el signor natale
di Fabio Tittarelli
Anche allora mi faceva un po’ il solletico, ma non lo davo a vedere. Dopotutto si trattava di mio padre … o come se lo fosse stato …
Era un pomeriggio uggioso e umido quando mi liberò degli ultimi legami con le mie non certo nobili origini piazzandomi di lato alla poltrona, ecco mi disse (o forse lo disse al suo Giorgio che adorava come un bambinello), ecco il signor natale che allarga le braccia lasciandosi vestire a festa. Mi chiamava il signor natale e a me piaceva quel suo tono tra il canzonatorio e il solenne, un gioco tra noi, il bambinello Giorgio mi percorse tutto con lo sguardo mentre finivo di sgranchirmi da quel lungo sonno scomodo al buio pesto come dentro una bara. Ah l’aria la luce lo spazio che grandi cose anche per uno stock da grandi magazzini come me! Sembra magro commentò alla fine, ma si capiva che aveva voluto lanciarmi al volo una battuta, gli occhi ridevano e le labbra s’erano arricciate in un tal modo buffo che imparai a conoscere e apprezzare col tempo.
Era uggioso quel pomeriggio, e umido. Tuttavia papà Nicola sprizzava allegria da tutti i pori, un involucro a forma di vescica per corpo, rubizzo e quasi patinato, traslucido di sudore mentre s’affaccendava ginocchioni a pescare in un vecchio scatolone brendistocottantaquattro i lampioncini cinesi. Autentici, sosteneva serio serio, regalo di un tizio dal nome strano che sembra avesse fatto scalo in molti porti e frequentato altrettante case altrui, tra cui il nido di papà Nicola. Orientali doc oppure contraffazioni partenopee, resta il fatto che facevano la loro signora figura su di me, e uno specchio addossato alla parete di fronte mi restituiva inorgoglito al punto da rasentare la superbia, un lungo iridescente drappeggio che m’illuminava a tempo facendomi avvampare di piacere.
Puro rito, merce rara davvero oggigiorno, tra abiti griffati e inutilerie a pioggia, e tolsciò, e discoteche ciberpanc. Secoli fa? Oppure soltanto un pugno d’anni, impercettibile sciabordìo di albe e tramonti, di bottiglie stappate e coppe tinnanti? Alla fine il brendistoccottantaquattro era paglia sintetica e carte di giornale avvizzite ma ordinatamente piegate come fazzoletti di seta, qualche gancio di troppo, un paio di gocce colorate di scorta e nulla più. Invece io sembravo cresciuto di una spanna in larghezza e altezza, regale come pochi della mia taglia e del mio basso lignaggio sanno essere, garantito. I lampioncini similcinesi incrociavano a più riprese la cartuccera dei pallidi ghiaccioli un po’ musoni e sembravano irriderli, tronfi di colore. Come un esperto cameriere protendevo le mie appendici offrendole muto e gioioso a sfere rutilanti di vetro sottile, uccelli lira e funghetti maliziosi. Tutto era armonia su di me per le feste, la mia magrezza scomparsa, trasformata in opulenza dalle amorose mani di papà Nicola, dall’occhio attento di Giorgio bambinello.
E infine mi apparecchiavano i pastori sotto, incastonati come brillanti in carta roccia, le paperelle su un ruscello di stagnola, fabbri che battevano il ferro, mugnai imbiancati, giovinette con l’anfora sul capo e l’abito svolazzante, i magi ancora lontani dalla loro meta, una scatola da scarpe abilmente ricoperta di muschio e corteccia di pino, dimora della natività.
Poi, il tempo.
Dilava abbandonando masticati bocconi di luce iscritti in cerchi di tenebra. Così Giorgio bambinello è finito spiaccicato dietro un vetro, col sorriso da orecchio a orecchio e la bustina dell’aeronautica sotto la spallina, vola lontano da lui, incrocia rotte sconosciute e dicono sia sempre molto occupato a occuparsi d’altro che del vecchio Nicola colonizzato dall’artrosi. Così mamma Severina divelta da un cancro assai prima di giungere sul ciglio della rassegnazione, anche lei sottile macchia di colore tra quattro pareti di radica trediciperdiciotto. E sono tutti lì impiccati a un chiodo, scampoli di amici con improbabili fagiani impallinati al seguito, zierose tracimanti da busti ortopedici, mani che salutano e candeline fumiganti e. Tutti lì, condannati senza appello, cornici di gioie rarefatte tingono i muri e non c’è un grano di polvere sulle loro ossa sbiancate dagli anni, muri di storia e di memoria per papà Nicola intento ancora ancora ancora a togliere ginocchioni la paglia sintetica dal brendistoccottantaquattro.
È un pomeriggio uggioso denso d’umidità, papà Nicola s’appresta a vestirmi d’illusione come un tempo, ma il tempo ha morso me pure con lento accanimento, i miei arti indeboliti, il mio corpo atono e stanco.
Re decaduto, il puntale sulle ventitrè fa indispettire papà Nicola, suvvìa signor natale un piccolo sforzo, ancora un piccolo sforzo e ci siamo …
Ci siamo … Giorgio bambinello guizza giocoso attraverso la cornice, questa vermiglia sfera d’annata la mettiamo proprio qui, al centro del signor natale, il suo cuore batte ancora per noi, vero papà? Ci siamo … È olfattiva la presenza di mamma Severina che con mani da esperta infermiera sutura il tacchino a sorpresa, pratica iniezioni di crema dentro il pandoro, amorevolmente rassicura il ragù appena si fa borbottante con lente carezze. Ci siamo … Le pareti vanno in minuti frantumi e arriva ziarosa tra noi, incorporeo appare Anselmo col suo fagiano, Beatrice che lasciò il marito dopo l’ultimo livido, la piccola grande Antonia che nessuno volle mai ma fu di tutti col suo entusiasmo contagioso, le candeline fumiganti e i tantiauguriate, i tappi che saltano, le coppe tinnanti e musica di organetti, i lampioncini cinesi con cui ammicco orgoglioso alla vita …
È riverso sotto di me, dorme papà Nicola. Ha acceso le mie luci e stringe ancora in mano un pastorello.
(Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 21/12/1999)