Generations of love (di Matteo B. Bianchi)

Da piccolo sapevo anche che il mio amico Claudio era come me, qualunque cosa quel “come me” volesse dire.
Non ricordo di aver mai conosciuto Claudio. È lì, da sempre, nelle mie memorie d’infanzia, come se ci conoscessimo già prima della scuola, prima dell’asilo, prima dei giardinetti, prima delle carrozzine, prima di nascere. Forse si conoscevano le nostre mamme, e noi ci siamo percepiti così, telepaticamente, da pancione a pancione, quando loro si incontravano per le strade del paese.
Certo è che già nella famosa tenerissima età io e lui facevamo coppia fissa, e non come amici del cuore, ma come qualcosa di molto più profondo e sfuggente, che anche gli altri percepivano chiaramente, ma faticavano a definire.
Complici.
Questa è la parola che cercavano.
Io e Claudio siamo stati alleati perfetti in una guerra che combattevamo senza sapere di essere al fronte.
Eccoci lì, per esempio, svafillanti e frementi per la serata più “in” dell’intero programma delle manifestazioni culturali di Lentate Trovanti per i cittadini in età elementare: la Sfilata delle Maschere al cinema dell’oratorio.
Ci godiamo lo spettacolo seduti in platea, circondati da bambini scatenati nei loro vestitini da Carnevale. Noi due, con precocissimo gusto per la distinzione, indossavamo maschere del tutto inusuali: Giulio Cesare, io, ed Ettore Fieramosca, lui (ancora oggi mi chiedo chi fosse questo Ettore Fieramosca: il vestito comunque era tipo pirata, ma con mantello, azzurro). Stavamo lì, tutta la serata, a bearci della passerella. Da spettatori, naturalmente. Mai avremmo accettato di presentarci noi stessi sul palco per subire l’esame con votazione dei giurati adulti seduti nell’angolo. Stare in platea era mille volte meglio: nessuna rivalità, nessuna frustrazione, e piena libertà di prendere in giro di tutti i partecipanti. Ed eravamo così piccoli, mio Dio, che ancora oggi non mi capacito di come potessimo essere già così vipere.
Per dirne una, rivedo questa immagine, precedente alla sfilata, di bambine che si incontrano nel foyer: una chiede all’altra – Da cosa sei vestita? – ma, prima che l’amichetta possa rispondere – Da damina -, Claudio interviene e spara un – Da battona del ‘700 – talmente riuscito che la madre della damina, a un passo da noi, gli tira un sonoro ceffone sulla nuca, accompagnato da uno scandalizzato commento dialettale – Brut sfacià! – (Brutto sfacciato, per i non Lentatesi in ascolto).
Le nostre vittime, comunque, erano a dir poco sacrificali: si buttavano tra le fiamme dei nostri commenti completamente ignare della loro sorte. Felici del loro status mascherato, attraversavano il palcoscenico con sbalorditiva ingenuità e identici vestitini: decine di Contadinelle, centinaia di Zorro e miliardi di Fatine. Indistinguibili fra loro, subivano l’introduzione laconica della presentatrice (- E adesso: Cremonesi Giovanna, vestita da Fata dai Capelli Turchini!-), i voti annoiati della giuria (6,6,6,7,6,10 (il papà di Giovanna), 6,6,6) e gli urli nostri.
In questo scenario desolante, giocoforza doveva vincere per tre anni di seguito un costume rimasto icona nella mitologia personale mia e dell’amico Claudio. Oh, l’emozione, il delirio, quando veniva annunciato il nome: – E ora: Brambilla Luciana, Regina delle Nevi -. Scintillante di nulla, si presentava sul proscenio questa dama bianca, che conosciuta di persona tendeva molto al rozzo, ma lì, sotto i riflettori, irradiava glamour infantile a mille, con l’abito bianco dalle maniche penzolanti in stalattiti di ghiaccio, questo lungo strascico e la corona. Che cosa rappresentasse realmente, a quale personaggio fiabesco si ispirasse, poco importava. Il solo potere evocativo di quel “Regina delle Nevi” si stagliava come un diamante sonoro scagliato nell’immobilità della serata. E il costume, una sorta di abito da sposa di pizzo e plastica trasparente cuciti insieme, con evidenti premonizioni cyberpunk, era un tale splendore da lasciare tutti mesmerizzati. – Favolosa! – gridavamo io e Claudio all’indirizzo della giuria, ma non era necessario influenzarli. La vittoria di Luciana era inevitabile per evidente superiorità stilistica. Ogni volta, un trionfo. Destinato probabilmente a ripetersi all’infinito, se non fosse che improvvisamente il cinema venne chiuso per inagibilità e la manifestazione sospesa per sempre. (Ferite infantili che non si rimargineranno mai più. Privarci di un tale spettacolo per stupide cause strutturali. Il trauma più doloroso della mia giovinezza grava tutto sul parroco del paese).
_____

(da: BIANCHI, Matteo B., Generations of love, Milano, Baldini & Castoldi, 1999. Per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore).