Le scuole che abbiamo frequentato, i miei fratelli e io, non sono state né opprimenti né troppo severe. Non eravamo sovraccaricati di compiti (o forse, qund’era ora di farli, li facevamo con molto impegno, per poter poi andare a giocare in giardino fino a sera). Tuttavia, anche se in un clima sereno, il rapporto con il nostro primo dovere era vissuto con la massima serietà.
A scuola si andava vestiti e pettinati come se fosse sempre il giorno della cresima; i quaderni e i libri avevano tutti le copertine di plastica, con le etichette per il nome, ed era inconcepibile una pagina macchiata, una rilegatura squinternata.
La mattina, i bambini che si preparavano per le lezioni non erano meno importanti del babbo che si vestiva per andare a lavorare. C’erano maggiori responsabilità; ma anche un maggior senso, e riconoscimento altrui, dell’identità di scolaro, cosa anche gratificante. Tutto questo, alla fin fine, faceva sì che noi ci sentissimo amati.
Oggi i ragazzi vanno a scuola con le scarpe da ginnastica, spettinati, e con i libri vecchi e stropicciati. Non mi è chiaro se i loro genitori sono poveri, hanno fretta, o li detestano.
(da: Per l’aperitivo, Venezia, Mazzanti, 2002, pp. 161)