
[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 27/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra i libri che ho ricevuto per Natale era in qualche modo inevitabile che ci fosse Gli sdraiati di Michele Serra (Feltrinelli, 2013, pp. 108). Inevitabile perché l’autore ha deciso di dedicare il suo ultimo libro al rapporto genitori-figli visto a partire dalla sua esperienza che, in effetti, ha più di un punto di contatto con la mia: essere un padre di oltre cinquant’anni (in effetti, Serra ne compirà 60 il prossimo anno, dunque sei più di me), con un figlio di meno di 20 (mia figlia ne compirà 18 fra non molti mesi) caratterizzato in modo non singolare (nel senso che a quei comportamenti è attribuita valenza “generazionale”) dall’essere disordinato, pigro, trascurato e incapace di cogliere la differenza fra un un gesto concluso e un gesto incompleto (tipicamente: che la cosa è fatta non quando si è finito di mangiare ma quando il piatto è tolto dalla tavola, pulito delle eventuali scorie più grosse e riposto nella lavastoviglie). Le somiglianze fra me e Serra, però, temo che si esauriscano in questi dati superficiali.
Partendo dall’osservazione stralunata dei comportamenti del figlio (e di una sua amica che finisce nel campo di osservazione) Serra li registra alternando ironia e preoccupazione. Una camminata in montagna, in un luogo della memoria, diventa l’occasione proposta insistentemente al figlio per ricercare una condivisione di esperienze e, di conseguenza, un nuovo legame che permetta poi di passare il testimone. Quando la camminata avviene, col figlio poco allenato e che la affronta con le scarpe sbagliate, dopo un po’ Serra si accorge di essere rimasto indietro. Il figlio lo ha staccato per scollinare da solo, perso alla vista del padre che, da questo, conclude di poter finalmente diventare vecchio.
L’idea di Serra, sembra, è che noi genitori critichiamo i figli perché non sono giovani nello stesso modo in cui lo siamo stati noi, ma che loro sapranno cavarsela bene lo stesso. Personalmente, parlando da padre, ritengo questa tesi tanto consolatoria quanto auto-assolutoria. Consolatoria perché, nella mia pur modesta esperienza, ciò che noto è che le nuove abilità di cui sono provvisti oggi i giovani, alla fin fine, si riducono all’uso delle nuove tecnologie. In questo non rilevo passi avanti per due motivi: quando noi genitori avevamo l’età dei nostri figli, quelle tecnologie, semplicemente, non c’erano e perciò è stupido fare confronti; in secondo luogo, le stesse abilità non si stanno aggiungendo alle nostre ma le rimpiazzano, anche se quelle “vecchie” rimangono necessarie. Il risultato è che, se per qualche motivo va via la corrente elettrica, nessuno o pochissimi giovani sarebbero in grado di svolgere una ricerca, risolvere un problema, reperire un’informazione.
L’auto-assoluzione risiede nel dire che sì, magari non siamo riusciti a trasmettere (o, almeno, a raccontare) la nostra esperienza, però poco male: sono giovani e forti e sapranno percorrere la loro strada, perciò noi padri possiamo rimanere sulle sdraio a leggere e prendere il sole ammirando il panorama.
Io sono affezionato al significato letterale della parola educare. Viene dal latino ex ducere, condurre fuori. È una parola bellissima che comprende tutto: il senso del viaggio, l’aiuto a crescere, il rispetto dei tempi di ciascuno (“si accompagna” e non “si trascina”), il fatto che “fuori” il mondo è grande e ciascuno sceglierà poi dove andare. Ma non ci si può sottrarre al ruolo: il genitore è colui che, fin quando è necessario, come minimo racconta che c’è un “fuori” formato dalle nostre attitudini, dalla relazione con gli altri, dal nostro essere sociali nel modo che più ci è congeniale.
Checché ne dica Serra, insomma, sono convinto che una prossima edizione degli Sdraiati, dopo il finale attuale avrebbe una pagina in più, quella dove si racconta che il figlio si è ritrovato con le vesciche ai piedi e che il padre è dovuto andare in farmacia.