I toscani hanno un nonsoché che non è normale. Voglio dire: comune. I toscani sanno prendersi in giro e hanno sempre la battuta in tasca da tirar fuori al momento opportuno.
I toscani anche se ci hanno un problema non drammatizzano e ci sanno vivere, con il loro problema, anzi: ci fanno su dell’ironia coi loro problemi, anche se questo non vuol dire che loro i problemi non ce li abbiano: ce l’hanno eccome ma ci fanno dell’ironia su, ecco tutto. Io credo che se Leopardi anziché a Recanati fosse nato in Toscana ci avrebbe fatto un paio di risate sulle sue sfighe.
È probabile che, se Leopardi fosse nato in Toscana, non sarebbe stato così malinconico e si sarebbe divertito un po’ di più durante la sua tormentata vita. E infatti Leopardi l’aveva pure frequentata la Toscana se non sbaglio; ché si vede lui la buona volontà ce l’aveva pure messa di trovare qualcosa di allegro nella vita, ma non a sufficienza, ché lui dentro la villa paterna di Recanati ci aveva ormai passato troppo tempo. Secondo me doveva proprio emigrare da giovane se voleva salvarsi, e fatta finita. Ché poi s’era scelto Napoli, e già un bel passo avanti l’aveva fatto, però secondo me se si fosse trasferito in pianta stabile a Firenze non si sarebbe attirato tutte le sfighe che invece si è attirato.
Ché poi non è questione di avercela con i marchigiani, tanto di cappello a tutti i Giacomi Leopardi, i Beniamini Gigli, i Gioacchini Rossini e via discorrendo, ma sono le persone ad essere diverse, voglio dire: come la pensano. Ché in Toscana la pensano più positiva, la vita, di questo sono sicura. Ché il toscano ci nasce con la voglia di prenderla bene, la vita, di divertirsi, mentre il marchigiano no, lo so io come sono i marchigiani, in generale voglio dire, non in specifico, mica si può fare di tutta l’erba un fascio. Però è così che uno nasce nelle Marche: già con l’aria un po’ sfigata, con la convinzione che la vita è dura, quasi una fregatura, non lo so perché ma è così, mentre per un toscano no: la vita va vissuta con allegria insieme agli altri. Compagnoni, ecco. Compagnoni: i toscani sono compagnoni. I marchigiani invece no, su questo non ci piove.
Che poi magari proprio perché è nato a Recanati Leopardi ha scritto quello che ha scritto, mentre se avesse abitato in un’altra regione forse tutte quelle cose più o meno belle che ha scritto non le avrebbe scritte, ma altre, e allora Leopardi non sarebbe stato Leopardi, ma cioè di nome lo stesso, Leopardi Giacomo, ma un’altra persona dentro, e quindi anche fuori, cioè per iscritto.
Comunque tutto questo per dire che in Toscana mi sono sempre accadute cose che altrove non mi è mai capitato né di sentire né di fare. Ad esempio l’erotismo. Voglio dire: tutti più o meno lo sappiamo cos’è l’erotismo, anche i marchigiani lo sanno cos’è l’erotismo: debbono saperlo anche loro cos’è l’erotismo. E che differenza c’è fra erotismo e pornografia… e che differenza c’è fra vedere e immaginare… tra vedere e intravvedere… eccetera eccetera. Se ne sono dette e pensate tante, e poi, a conti fatti, solo nella propria testa uno ce l’ha ben chiaro questo concetto di erotismo, che a parole mica è sempre facile capirsi. Però in testa uno il concetto ce l’ha, e ben chiaro. Non è una spiegazione: è una sensazione, che è diverso; che fa scattare un meccanismo nel cervello per il quale tu dici: ok, ho capito, ce l’ho ben chiaro cos’è l’erotismo. E così tutti ce l’abbiamo presente cos’è l’erotismo, anche se ognuno a modo suo.
Insomma in Toscana c’è l’erotismo. Almeno io l’ho incontrato lì la prima volta, non voglio dire dei marchigiani, ma a conti fatti è lì che l’ho incontrato.
Per l’appunto si chiamava Giacomo. Aveva quattordici anni. Io undici. Lui terza media, io prima. Un’altra sezione ma stesso corridoio. Ci si incontrava a ricreazione. Lui faceva casino, io no. Lui invece di mangiare la merenda faceva gli scherzi. Io mangiavo la merenda e guardavo lui che faceva gli scherzi. Era moro, occhi neri, alto per la sua età, secco.
Io stavo zitta, non dicevo niente a nessuno, ma tutti lo sapevano che a me piaceva Giacomo. Forse anche Giacomo lo sapeva che mi piaceva lui. Io non lo sapevo se a Giacomo piacevo io. Alla fine dell’anno io venni promossa in seconda, lui fu neanche ammesso all’esame.
C’erano quelli che per la promozione ricevevano un regalo. Io, siccome ero stata promossa e quindi non avevo fatto altro che il mio dovere, non ricevetti nemmeno un regalo, però potevo spassarmela tutta l’estate al mare. A Giacomo invece, che non era stato promosso, toccò la punizione. Per chi veniva bocciato, la punizione consisteva nel lavorare durante l’estate. Per Giacomo fu lavorare da sua sorella.
Guarda caso la sorella di Giacomo di mestiere faceva la parrucchiera, e guarda caso mia madre in quel periodo andava proprio a farsi i capelli dalla sorella di Giacomo.
