Chissà
di Antonella Schiavon
Chissà perchè mi ero fatta convincere a fare quel viaggio in Messico; erano anni che sognavo di andare in Canada, nel grande nord americano; da quando ero piccola e nelle giornate invernali ventose che raramente ci sono in Pianura Padana correvo in bicicletta per i campi guardando il cielo spazzato dalle nuvole e pensando che il Canada doveva proprio essere così, forse più grande ma con quello stesso cielo pulito … E invece ero a Malpensa aspettando che iniziassero l’imbarco sul volo American Airlines per Chicago; già, perchè il viaggio tra l’altro prevedeva una tappa di qualche giorno lì, dove un amico avrebbe dovuto sostenere un colloquio per una borsa di studio; insomma, l’avevamo pensata bene: sosta negli USA e poi Natale in Messico. E il Canada? Beh, ormai ero lì, l’aereo stava decollando e mi aspettavano otto ore di volo ….. chissà come sarebbero stati gli Stati Uniti … E così eravamo arrivati a Chicago, una grigia giornata di metà dicembre, pioggia ovunque e la notte che arrivava.
Com’erano gli Stati Uniti? Esattamente come alla televisione; esattamente come esserci sempre stati, come ritrovarsi in un telefilm poliziesco o nella serie Happy Days, aspettandosi di veder spuntare dall’angolo della strada Starsky e Hutch.
La mattina dopo eravamo di nuovo sul treno che porta a Downtown; la periferia di Chicago correva veloce ai lati delle rotaie, e quando alzavo lo sguardo dal cartellino della valigia nera di Miguel vedevo solo una riga indistinta di grigio rotta ogni tanto dai colori dei murales. E dietro, fin dove si riusciva a vedere, solo case grigie, la valigia che tentava di correre per il corridoio del vagone dove stavano seduti pendolari con le solite facce spente dei pendolari, il riflesso dei quartieri di periferia sui vetri, le macchine parcheggiate lungo le strade sferzate dal vento, un serbatoio rosso in lontananza, il grigio delle case, il grigio dei quartieri di periferia … e poi ecco spuntare i grattacieli di Chicago, grigi pure quelli. Dopo una lotta feroce contro gli scalini per uscire dalla metropolitana, trascinandoci dietro i bagagli, finalmente siamo catapultati in una delle strade del centro; il cielo ci regala uno spruzzo di sereno con il sole che illumina la WaterHouse.
La città è spazzata da un vento furioso che attraversando il lago arriva da Nord; ed è ancora il grigio il colore che domina osservando dall’Hancook Building la distesa di case che circonda i grattacieli di Downtown; un grigio uniforme spezzato solo dall’ocra della spiaggia del lago e dalla spuma bianca delle onde. Sono rimasta lì un po’, chiedendomi cosa ci fosse dietro quell’enorme distesa di costruzioni e ascoltando il quasi impercettibile dondolio della torre mossa dal vento: Chicago. Chicago a Natale.
L’autopompa numero uno dei vigili del fuoco ci passa vicino, una ghirlanda appesa sulla parte anteriore sovrasta un grande fiocco rosso ed arriva prima del suono delle sirene; e anche le macchine non sono da meno e sfoggiano fiocchi attaccati di dentro e fuori, ghirlande delle dimensioni più varie sono appese non appena la carrozzeria concede un po’ di spazio, ed appare anche qualche lumino …! Insomma, ognuno il suo pezzettino di Natale se lo porta dietro. Ma la parte del leone la fanno i grandi magazzini: addobbi colossali, alberi di Natale con fiocchi rossi e dorati sono montati su pannelli girevoli dorati alti due metri, grandi drappi di ghirlande sono adagiati ad arte sulle grandi balconate interne, luci ovunque, e la musica soffusa e conciliante ti dice che il Natale è proprio lì, tutto pronto per essere comperato, impacchettato ed usato.
Alla sera gli alberi spogli ai lati della strade si accendono timidamente di tante piccole luci dorate, e mentre le impiegate vestite elegantemente e con le scarpe da tennis scappano verso casa, le vetrine sembrano ancora più irreali: dietro ai vetri una famiglia beata è seduta attorno ad una tavola addobbata con grande sfarzo, accanto Babbo Natale e le sue renne portano la slitta carica di pacchetti, mentre un po’ più in là è già fine anno e si festeggia con una bottiglia di vino bianco. Sarà il vento gelido, saranno i barboni che ti passano alle spalle con i carrelli carichi dei loro “possedimenti”, sarà che è Natale e non si riesce a “sentire” dove sia, ma fa freddo. Chissà a cosa pensa un barbone quando si ferma come noi davanti ad una vetrina come questa; se è vero questo vento o quella luce calda dietro il vetro; se è vera la vita che stiamo vivendo o quella che ci presentano lì, dove tutto appare bello, facile, a portata di mano.
Chicago a Natale.
Il più bel ricordo è camminare con gli amici per le strade deserte di notte sfidando il vento sul ponte, è bere una birra in un pub dove le note di un buon jazz riescono ad arrivarti direttamente al cuore; è il mio piccolo sogno americano, acquistato dopo aver scaricato tra le mani della cassiera incredula una quantità di monetine accumulate in pochi giorni: un bastoncino di zucchero a strisce bianche e rosse, che è ancora qui, nel portapenne sulla scrivania, avvolto nel cellophane, a ricordarmi qualcuno che ha lasciato il sole del Messico per il grigio di Chicago.
(Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 04/12/1999)