Natale a Valle Azzura
di Matteo B. Bianchi
(Seconda parte)
Tra le varie caratteristiche dei bambini, una delle più singolari era l’abilità perversa ed istintiva di invidividuare il luogo meno adatto dove avere una crisi.
Il giorno della vigilia di Natale percorrevo il corso cittadino con Aurelio e Carmela per mano. La città era gremita di gente imbottita, simpatici pancioni che si affannavano nel rito degli ultimi acquisti. Aurelio, forse annichilito da quell’orda disordinata e famelica, smise di colpo di camminare e decretò: – Basta. Sono stanco. Io mi fermo qui -. Mi voltai a guardarlo, più incuriosito che altro, e gli dissi: – Non fare storie, andiamo a prendere l’autobus e torniamo alla Valle -. Evidentemente la prospettiva doveva apparirgli del tutto infelice, infatti si buttò a terra e cominciò un pianto a dirotto. La gente, curiosa malgrado i chili di regali al braccio, in un attimo formò un capannello minaccioso. Mentre compivo vari tentativi di farlo rialzare, lui si dibatteva come un ossesso: – Vai via! Lasciami stare! -. Fingendomi incurante della folla sempre più numerosa che stava accorrendo allo spettacolo, lo afferrai per una manica del giubbotto e gli diedi uno strattone. Manco a farlo apposta, la manica si strappò e io rimasi a guardare il brandello di stoffa che avevo fra le mani, intanto che qualcuno commentava con disprezzo: – Che scena vergognosa. Trattare così un bambino il giorno prima di Natale … Bisognerebbe chiamare il Telefono Azzurro! -. Alla fine, tra il biasimo generale, mi risolsi a prenderlo in braccio e ad allontanarmi.
Così, grazie ad episodi del genere, ero arrivato anche ad un bel paradosso: non solo mi dovevo occupare dei bambini, ma dovevo anche essere tacciato dal disappunto degli estranei.
Il giorno di Natale portai Aurelio e Carmela a casa mia. Non sopportavo l’idea che trascorressero Natale in un istituto deserto, volevo che il calore psicologico di una festa familiare li circondasse almeno per un giorno. Partii dalla Valle pieno di pastiglie e raccomandazioni, ma anche abiti di ricambio. Mi aspettavo che si sporcassero, che piangessero, che litigassero fra di loro, che si comportassero insomma come si comportavano sempre. Non accadde niente di tutto ciò. Si comportarono perfettamente, da perfetti bambini natalizi, affrontando molto meglio di quanto avrei affrontato io al loro posto l’imbarazzo di una sconosciuta tribù familiare riunita per le feste.
La certezza che il loro inserimento fosse riuscito me lo diede però una vicina, nel momento del brindisi tradizionale tra famiglie. Attenta a non farsi udire da loro, mi si avvicinò e disse: – Ma questi bambini non hanno problemi! -. Fui contento di questa osservazione, e poi, guardandoli sorridere, ammisi: – No, oggi davvero non ne hanno -.
Quando tornammo in istituto, la sera, trovammo Pamela che ci aspettava. La suora, scuotendo la testa, mi spiegò che il padre l’aveva riportata nel primo pomeriggio – Perché a casa dovevano finire di fare baldoria -. La povera Pamela era rimasta sola per ore.
L’entusiasmo con cui lei mi accolse e l’eco di felicità che gli altri due bambini portavano con sé per una festa che a loro doveva essere sembrata splendida e che per me era solo una copia sbiadita di decine di feste precedenti, mi fece definitivamente capire quanto la mia infanzia fosse stata sfacciatamente serena. In quel momento i ricordi dei miei natali passati mi tornarono su, tutti contemporaneamente, come un rigurgito.
(Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 17/12/1999)