Facciamo repulisti?
di Alessandra Buschi
Un bel pomeriggio mia madre entrava in camera nostra, si metteva al centro della stanza, si fregava le mani e diceva: “Facciamo un bel repulisti?”
Questa del repulisti era una cosa che non capitava spesso, diciamo all’incirca solo un paio di volte l’anno, quando cioè arrivava la telefonata di mia nonna che avvertiva che sarebbe venuta per trascorrere con noi una qualche festa comandata.
Quando si avvicinava la Pasqua e nostra madre diceva Facciamo repulisti, allora la cosa a me e mio fratello non preoccupava un granché: al massimo dovevamo disfarci di qualche giornaletto ormai stracciato o, tutt’al più, dividere le lego dalle plastic-city e rimetterle nei loro contenitori. Quando invece capitava poco prima del Natale, allora io e mio fratello iniziavamo a preoccuparci sul serio.
Eravamo eccitatissimi con l’approssimarsi del Natale, sopratutto se era dato per certo l’arrivo della nonna, che sempre portava regali strepitosi. Ma tutta la nostra contentezza veniva smorzata da quella stupida e assurda parola, pronunciata improvvisamente da nostra madre come fosse stato l’invito per un bel gioco: “Facciamo repulisti?”, chiedeva, come se ci stesse proponendo un nascondino o una partita a domino.
Io e mio fratello ci guardavamo, seduti sul pavimento della nostra camera sopra strati e strati di pentoline, soldatini e costruzioni: Oh no, c’è da fare il repulisti…
La cosa era da sgomento: non solo significava iniziare a sgomberare il pavimento della camera, ma anche fare due mucchi separati: uno con i giocattoli da rimettere al loro posto, l’altro con quelli di cui ci saremmo privati volentieri per regalarli in occasione del Natale ai bambini poveri delle suore.
Le cose erano due: primo, io e mio fratello non ci saremmo mai privati volentieri di alcun nostro giocattolo; secondo, chi erano questi bambini poveri delle suore che, benché frequentassimo l’asilo tenuto appunto dalle suore, non avevamo mai visti?
Alle nostre obiezioni non c’era via di scampo: se è vero che una persona vuol fare del bene, dà volentieri le sue cose agli altri; poi: i bambini poveri delle suore non abitavano con le suore, bensì le suore aiutavano le loro famiglie appunto “povere” a raccogliere giocattoli da regalar loro a Natale.
Il ragionamento filava: erano questi i motivi per cui i “bambini non poveri” dovevano disfarsi volentieri dei loro giocattoli per darli ai “bambini poveri”, e, visto l’assunto, presumo che sia io sia mio fratello ci considerassimo di conseguenza bambini non poveri, in contrapposizione a quelli che, invece poveri, avrebbero però giocato con i nostri giocattoli. Era una gran tragedia, in verità, consumata tra le simpatiche pareti di una cameretta per bambini.
Io e mio fratello iniziavamo a fare i due mucchi, ma mentre il primo andava via via sempre più ingrossandosi, l’altro languiva, tant’è vero non poteva nemmeno fregiarsi del titolo di “mucchio”, ma caso mai di “vago accumulo di due tre cose sparse”, tra l’altro di sicuro rovinate.
Quando arrivava nostra madre a controllare il nostro operato e si rendeva conto dell’evidente disparità, diceva che quello non era il sistema, e cioè che se ci fossimo privati soltanto dei nostri giocattoli rotti, ciò non avrebbe significato dare volentieri agli altri quello che gli altri non avevano.
Così, a malincuore, soccombendo alle leggi del martirio e del sacrificio, io e mio fratello alla fine dovevamo rinunciare o alla fantastica Michela, la bambola parlante che funzionava come un vero giradischi se le mettevi un dischetto nella pancia, oppure al Big Jim avuto per l’ultimo compleanno, ancora più che accettabile per mille e mille altre avventure.
Consegnavamo noi stessi alle suore i nostri giocattoli e loro ci ringraziavano facendo molte moine e stupore per ogni gioco che lasciavamo (volentieri?) nelle loro mani.
Adesso non so: qualche volta qua a casa facciamo repulisti, ma non insisto mai troppo con i miei figli. Quando ricevono in regalo un giocattolo che hanno già oppure ne hanno qualcuno a cui non sono particolarmente affezionati, lascio che siano loro a disfarsene volontariamente. Mi dicono: “Di questo che ne facciamo? Possiamo darlo ai bimbi poveri?”, e io dico: “Sì, certo. Saranno contenti”. Però non insisto.
Non so, le cose sono un po’ cambiate: a volte vado alla rivendita delle suore, porto le nostre cose smesse e vedo se c’è roba che mi può servire. Lascio loro mille, duemila lire, e a volte mi porto via un cesto ancora buono, un pupazzo quasi nuovo, un paio di pantaloni che mi potrebbero far comodo. Dopo, quei soldi, andranno a un orfanotrofio: boh, forse perché non esistono più famiglie povere. Non so, ecco: adesso lo scambio mi sembra più equo.
(Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 02/12/1999)