Genesi di uno pseudo-scrittore
Notte insonne, mente affollata. Comunque notte.
Questo è il mio stato attuale, alla continua ricerca di una storia che valga la pena di essere raccontata.
Errore.
Ogni storia vale la pena di essere raccontata, almeno ogni storia che si senta tale, che sia consapevole della propria originalità e del proprio universo.
So solo rincorrere. So solo invecchiare silenziosamente.
Libri, pagine, segni uno dopo l’altro si susseguono in un’esistenza deforme, vecchi e nuovi scrittori in una battaglia senza tempo … ed io che non sono il signor Plum, che non apro il mio cuore e mi ci frugo dentro.
Non c’è niente di più crudele di uno scrittore senza storie da raccontare, senza una mente in fermento ed una mano agile.
Ci vogliono poesia e sentimento e la mia vita, adesso, ne è priva. Ci vuole spirito. Ci vuole talento.
CI VUOLE IL MALEDETTO TALENTO.
Ci vuole qualcuno che con cinque parole in fila riesca a comporre una melodia di pensieri. Ne bastano poche di parole, se sono quelle giuste, ed ogni cosa ne ha una esatta per essere descritta.
PAROLE E PENSIERI.
Uno pesca qua e là idee, parole, personaggi, poi si crea il proprio stile. Il mio si sta delineando in modo del tutto naturale, è un susseguirsi di pensieri che affluiscono senza un ordine logico e così lo riporto.
Io scrivo per me. Uno scrittore dovrebbe scrivere anche per gli altri.
Gli altri non sempre possono capire ciò che il cervello elabora, gli altri possono non apprezzare ciò che la mano riporta.
L’unica vera estimatrice di Ilaria è se stessa.
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Il signor Plum, ipotesi di racconto
Il signor Plum, anche quella mattina, come sempre, alzò gli occhi al cielo, si portò il dito pollice al centro delle labbra, quasi come se volesse riflettere un po’. Poi se lo fece scivolare da destra a sinistra, si guardò intorno, guardò dentro se stesso e, con voce sicura, affermò – Il cielo oggi sarà azzurro. Come ieri, del resto!
Per quale motivo egli si ostinasse, ogni mattina, a prevedere il colore del cielo, in molti se lo sono chiesto e tuttora lo fanno.
Se qualche volta vi capiterà di passare dalle parti di xxx, potrete sicuramente scorgerlo, con il suo buffo cappello rosso di lana, in un simpatico monologo – tra sé e se stesso – tra la parte di uomo che è rimasta in lui e la parte che lo ha reso così, come privo di vita: il sogno.
Già Nietzsche ha cercato di dare una spiegazione razionale a questo mondo, invece, così irrazionale. Il sogno è lo zucchero dell’anima, ci addolcisce la vita e ci stende un velo rosato di fronte agli occhi. No, il signor Plum non era Nietzsche, ma si era creato, lo stesso, la sua filosofia di vita che lo vedeva rimbalzare nella grigia quotidianità, quasi come se poggiasse i piedi su di un terreno appiccicoso e li muovesse in continuazione per non rimanere impigliato in un mondo che non è il suo.
Continuiamo, ancora una volta, a domandarci chi è il pazzo qui. Chi accetta le cose come sono, senza porsi domande o chi, nel suo piccolo, si apre il cuore, ci fruga dentro e ne tira fuori qualcosa di vivo?
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Oro
Oro.
È ciò che mi viene in mente pensandoti ed è ciò che mi hai insegnato ad amare.
Un’estate che già odorava d’autunno aveva invaso le strade lasciando qua e là spruzzi di stelle cadenti e notti in riva al mare. Ed io, nella più ferma convinzione di restare quella che ero.
Il nome della città non importa. Cosa conta una via o l’altra, cosa vuoi che voglia dire lo sguardo di questo o di quel passante, quando certe cose non hanno né tempo né luogo? Se il cielo fosse stato grigio o se l’aria fosse stata pungente?
Chi se ne frega!?!
C’è solo oro intorno a me. Adesso. Nel ricordo di quel giorno.
Oro.
Capitai nel tuo studio con la scusa più cretina. Ma vera.
Un’amica mi aveva dato il tuo indirizzo. Sapeva che stavo per traslocare nella nuova casa, sapeva del mio desiderio di affrescarne una parete.
