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Ci incontrammo, il gomito di Canepa Mario e il mio, nell’ultimo banco della terza A. Canepa Mario mi sorrise porgendomi la mano, Canepa Mario mi colpì subito per la sua educazione.
Io all’epoca ero un’emarginata, una non-piacente, insomma una con la quale nessuno voleva averci a che fare. Del motivo allora non ero del tutto consapevole. Come dotazione per attraversare l’infanzia, avevo una madre alcolizzata di gin e dopobarba e sei padri pendolari, uno per ogni giorno della settimana, tutti accaniti consumatori di Acqua Velva. Quello del sabato era il mio preferito perché elargiva una paghetta a patto che sbirciassi dentro la patta, meravigliandomi in gridolini ipocriti del contenuto delle sue pedofile mutande. La domenica era riposo, la mamma si toglieva le ciglia finte e usciva con le amiche vere e io passavo la giornata in giardino a riempire le bottiglie svuotate da bagordi serali e rasature mattutine giocando con l’acqua dello stagno e alla farmacia: vedrà signora che con questa medicina le passerà la voglia di bere.
A volte però perdevo l’equilibrio e nello stagno ci finivo tutta vestita, i girini nel grembiule persi in una tasca piena d’acqua e di stilografiche in disarmo.
Poi m’asciugavo al sole e come se fosse sale disegnavo con le unghie nere graffiti sulla mia pelle verde moccio. I ghirigori di limo rinsecchito mi piacevano così tanto che me li portavo a scuola il giorno dopo. Nessuno voleva vederli mentre io sollevavo la gonna a pieghe spettinate per mostrarli, neanche la maestra che diceva di amare i bambini, ma non tutti perché anche lei era un essere umano.
– Puzzi – mi dicevano i compagni – puzzi di vecchia scarpa da ginnastica dimenticata sul balcone.
– Non ce l’ho il balcone – dicevo io – Io, ho un intero giardino.
Mi chiamavano la zozza anche se non-lavante mi sarebbe piaciuto di più. Adesso capirete perché la gentilezza di Canepa Mario tracciò in me un segno indelebile.
– Ciao, sono Canepa Mario – mi disse, vi dicevo, porgendomi la mano e un sorriso, che sorriso.
– Ciao, sono Pozzi Maristella.
– Puzzi, Puzzi – ripetevano i miei compagni e sembrava che anche l’anagrafe l’avesse fatto apposta.
– Io non sento niente – disse Canepa Mario.
– E che sei, sordo di naso?
Canepa Mario non rispose e si rattristò. Le sue ali del naso, sottili e mobili, vibrarono in un moto involontario, subito interrotto, come un muto che apra la bocca per protestare e poi si penta, ricordandosi di non poter parlare.
Pochi giorni dopo, dopo che il mio compagno di banco aveva già prestato orecchio a chiacchiere proibite durante la lezione, morsi di merenda, il fazzoletto usato e altre attenzioni che non facevano che sorprendermi sempre più, Canepa Mario decise di aprirmi non solo il foglio del compito in classe per farmi copiare, ma anche il suo cuore.
– Sono un bambino malato – mi disse.
– A me sembri l’unico sano, qui dentro – gli dissi io.
– Il fatto è che io ho una di quelle malattie che non si vede, io non sento – e lo disse bisbigliando così tanto che non sentii neanch’io.
– Eh?
– Non sento, non sento!
– Non sto dicendo niente! – urlai.
– Ho capito, non sono mica sordo nelle orecchie!
– E allora cos’hai?
– Cos’avete voi da dirvi, lì in fondo? Fuori, fuori tutte e due!
La maestra ci espulse come un arbitro venduto e io la ricordo ancora la nota sul diario, pagina 12 ottobre, un giorno importante perché conoscevo Canepa Mario da una settimana e perché il mondo nuovo che mi si stava schiudendo grazie a lui, Canepa Mario, per me fu più importante della scoperta dell’America.
Ci ritrovammo, un bambino malinconico e io, con i miei ideogrammi di sporcizia sopra i calzettoni, nell’atrio della scuola e il sole in alto e ore e ore davanti.
– Insomma, di che genere di malattia si tratta?
– Non sento gli odori.
– Nessun odore?
– No, nessun odore.
– Neanche il mio?
– No, di che cosa sai tu?
– Di rose e di lavanda – imbrogliai pensando ai profumi della Standa – e di girini – aggiunsi per non strafare.
– Di girini? Io di odori non me intendo ma non credevo esistesse l’odore di girino, com’è fatto?
– Come un odore di rana ma più piccolo, una punta di scarpa da ginnastica ma proprio una punta e un sentore di insalata di terra ancora bagnata, se tu metti insieme tutte le immagini, puoi avere un’idea di che cosa sanno, come se si trattasse di un collage di odori ma fatto di colori, come quelli che ci fanno fare ad applicazioni artistiche: giallo mal di gola, verde biglietto del tram e marroncino stagno, un colore torbido pulce, hai presente?
