La farina del sacco di Farinetti

Oscar Farinetti

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 25/03/2014 nel sito antoniomessina.it]
Da qualche tempo, sulla stampa cartacea o telematica, accade sempre più spesso di incontrare il nome di Oscar Farinetti. Mi dicono che il titolare del nome è presente sempre più spesso anche in televisione ma io, televisione non avendo, non posso confermare questo fatto. Quello che posso dire, invece, è che a ogni piè sospinto Farinetti è cercato, interrogato, presentato come esempio di imprenditore di successo e, soprattutto, campione dell’italianità che si afferma nel mondo. Come in Italia accade troppo spesso, insomma, Farinetti sta diventando un esempio di vita perché ha avuto un grande successo commerciale. È amico di Matteo Renzi, mangia carne di manzo con Roberto Maroni, impartisce lezioni di coraggio che, ci spiega, è l’esito di sette mosse: amicizia, dubbio, tenacia, onestà, furbizia, capacità d’analisi e originalità che ci permettono di essere felici, vincenti e meravigliosi costruttori, insomma dei fuoriclasse.
Di Farinetti non so molto di più, né è di lui, in fondo, che io sto parlando. Il problema è sempre lo stesso, invece: la costruzione artificiale di un mito anche attraverso l’attribuzione di una valenza positiva a cose e fatti che non l’hanno o, quanto meno, di cui si può discutere se l’abbiano davvero. Tre piccole annotazioni, quindi.
L’Italia è un “marchio” internazionale frutto di secoli di storia. Appropriarsi in qualche modo di quel marchio (le società della famiglia Farinetti si chiamano Eataly, che in inglese suona come Italy) è una furbata del genere che ha chiamato un partito Forza Italia, rubando l’incitamento di milioni di tifosi sportivi. Non è un reato, ma chi lo fa non mi è simpatico.
Farinetti è la copertina del libro. Nelle pagine interne troviamo (da tempo) il nome di Coop e (da poco) quelli dei Branca, Ferrero, Lunelli, Lavazza e Marzotto. La solita concentrazione di ricchezza in un concentrato di ricchi che cercano di esserlo ancora di più. Il che va bene (soprattutto a loro) ma non mi spiega perché dovrei trasformarmi in una sorta di tifoso di Farinetti, come sembra che pretenderebbero certi giornali.
Il successo commerciale non rende ammirevole qualsiasi idea espressa da chi lo ha avuto. Farinetti sta palesemente cercando di far combaciare l’immagine della propria azienda con quella dell’Italia alimentare. Il suo modello commerciale è lo stesso di Ikea nel settore dell’arredamento o di Euronics nell’elettronica di consumo. Storie di enorme successo per quelle aziende che però, attorno ai loro poli, hanno seminato deserto. E perché dovremmo essere entusiasmati da tutto questo?
E, per finire, quanto è vero, solido, questo successo imprenditoriale? La società che detiene Eataly ha ceduto il 20% delle quote azionare della stessa Eataly per 120 milioni di euro, una somma che: “… valorizza il gruppo di Farinetti 600 milioni di euro, cioè 13 volte i margini attesi per fine 2014.”  Il tutto è dichiaratamente finalizzato alla quotazione in borsa fra il 2016 e il 2017. Dunque, fra tre anni i soci metteranno sul mercato le loro azioni. Perciò facciamo così: io oggi penso che attorno a Eataly crescerà lentamente la grancassa fino alla quotazione in borsa, e che una volta incassati i soldi Eataly sarà lasciata sgonfiare su se stessa, tanto a rimetterci saranno i risparmiatori. Fra tre anni vediamo che cosa è successo davvero. Chiunque voglia investire, comunque, si legga bene i bilanci. Se non sa farlo, metta i suoi soldi altrove.
Aggiornamento del 05/08/2019
Le fosche previsioni che avanzo nell’articolo si son rivelate totalmente errate. Al 25 marzo 2017, cioè dopo i tre anni ipotizzati dai proprietari di Eataly e presi a riferimento dal mio articolo, la stessa Eataly non era ancora stata quotata in borsa. In un articolo pubblicato online il 31 ottobre 2018, il Presidente esecutivo di Eataly Andrea Guerra dichiarava che il piano per quotare la società in borsa stava andando avanti e se ne sarebbe saputo di più nei seguenti 6-12 mesi, cioè entro il marzo o entro l’ottobre del 2019. Ad aprile del 2019, il finanziere Giovanni Tamburi ha dichiarato che Eataly “si sta preparando da tempo e ha rimandato un paio di volte, perché i numeri non erano quelli previsti, tra nuove aperture e investimenti mostruosi. Il problema è che la redditività a regime è in sofferenza”. Insomma, a distanza di cinque anni siamo ancora in alto mare e nessuno rischia di rimanare scottato acquistando azioni di Eataly. Peraltro, secondo notizie diffuse di recente la quotazione in borsa è rallentata da un incremento del giro d’affari, arrivato nel 2018 a 512 milioni di euro, però accompagnato da una perdita di oltre 17 milioni e da un indebitamente nei confronti delle banche che ha superato i 96 milioni. Nel frattempo, Eataly non è più diretta da Oscar Farinetti (che ha lasciato l’incarico nel 2015, sostituito dall’Andrea Guerra di cui sopra) e continua a espandersi all’estero. Un’altra di quelle storie con la rana che si gonfia fino a scoppiare?

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