– Mi scusi, non so se ho suonato il campanello giusto, stavo cercando un certo signor Marco … dovrebbe fare il pittore … (Cretina!) –
– Non ha sbagliato. Prego. – E mi facesti cenno di entrare.
Oro.
È quello che vidi sulle tele accantonate in ogni angolo dello studio e gli schizzi sulle pareti e le macchie sui tuoi vestiti, perfino sul tuo viso.
Ebbi un momento di buio, poi iniziai.
– Buongiorno, mi ha dato il suo nome Cristina … – Non mi facesti nemmeno finire.
– Cristina … mi vuole troppo bene! Mi ha addirittura definito “pittore”. –
Oro.
Non riuscivo a staccare gli occhi da tutto quell’oro che mi riempiva lo sguardo.
Vienna. Österreichische Galerie. L’ho contemplato per circa un quarto d’ora. Non me lo immaginavo così grande. Mi ha tolto il fiato.
La donna sta in ginocchio, avvolta in un abbraccio di colori. L’uomo la tiene tra le braccia, è costretto a celare il suo volto, lasciando che quello di lei si mostri in tutta la sua bellezza nella cornice di uno splendido bacio.
– Si può affrescare la parete della mia camera da letto con “Il bacio”? – Chiesi.
Oro.
È quello che scintillò dai tuoi occhi in quel momento, quasi avessi proferito la formula magica.
Mi prendesti per mano, senza dire una parola, in un silenzio incontaminato che rasentava l’irreale. Il bello è che questo tuo gesto non mi turbò affatto, quasi come se avessi saputo da sempre ciò che stavi per fare.
C’era una tenda rossa in fondo alla stanza che, appena scosta, lasciava intravedere una parete. Fu verso quella parte che ci dirigemmo ed avvenne tutto talmente in fretta che, non so come accadde, ma mi ritrovai di fronte il figlio prediletto di Klimt e l’oro mi accecò la vista.
– Non lo so se certe cose accadono perché sono le linee di un disegno infinito o semplicemente perché devono accadere, ma trovo tutto questo stupefacente …-
– …Tutto quest’oro mi ha dato alla testa … – Questo fu quello che seppi dire e, giuro, avrei preferito affogarmi in un mare di alcool, piuttosto che formulare una sequenza di parole così banale.
– …Tutto quest’oro ci è entrato dentro … –
In quanto ad originalità, il pittore non era da meno, pensai.
Ed allora primo piano sul suo volto, poi sulle sue mani ed ecco il cinema.
La stanza disadorna si scorgeva tra barattoli di vernice, pennelli, tele nuove, tele incomplete, tele distrutte e stracci disseminati un po’ ovunque. Con un cambio di inquadratura si riusciva a catturare la poca luce che filtrava dalle persiane, si sbatteva contro il muro ed illuminava il volto dei due amanti: chiudendo gli occhi e inalando aria era sicuramente oro quello che sentivo.
Ogni minuscola cellula del mio corpo pulsava di vita e, non so se fosse dovuto all’odore di solvente che impregnava la stanza, o al caldo che mi prosciugava la bocca, ma ogni boccata d’aria che inspiravo non faceva che rafforzare il presentimento che quella giornata avrebbe cambiato la mia vita.
Parlammo e parlammo, io ed il pittore, in quella tarda serata estiva che ci ritrovammo la luna in braccio adagiata sulle nostre ginocchia, quasi volesse essere cullata da quel nostro movimento costante.
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Fine millennio. O quasi.
Il cielo plumbeo di oggi riesce ad offuscare il ricordo di quell’ormai lontana sera satura di attimi non afferrati e di giorni troppo lontani per essere rimpianti.
Non c’è dolore, ma consapevolezza.
Mi resta tutto dentro, come in un vecchio album di fotografie che alberga in una cavità del mio cuore, al riparo da tempeste emozionali ed uragani psicologici.
Mi restano un piccolo ritratto, dedica allegata, arrivato anni dopo da un lontano paese africano. Dice così: “Vivo in un ricordo delineato da tratti dorati. Per sempre.”
La vita rivela, in ogni caso, una sua saggezza e lascia gli eventi del cuore incontaminati, alimentati dalla bellezza di quei momenti fermati per l’eternità nella cornice di uno splendido bacio.