
[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il giorno 02/12/2012 nel sito antoniomessina.it]
Ho letto, subendone lo strano fascino, il romanzo dell’islandese Jón Kalman Stefánsson La tristezza degli angeli (2012, Iperborea, pp. 384) che così si è affiancato ad altre opere di autori dell’area nord-europea andati a far parte delle mie letture. I titoli, come suol dirsi, sono pochi ma buoni. I tre che ricordo con maggiore soddisfazione sono del finlandese Arto Paasilinna (L’anno della lepre) e degli svedesi Björn Larsson (La vera storia del pirata Long John Silver) e Per Olov Enquist (Il medico di corte). In Italia questi autori sono accomunati dall’editore, la milanese Iperborea che in questo 2012, ha concluso i primi venticinque anni di attività.
Il primo loro libro che acquistai fu L’anno della lepre, e soltanto perché la copertina fu abbastanza bella da farmi superare la diffidenza verso un formato (i libri Iperborea misurano 10 x 20 cm) che mi pareva, e si confermò, abbastanza scomodo. Paasilinna si rivelò una gradevole scoperta e anche gli altri titoli di Iperborea, per così dire, non tradirono la mia fiducia (con la sola parziale eccezione, per i miei gusti, dell’olandese Kader Abdolah col suo Il viaggio delle bottiglie vuote).
Oggi che siamo in tempi duri per gli editori, coi libri che non si vendono, le librerie indipendenti che chiudono e quelle di catena che sembrano entrate in una spirale inarrestabile di perdita di senso, il libro appena letto di Stefánsson, e il ricordo degli altri che ho citato, conducono alla malinconica considerazione che sono e saranno tempi duri anche per noi lettori. Senza Iperborea, cioè senza editori che svolgano bene il loro mestiere, non avrei letto libri che meritavano di essere letti.
Consulto Wikipedia e rinfresco che Iperborea è una terra leggendaria della quale si riferiva l’esistenza in una zona lontanissima a nord della Grecia. Una terra perfetta dove il sole splendeva sei mesi all’anno ed il clima era sempre primaverile. Raccontata come sede di mille meraviglie, il termine iperboreo diventò per i greci sinonimo di “felice” e, soprattutto, dell’idea che ovunque, anche in luoghi ignoti, possiamo immaginare che ci siano felicità e bellezza.
La speranza è che, in qualche modo che ancora non so dire, la prossima fine dell’editore che produce manufatti cartacei (o anche elettronici) coincida con l’inizio dell’editore-operatore culturale che si dedichi alla parte più impegnativa e qualificante del suo lavoro, cioè quell’attività di ricerca, filtro e proposta che già adesso, almeno a mio parere, di quel lavoro può e deve essere il vero cuore.