“C’è ancora domani”, di Paola Cortellesi

Mi è accaduto spesso di far parte di una minoranza, in qualche caso veramente esigua, ma, a mia memoria, sono state rare le occasioni in cui ho camminato in perfetta e più o meno beata solitudine come sta avvenendo, in questi giorni, in relazione al film C’è ancora domani scritto, diretto e interpretato da Paola Cortellesi. Grande affluenza di pubblico (mentre scrivo queste righe, il film ha già incassato oltre sette milioni di euro), frequenti applausi in sala a fine proiezione, recensioni tutte positive (se ne trovate una negativa, fatemelo sapere) lungo l’arco che va dal pacato apprezzamento all’entusiasmo spinto fino a proporne la visione nelle scuole. Io, viceversa, sono uscito dal cinema quasi irritato da una sceneggiatura “sbagliata” nel suo punto decisivo, oltre che in qualcuno marginale.

Siamo a Roma nel 1946. Delia è moglie serva e vessata dal marito padrone e violento. Madre di tre figli, si arrabatta fra vari lavoretti per portare a casa i soldi che Ivano (il marito padrone, interpretato da un Valerio Mastandrea che non riesce a essere spregevole quanto pretenderebbe il personaggio) spende giocando a carte in osteria. Delia subisce molto ma sopporta tutto anche per amore di Marcella, la figlia fidanzata con un giovanotto, Giulio, di famiglia popolare ma, vista dalla posizione sociale di Ivano e Delia, benestante grazie alla gestione di un bar.
La futura unione fra Marcella e Giulio è apprezzata da Ivano per il tornaconto economico che ne deriverebbe. Delia, invece, sogna la felicità della figlia e, quando si accorge che anche Giulio mostra sintomi da marito padrone, decide che il matrimonio non s’ha da fare. Si colloca a questo punto il primo passaggio non riuscito della sceneggiatura. Per far saltare il matrimonio Delia convince William, un soldato statunitense, a far saltare con l’esplosivo il bar di Giulio. Come lo convinca non è mostrato né è dato sapere e però sorprende, visto che poche scene prima si evidenzia l’insormontabile barriera linguistica fra i due. Inoltre, se è vero che William si prende a cuore Delia vedendo i lividi procurati dalle botte del marito, sembra forzato che, anziché alla protezione di Delia, William si presti a un attentato dinamitardo per rovinare la famiglia di Giulio (che dovrà “tornare al paese”) e quindi cancellare la convenienza del matrimonio. Tutto si può immaginare ma, anche nel contesto del film, l’episodio appare gratuito.

Il passaggio a vuoto più evidente della sceneggiatura, tuttavia, mi è apparso precisamente quello che vorrebbe essere il senso del film, richiamato in modo esplicito nelle didascalie finali. Quella di Delia è una storia di oppressione e violenza. In questo genera di storie gli esiti raccontati sono sostanzialmente due: quelli tragici (la morte, l’impossibilità di riscatto ecc.) o quelli di superamento della propria condizione (il vessato che si ribella e, qualche volta, vince). Ciò che conta, a mio avviso, è che sia chiaro qual è la posta in gioco, l’oggetto del contendere. Di Delia, per intenderci, avrebbe dovuto essere narrato come e perché scatta la reazione, come e perché sceglie quella particolare via d’uscita. Come mi sembra ovvio, inoltre, tale via d’uscita deve essere coerente con i tratti che definiscono il personaggio. C’è ancora domani non fa niente di tutto ciò. Il desiderio di Delia di andare a votare è una carta tenuta deliberatamente coperta fino alla scena finale, perfino depistando lo spettatore lasciandogli pensare che il certificato elettorale sia una lettera di Nino, un amico meccanico e (ancora) innamorato di Delia. In tutto il film non c’è una parola sul referendum fra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946, né Delia lascia intendere perché identifichi proprio nel voto la sua occasione di riscatto. La conseguenza è che la scelta di Delia (andare a votare di nascosto dal marito) risulta un corpo estraneo rispetto alla storia nonché poco emblematica della prima occasione in cui le donne italiane parteciparono a una votazione politica.

Va da sé che una professionista di talento e esperienza come Cortellesi ha disseminato il suo film di momenti ben recitati e, presi a sé, anche riusciti. La spinta a scrivere alcune considerazioni, infatti, non mi è venuta dal fatto che il film sia irrimediabilmente brutto ma da una certa, e per me incomprensibile, atmosfera da film irrinunciabile e importante. Del resto, se bastasse l’importanza dell’argomento a rendere bella un’opera letteraria o cinematografica, il mondo sarebbe pieno di capolavori. Il che non è.

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