– Come i capelli di quella del primo banco?
– Più o meno. Il color pulce, ce l’ha detto la maestra, era molto in voga alla corte di Maria Antonietta perché c’erano le pulci dappertutto e tutti si grattavano da matti, allora i sarti facevano le tinte “pancia di pulce”, “coscia di pulce” e “rossore di pulce”, non ti fa ridere?
– Sì ma, vedi Maristella, io non so nemmeno quello che i cani sanno per istinto, quando penso agli odori la mia testa non pensa a niente, c’è uno spazio bianco pieno d’aria e l’aria è sempre aria, calda o fredda non importa, io non so cosa vuol dire c’è aria di pioggia, oggi. Non posso annusare, non posso fiutare, non posso ricordare e questo, a volte, mi intristisce.
– Cosa c’entrano i ricordi?
– I ricordi, per come me li ricordo, prima di ammalarmi, erano delle immagini con degli odori, poi c’erano i suoni e le parole, ma quelle ti venivano in mente sempre dopo come se affiorassero da qualche altra parte del cervello, ora per me sono solo immagini, un film muto di sensazioni, un cinema senza pop corn. E poi gli odori non sono ambigui, non hanno bisogno della descrizione dei particolari, un odore è quello e basta. Un odore, Maristella, è tutto intero.
Canepa Mario non sentiva nessun odore ma gli piaceva ascoltare il rumore delle parole.
– Da grande farai lo scrittore – gli dicevo io.
– Di che cosa vuoi che scriva se non so più che profumo ha il mare?
– Non ti preoccupare, farai il poeta, il poeta e lo scrittore, io ti aiuterò. Sarò il tuo naso, snuffierò per te.
Più tardi Canepa Mario, quando dovemmo separarci, strofinò il suo naso contro il mio per darmi un bacio all’esquimese e lo fece con un gesto intenso e delicato come se tutta la sensibilità dell’olfatto si fosse travasata nel senso del tatto, come i ciechi ci sentono meglio e i sordi vedono più in là.
Eppure, la sua invalidità sensoriale non si poteva considerare del tutto deprivante, Canepa Mario poteva essere paragonato al massimo a un amnesico parziale o ai daltonici (acromatopsici non congeniti), quelli, insomma, che non distinguono i colori dei semafori ma in un modo o nell’altro si arrangiano ad andare avanti e trovano la loro strada.
Benché all’epoca non avessi alcuna cognizione medica, avevo l’impressione, tuttavia, che le altre forme di percezione e attenzione di Canepa Mario si fossero amplificate per compensazione, come un’acuita capacità di ricordare e usare l’armonia delle parole, un udito da far invidia ai pipistrelli e una dolcezza pervasa in tutto il suo essere da cima a fondo, fin sulla punta dei polpastrelli.
Diventammo inseparabili e trovammo lunghezze d’onda alternative su cui viaggiare.
Io facevo la parte del naso e Canepa Mario era tutto orecchie.
– Cosa c’è per pranzo oggi? – mi chiedeva, vedendo che il vapore della mensa già si condensava in goccioline unte sui corridoi dipinti ad olio della scuola.
– Pastasciutta, spaghetti numero sette col sugo dell’altro ieri.
– E che odore ha, la pastasciutta?
– Odore di Carosello – volevo rispondergli, ma siccome non lo poteva sentire gli dicevo – odore di niente, la pastasciutta della mensa non sa mai di niente, niente di quello che si mangia qui sa di qualcosa, non perdi nulla, lo sai anche tu – e lui si rincuorava.
A differenza di altri anosmici di cui ho avuto notizia di recente, Canepa Mario, conservava intatta la sensibilità del gusto.
– E che odore hanno i miei piedi? – mi chiedeva per scherzare.
– I tuoi piedi hanno odore di colore di cielo prima che piova.
E lui capiva e poi rideva o almeno così sembrava.
– E la maestra?
– Odore di gonna beige a trapezio in tweed che pizzica la pelle, arriva appena sotto le ginocchia e si appoggia ruvida su calze carne di pollo. Ci sarebbe anche l’odore di mummia che è il colore dei quadri vecchi dei musei, dove c’è un sacco di polvere e devi sempre parlare piano.
– E quello di ginnastica, invece?
– Odore di colore di campo di calcio dietro casa, con l’erba rognosa a ciuffi e i pali della porta ingialliti dalla piscia dei cani.
Canepa Mario e io, persi nel nostro universo sinestesico, divagavamo sul mondo cercando un punto di vista comune per descriverlo e capirci qualcosa.
– Maristella Puzzi. Ma non per me.
– Ti voglio bene, Canepa Mario.
E non ho mai smesso di farlo.
da: MANDER, Marina, “Anosmia”, in Manuale di ipocondria fantastica, Ancona-Milano, Transeuropa, 2000, pp. 33-39