I biglietti della lotteria
di Marco Pastonesi
Dura la vita economica di una società di rugby. Voci al passivo: tutto. Più che voci, un coro, un’orchestra, un diluvio universale di note, anzi, di note-spese. Voci all’attivo: tessere dei giocatori, sottoscrizioni degli ex giocatori, poi Bancomat del presidente, portafogli dei dirigenti, e la lotteria.
Ah, la lotteria di Natale. I premi, se non ci fossero stati, sarebbe stato meglio. Perché erano imbarazzanti, impresentabili: nel migliore dei casi si trattava di roba assolutamente inutile, nel peggiore oggetti così kitsch da vergognarsi. Tanto che i vincitori, a malincuore secondo loro, invece con un senso di liberazione secondo tutti gli altri, vi rinunciavano, con il disastroso quanto inevitabile risultato che gli stessi premi venivano ripresentati tali e quali il Natale successivo. In compenso, Natale dopo Natale, giocatore per giocatore, raddoppiava il numero dei biglietti da vendere. L’importante era venderne il meno possibile, altrimenti l’attento capitano te ne rifilava immediatamente un’altra mazzetta. Fabrizio l’ala si rifiutava di vendere i biglietti, forse per incapacità, forse per timidezza: non lo diceva a nessuno, ma la sua mazzetta, svenandosi, se la comperava tutta lui. Moquette il centro vendeva i biglietti solo ai clienti del suo elettrauto: ma per ogni biglietto che rifilava, c’era sempre chi ricambiava con biglietto di altra lotteria, generalmente più costoso. “Il guaio – si lamentava Moquette – è che i risultati di quelle lotterie non si vedono mai”. Enzino, invece, piazzava i biglietti solo a donne, signore e ragazze, insomma genere femminile. “Niente di meglio – sosteneva – per attaccare discorso”. Be’, lui diceva discorso, ma in verità erano poche parole e molti fatti. Enzino non faceva molta selezione: non se lo poteva permettere. Invece sosteneva che “tutte devono avere un po’ di soddisfazione nella vita”. Però evidentemente ci sapeva fare. Perché faceva quel genere di cose che si raccontano o che si scrivono o che si vedono nei film, ma vietate alla stragrande maggioranza delle persone, in particolare ai rugbisti. Nelle sue descrizioni, le uniche a imporre un silenzio quasi religioso a tutta la squadra, c’erano sempre armadi così capaci da poterlo nascondere, finestre aperte e grondaie così solide da poterlo far fuggire attraverso giardini, tavoli da cucina così solidi da reggere brevi scosse di terremoto (terremoto lo diceva lui), perfino tavoli da biliardo con tanto di vellutino verde. “Ventimila al primo strappo”, disse Filtro, ricordandosi di quel cartello sistemato nelle sale che frequentava invece della terza liceo. “Ma va là – sbottò Enzino – non ha voluto una lira. Non era mica una puttana”.
(Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 10/12/1999)