, mangiava, ma non assaporava, udiva, ma non ascoltava, non sopportava gli odori forti ed aveva reso la sua casa, come la sua vita, asettica. Si alzava presto la mattina, come un soldatino addestrato, e si recava al lavoro senza mai un’intemperanza, un gesto di ribellione. In un giorno, uguale a tanti altri, sul set di un filmato per un noto profumo maschile, qualcosa accadde. Aveva girato la scena, la stessa, tante volte e con partner diversi. Il tema era sempre lo stesso, doveva sbottonare i bottoni della camicia di un uomo fin quando questo non l’avrebbe fermata, afferrandole i polsi. Si accorse che qualcosa di strano stava accadendo mentre si sfilava i guanti. Le sue mani sembravano agire indipendentemente da lei, e quel gesto consueto si trasformò in un vero e proprio streap che lasciò i tecnici e gli addetti ai lavori senza parole. Dapprima fece resistenza, ma ben presto si abbandonò con curiosità alla situazione, sentendo che anche gli altri sensi si risvegliavano e rispondevano al richiamo di quelle mani che, troppo a lungo l’avevano repressa. Nessuno sul set si muoveva, il fiato sospeso dinanzi alla manifestazione di una tale vitalità. Si avvicinò alle spalle dell’attore ed iniziò a sbottonargli la camicia, piano, con sensuale lentezza e lui, seguendo un riflesso condizionato, tentò di fermarla al terzo bottone, come da copione, ma nessuno avrebbe potuto fermare quelle mani che proseguirono lentamente fino alla cintura, e poi alla chiusura lampo ed infine si insinuarono fra le gambe di lui, accarezzando, esplorando e stringendo quella parte così calda e morbida che, via, via, s’irrigidiva sotto lo sguardo incredulo di tutti i presenti. In un silenzio complice e discreto nessuno interruppe quel momento di conoscenza, desiderio, voluttà, amore e passione, neanche l’attore che non aveva mai sentito un tocco così leggero e sensuale. Quando furono soddisfatte, le mani, con naturalezza, senza rivestirsi, si allontanarono avviandosi verso l’uscita. Il freddo metallo della maniglia di una porta e la superficie liscia e continua di un corrimano accompagnarono la ragazza fino alla soglia di un mondo sconosciuto che da allora non avrebbe più avuto segreti per lei.