Quel giorno, guarda caso, io non feci storie per accompagnare mia madre dalla parrucchiera e – sempre guarda caso – quel giorno mi venne l’idea di darmi una spuntatina. Così, tanto per togliere le doppie punte.
Sempre guarda caso, i miei capelli erano rinomati perché belli lunghi, lisci, né grassi né secchi; molte mie compagne di scuola invidiavano la mia chioma fluente e sempre avevo amichette e cuginette che facevano a gara per potermici metter su le mani, nei miei capelli, per darmi una strecciatina o farmi una pettinatura.
Insomma: accompagno mia mamma dalla parrucchiera e lì c’è Giacomo. Quando mia mamma dice Anche lei deve tagliarsi i capelli, la sorella di Giacomo fa occhietti furbi, occhieggia insomma, ché non so come mai ma pure lei doveva averlo capito che a me piaceva Giacomo. E allora, sempre con occhietti furbi, la sorella di Giacomo dice a Giacomo: Intanto che io faccio la signora, tu fai lo sciampo a lei.
Ché a lei sarei stata io, vale a dire: che la sorella di Giacomo aveva ordinato a Giacomo di fare a me lo sciampo, e siccome quella era la punizione di Giacomo per la bocciatura, cioè di ricevere ed eseguire tutti gli ordini che gli sarebbero stati impartiti da sua sorella, allora lui mica poteva tirarsi indietro e dire che no non me li avrebbe lavati i capelli.
Al che io lo vedo che Giacomo è un po’ titubante, nel senso che cerca con occhi imploranti gli occhi di sua sorella, ma sua sorella non fa una grinza e si mette a maneggiare sapientemente la testa di mia madre e ci lascia soli lì in piedi nella zona lavaggio. Al che io e lui ci guardiamo e lui fa la faccia di quello che Mi tocca farlo, mentre io di quella che Se proprio ti tocca…, anche se in realtà la mia è solo una faccia d’occasione, in quanto quello che penso davvero è tutt’altro, ovvero Ci speravo.
Perché così era: che ci speravo proprio tanto che Giacomo mi facesse qualcosa, e per il momento mi bastava che mi toccasse i capelli, che per me era la cosa più bella che Giacomo potesse farmi, che era come dire che li affidavo a lui, i miei capelli, e che quindi lui poteva toccarmeli, i capelli, anzi a dir la verità, vista la punizione, doveva toccarmeli, i capelli.
Così mi accomodai sulla seggiola e piegai la testa all’indietro. Giacomo era al suo primo giorno di lavoro e mi sentivo un po’ cavia e molto al settimo cielo.
Allora lui prese il telefono della doccia, si fece scorrere l’acqua sulla mano finché non fu abbastanza calda e iniziò a bagnarmi i capelli, e a me, che me ne stavo a occhi chiusi con la testa all’indietro seduta sulla seggiola, sembrava che fosse lui ad accarezzarmi i capelli con tante piccole dita d’acqua. Poi Giacomo doveva versare lo sciampo ma non sapeva quanto, così lo chiese a sua sorella e io sentii una quantità forse esagerata di sciampo pesarmi freddo sulla testa e colarmi lungo i capelli.
Ora lui doveva proprio mettercele le sue mani tra i miei capelli: non poteva mica farne a meno. Ora doveva proprio toccarmeli i capelli, con tutte e dieci le dita, e affondarle fra i miei capelli, le sue dita, e arrivare fino alla cute per insaponarli bene, i capelli, far penetrare la schiuma, usare tutte e due le mani, tutte e dieci le dita, passarmele sulla testa, frizionare, toccare. Doveva farlo, mica poteva tirarsi indietro.
Così sentii le sue dita che incerte entravano nel folto, tastavano, frugavano, sentii che allisciavano, strusciavano, si muovevano. E io stavo lì, con la testa reclinata all’indietro, a occhi chiusi, e lui alle mie spalle, con i miei capelli fra le mani, che erano cosa sua in quel momento, i miei capelli: a lui spettavano in quel momento i miei capelli, solo a lui.
Fu un lavaggio breve ma intenso. I miei capelli furono sciacquati, qualche goccia mi colò lungo il collo, s’infilò sotto l’asciugamano e andò a bagnarmi la maglietta.
Prima di farmi alzare, Giacomo mi frizionò la testa con troppa poca energia. Per paura di farmi male, disse. Io dissi No no fai pure. Te li tiro? chiese. No no, dissi, non me li tiri.
Mi alzai. Era la prima volta che lo facevo, disse lui.
Anche per me era una prima volta, ed era stata meravigliosa. Ma questo lui non lo sapeva, che adesso s’era aperto quel cassetto del mio cervello, che dentro ci si era sistemata quella sensazione, e che per sempre e per sempre l’avrei poi conservata così nella mia memoria. È questa la mia sensazione di erotismo, l’immagine che mi si affaccia al cervello quando faccio mente locale su questo argomento. Lui, Giacomo, non lo ha mai saputo che questa è l’immagine che conservo, che il mio cervello ha catalogato e messo in archivio.
Forse, se non fossi nata in Toscana, oggi non sarebbe questa la mia sensazione di erotismo, vallo a sapere. Così: tanto per dirne una che mi è accaduta quando abitavo ancora là.
Che poi di Giacomo non ne so più nulla: per quanto mi riguarda potrebbe abitare a Katmandu o ancora lì, essere diventato un azionista della fiat o un allevatore di mastini napoletani, un operaio dell’italsider come uno stupratore di minorenni, un cocainomane come anche aver messo su un salone di bellezza con sua sorella. Vallo a sapere.