L’extraterrestre e l’articolo 18

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 22/09/2014 nel sito antoniomessina.it]
Ci sono volte, specialmente quando torno in Italia dopo un’assenza di qualche giorno, in cui mi sembra di essere un abitante di un altro pianeta e, precisamente, di un pianeta dove le parole hanno il loro significato evidente, le ovvietà sono trattate come tali, le conseguenze che si traggono hanno una connessione logica con le premesse di partenza. Sul pianeta Italia, invece, pare che le cose vadano diversamente.
Promettendo di scriverne ora e mai più, prendo ad esempio il “dibattito” sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E siccome tutti ne parlano ma quasi nessuno l’ha letto (troppa fatica, immagino, essendo composto di 11.026 caratteri, spazi compresi), prima di tutto vediamo di che si tratta.
L’ipotesi di partenza è il licenziamento di un lavoratore disposto:
– per ragioni discriminatorie (credo politico, fede religiosa, appartenenza a un sindacato, partecipazione ad attività sindacali, partecipazione a scioperi);
– in concomitanza del matrimonio o entro l’anno dalla sua celebrazione;
dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di vita del/la bambino/a;
– per motivi illeciti determinanti (cioè, per esempio, per ritorsione nei confronti di una condotta non apprezzata, come furono i casi di un lavoratore licenziato perché si era rifiutato di sottoscrivere il bilancio aziendale e di un altro licenziato perché aveva richiesto il pagamento degli straordinari).
In tutte le fattispecie elencate manca la cosiddetta “giusta causa”. In altre parole, in tali ipotesi il licenziamento non è determinato da esigenze produttive e di organizzazione ma da ragioni arbitrarie e discriminatorie. Di conseguenza, nelle ipotesi elencate, l’art. 18 stabilisce in via generale che il giudice ordini di restituire al lavoratore licenziato il suo posto di lavoro o, se il lavoratore preferisce, di indennizzarlo con un risarcimento in denaro.
L’art. 18 regola poi diffusamente una serie di situazioni specifiche, tuttavia il succo è quello appena esposto: un lavoratore non può essere licenziato perché ha aderito a uno sciopero, o perché si sposa, o perché ha chiesto un aumento. Se lo licenziano per questi motivi, il giudice impone (dopo il processo!) che il lavoratore riabbia il suo lavoro. Tutto qui.
Quel che stabilisce l’art. 18, a me sembra tanto ovviamente giusto da non richiedere argomentazioni a sostegno. Altri, però, non la pensano così. Questione di opinioni, naturalmente, e questo lo capisco. La cosa che mi rimane misteriosa, invece, è la relazione causale diretta che alcuni considerano che esista fra l’art. 18 e la propensione delle imprese a dare lavoro. In parole povere, si sostiene che le imprese assumerebbero di più se, oltre alle ragioni per cui possono già farlo (crisi di mercato; prodotti non più richiesti; riorganizzazione aziendale; nuovi processi produttivi ecc.) potessero licenziare anche per ritorsione (contro un comportamento corretto, come non sottoscrivere un bilancio falso), perché sei donna (che può far figli), perché sei una persona (che si sposa), perché hai delle idee politiche o religiose. Come diceva la canzoncina: sarà, ma non ci credo.
Fatto sta che su una norma come l’art. 18, a parer mio, l’unico commento dovrebbe essere su quanto sia triste che certe cose debbano essere scritte in una legge anziché risiedere semplicemente nella coscienza di tutti.

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