
[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 21/02/2013 nel sito antoniomessina.it]
Dunque ci siamo anche stavolta. Fra due giorni, il 24 e 25 febbraio, si voterà per rinnovare la composizione del Parlamento italiano. Davanti a noi cittadini, così, ecco la consueta serie di opzioni: non votare, astenersi oppure votare e, se lo si fa, per chi. Fra i milioni di parole spese per motivare l’una o l’altra scelta, ho letto con attenzione quelle affidate ai rispettivi blog da due persone che seguo quando posso, ma con una certa continuità. Mi riferisco a Barbara Collevecchio e Simone Perotti.
Sperando che mi perdonino la sintesi drastica delle loro argomentazioni (che, comunque, potete conoscere per intero qui e qui) provo a riassumerle.
Barbara Collevecchio non si riconosce (e rifiuta) nella politica dei partiti, delle istituzioni, dei leader-imbonitori vecchi e nuovi, tutti distanti dalla vita delle persone e, in definitiva, dall’idea stessa di democrazia partecipata. Perciò non voterà, senza che per questo possa accettare di sentirsi dire che la sua scelta è assenza o disimpegno. Al contrario, Barbara Collevecchio sceglie la cosiddetta politica dal basso, quella fatta di azioni dirette e concrete, attuate nel proprio contesto familiare, sociale e professionale, in vista della necessaria rivoluzione culturale che ci renda indipendenti e non più gregari di imbonitori.
Simone Perotti, anche lui, non voterà. Non vuole essere neppure lontanamente corresponsabile di una politica e di scelte che vanno nella direzione opposta a quella che vorrebbe. Neppure vuole unirsi “alla moltitudine che avalla con una croce” l’idea di una finanza egemone e di una economia sconsiderata. Ad aggravare le cose, aggiunge Perotti, è il nostro sistema elettorale, i cui meccanismi interni, ulteriore paradosso, sono già il primo momento di esautorazione della volontà popolare. E allora, se minoranza deve essere, insomma, che lo sia fino alle estreme conseguenze, in una sorta di replica in grande formato dell’Aventino parlamentare del 1924. E poi che fare, dunque? Agire, vivere diversamente, testimoniare le nostre scelte attraverso il traffico dove non saremo, i rifiuti che tenteremo di limitare e differenziare, le relazioni autentiche che tenteremo di costruire. Saranno queste, conclude Perotti, le nostre elezioni quotidiane, nelle quali l’azione di ogni giorno si sostituirà alla matita adoperata una tantum.
Ho letto con interesse e molto ho condiviso, più di tutto il richiamo alla coerenza quotidiana delle nostre azioni, all’importanza di esprimerci concretamente in quello che rientra nel nostro raggio di azione. Però, almeno a mio parere, tutto ciò non basta. Viviamo in una società assai complessa. Per andare a Roma a trovare i miei anziani genitori ho bisogno di strade, ponti, linee ferroviarie. Mia figlia ha bisogno di un sistema di istruzione pubblica che funzioni. Un mio amico disabile ha bisogno di una rete di provvidenze sociali e servizi sanitari che va oltre le possibilità di qualsiasi singola persona. In molti desideriamo una struttura sociale diversa da quella attuale: più democratica, più giusta, più partecipata, più al servizio dei cittadini. Questa struttura diversa, però, non è quella attuale nella quale tutti viviamo. Un solo imbecille che preme un pulsante alla Camera o al Senato può devastare il terreno pazientemente concimato da migliaia di azioni quotidiane, comprare un inutile cacciabombardiere e far chiudere dieci ospedali, alzare l’IVA di un punto e regalare ai farabutti l’impunità per i capitali esportati illegalmente all’estero.
Anche soltanto dal punto di vista tattico, perciò, provare a limitare il numero degli arrivisti di lungo corso e dei disonesti consumati potrebbe avere un senso. Almeno, è con questo spirito che io voterò. Sperando che Barbara Collevecchio mi perdoni e che Simone Perotti non mi consideri correo della finanza egemone, della politica prona, della crescita a oltranza e dei sacrifici imposti dalla catena del lavoro-produco-consumo-spreco-inquino. Quanto a me, continuerò a seguirli con attenzione perché di due cose almeno sono certo: che occorre sempre ridiscutere le proprie convinzioni e che, per farlo, c’è bisogno di tutte le persone oneste e libere di mente.