Il libro che mi è rimasto in mente (di Alessandra Buschi)

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Sandro e Dora hanno qualcosa in comune. Anche Sandro se ne è accorto, anzi è stato lui il primo a dirlo, anche se io me ne ero accorta di già.
Così, di primo acchito, non sembra ci siano somiglianze tra loro. Niente di fisico, niente che riguardi gli stessi interessi o scelte di vita che possano condividere in toto.
Si tratta di altro, di qualcosa che veramente mi resta un po’ difficile da spiegare. Intanto, per inquadrare un po’ la faccenda, cerco di dare qualche indicazione. Ad esempio che io e Sandro per certi versi non ci somigliamo affatto, e che anzi spesso siamo distanti anni luce.
Sulle questioni pratiche, ad esempio, siamo molto differenti: io amo l’ordine (in realtà ho un senso tutto mio dell’ordine: non quello fatto di classificatori e cartelline, di pareti sgombre e pulite, di barattoli spolverati e ognuno con su scritto il nome del suo contenuto. Non è di quest’ordine che parlo, ma di un ordine di altro tipo: un ordine tipo sgombero, cioè di cose che comunque hanno una loro collocazione ben precisa, che quando servono so dove andare a cercare, un ordine più che altro teso all’organizzazione, che ha come fine quello della praticità), mentre lui è il mio esatto contrario (non c’è mutanda piegata nel suo cassetto del comò, non c’è numero di telefono che venga riportato nella sua agenda, floppy disk che venga riposto in apposito porta-floppy disk, cd che si trovi nella sua custodia, maglietta che Sandro si ricordi di piegare, arnese che si riesca a trovare dopo che lui l’abbia usato…).
Questo per quanto riguarda la realtà quotidiana, materiale. Per il resto, anche, fra di noi ci sono differenze.
Una di queste è appunto quella che secondo me lo accomuna a Dora: quella che, discutendone, abbiamo chiamata “la possibilità di diventare asfalto”.
Allora: c’è l’asfalto, e l’asfalto è fatto di vari materiali messi assieme (boh: bitume, ghiaia, cose del genere, nemmeno lo so di preciso). Tutte queste cose mescolate assieme e compresse fanno l’asfalto, e l’asfalto fa una strada.
Una strada è fatta per essere percorsa, quindi è utile. Una strada serve per camminare, per recarsi da un posto all’altro, per partire e per arrivare, per portare notizie, per muoversi, per andare a conoscere e vedere, per incontrarsi a casa di amici o per andare a comprare le provviste della settimana, per alzarsi sulle montagne e guardare dall’alto il panorama, per scendere in pianura e arrivare fino al mare.
Quindi la strada è utile, serve. Bene: Sandro dice che, guardando la faccenda sotto un certo punto di vista, tra lui e la strada non ci sono differenze sostanziali, e che lui (tranquillamente, senza far fatica a pensarlo) potrebbe benissimo vedersi nei panni di quell’asfalto.
Lui è un pezzetto di asfalto, dice lui. Un pezzetto che non è più un pezzetto, ma che si è fuso per formare l’asfalto. Una parte di asfalto che non può più essere riconoscibile come individualità in quanto fusa assieme a tutte le altre particelle di asfalto.
Lui si sente una di queste particelle del manto stradale. Senza più consistenza né dimensione, senza più volume né individualità: lui è come l’asfalto, lui è l’asfalto.
Potrebbe benissimo essere asfalto e non gli farebbe alcuna impressione esserlo. Si lascerebbe fondere, si farebbe passare sopra una pressa, si farebbe percorrere da ruote e piedi, e tutto questo non sarebbe così distante dalla sua vita quale essere umano (c’è qualcosa di zen, in questo concetto; o forse di indù, non lo so di preciso. Comunque sia, qualcosa di molto orientale).
Questo Sandro pensa, e questo Sandro ha detto pensa che anche Dora pensi. Anch’io penso questo, sia di lui sia di Dora: che entrambi siano proprio così, uguali in questo senso.
Ecco: la differenza tra me e lui sta proprio in questo: se lui, Sandro, potrebbe idealmente essere asfalto, io, invece, vorrei essere la persona che percorre quella strada.
Io la imboccherei in motorino, quella strada. La seguirei tenendomi prudentemente sulla destra, rallenterei a ogni curva, darei gas prevedendo una salita, cercherei di evitare ricci e gatti che mi tagliassero la strada, manterrei una distanza di sicurezza. E da qualche parte andrei: o verso il mare o verso le colline. A poche centinaia di metri da casa o più lontano, in direzione della costa.
Ecco, è questa una delle differenze fra di noi: che io vorrei andare e che lui invece vorrebbe stare.
In effetti la cosa migliore forse sarebbe fare come fanno gli indiani d’America, che quando si mettono in cammino, ogni tanto sostano perché la loro anima faccia in tempo a raggiungerli. Ecco: forse bisognerebbe trovare una via di mezzo giusta così, ma ho l’impressione che né io né Sandro ci siamo ancora riusciti.
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(da: BUSCHI, Alessandra, Il libro che mi è rimasto in mente, Ravenna, Fernandel, 2000, pp.77-79. Per gentile concessione dell’Editore.)