[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 21/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
So a malapena dove è il Kazakistan e non ho idea se il signor Ablyazov sia una brava persona o un farabutto, ma è degli italiani che hanno agito che ora voglio dire.
La polemica politica nata in seguito all’operazione di rimpatrio in Kazakistan della moglie di Mukhtar Ablyazov, Alma Shalabayeva, e di sua figlia Alua, e poi i commenti giornalistici che ne hanno dato conto, hanno finito per concentrarsi su quanto fossero opportune o doverose le dimissioni del Ministro dell’Interno. Fra i commenti che ho letto, tuttavia, pochissimi hanno sfiorato un aspetto che per me, invece, conta più di qualcosa.
A leggere i resoconti, nell’operazione che fra il 28 e il 29 maggio scorsi si è conclusa con il rimpatrio forzoso di una donna e di una bambina di sei anni sono stati coinvolti almeno due prefetti, sei alti funzionari e fra i 35 e i 50 (i resoconti non concordano sul numero) agenti della polizia italiana. Contando anche gli operatori di polizia e degli aeroporti meno direttamente coinvolti, si arriva facilmente a poco meno di un centinaio di persone che hanno cooperato in qualche modo ad un rimpatrio che in pochi giorni si è rivelato privo di ogni necessaria base giuridica, tanto che il Governo italiano ha revocato il provvedimento di espulsione e informato le autorità del Kazakistan che Alma Shalabayeva potrà rientrare in Italia.
Cento persone sono tante, eppure, di fronte a un’operazione che faceva acqua da molte parti, nessuna si è non dico opposta, ma neppure posta la domanda su quanto fosse corretto quello che stava facendo. Per dire: ti mandano a cercare un pericoloso latitante, trovi una bambina di sei anni, e non ti viene in mente di capire meglio quello che sta accadendo?
Io per qualche anno sono stato un “esaminatore” agli esami per la patente di guida. Il primo giorno in cui ho cominciato a svolgere questa attività, nella carta d’identità del primo candidato che esaminavo in vita mia c’erano centomila lire. Cento euro di oggi o giù di lì, nel documento di un ragazzino di diciotto anni. Quando dissi che quei soldi non mi servivano per riconoscere il candidato, la banconota fu ritirata dall’istruttore di guida che affiancava il ragazzo. Tempo dopo, al momento di rientrare in ufficio dopo un esame concluso con la bocciatura, il padre di un candidato provò a allungarmi furtivamente un po’ di soldi. Non essendoci altre persone presenti che potessero testimoniare la tentata corruzione, mi limitai a non prenderli e a alzare un po’ la voce. A un esame di revisione della patente una signora elegante si presentò accompagnata da un personaggio di quelli che “contavano”. Costui ebbe la premura di dirmi che aveva “già parlato” con un mio superiore. La signora non spiccicò parola e la bocciai. Non sono poi state pane quotidiano, ma neppure infrequenti, le richieste di far passare avanti qualche pratica. Nel modo più gentile, ho sempre rifutato.
In trent’anni e passa di lavoro per la pubblica amministrazione, insomma, qualche no l’ho detto. E pensando al caso Shalabayeva mi viene in mente che i miei piccoli no non hanno richiesto coraggio fisico né un rigore morale fuori della portata di ogni persona comune. Sì, a volte ho scontato un po’ di isolamento, altre ho dovuto perdere tempo per argomentare cose che dovrebbero essere ovvie, altre ancora può avermi infastidito che persone che dovrebbero rappresentare e garantire tutti si preoccupassero soltanto di ottenere un “favore” all’amico di turno; e tuttavia, detto francamente, quasi sempre è bastato dire no e far capire il tipo che avevano davanti.
Ammetto che, nei casi che ho citato, gli interessi in gioco non erano paragonabili alle commesse petrolifere per miliardi che legano l’Italia al Kazakistan, ma mi ostino a pensare che sarebbe bastato che una delle cento persone coinvolte sollevasse un dubbio, ponesse una domanda, addirittura obbedisse ai propri superiori e non, come pare sia accaduto, all’ambasciatore di uno Stato straniero, perché le cose andassero diversamente.
Alla fine, così, le domande che mi frullano in capo sono sempre le stesse. Che cosa fa sì che per molti sia così facile assentarsi dalle proprie responsabilità? Come è possibile che si attivino ingranaggi che coinvolgono cinque, dieci, cento o migliaia di persone senza che nessuna di queste si confronti anche con la propria coscienza?
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