
[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 07/10/2014 nel sito antoniomessina.it]
Chi segue questo blog sa bene che le ragioni profonde dell’agire umano sono una delle questioni su cui provo a riflettere. Non potevo rimanere indifferente, perciò, di fronte alla pubblicazione di Morte di un uomo felice (Sellerio, 2014, pp. 200, recente vincitore del Premio Campiello), di Giorgio Fontana.
Il libro ci porta a condividere qualche mese della vita del sostituto procuratore Giacomo Colnaghi: magistrato; cattolico praticante; conservatore in politica e nella morale che lo assiste; orfano fin da piccolissimo del padre Ernesto, un uomo semplice che per un senso innato di giustizia, sia pure non assistito da grandi elaborazioni teoriche, diventa partigiano e muore per mano dei repubblichini di Salò. Del padre, Colnaghi conserva soltanto una fotografia e un biglietto scritto poco dopo l’arresto, trasmesso fortunosamente alla madre e custodito gelosamente dal magistrato nel suo portafogli.
Il contesto della vicenda narrata da Morte di un uomo felice è quello pesante dei cosiddetti “anni di piombo” (definizione di datazione variabile, grosso modo corrispondente con gli anni ’70 del Novecento), col terrorismo rosso, nero e di Stato che chiudeva violentemente una stagione che aveva dato spazio a qualche speranza e a molte illusioni anche mal riposte.
La chiave di accesso al mistero delle ragioni dei protagonisti di quegli anni è lo sguardo complesso di Giacomo Colnaghi. La memoria del padre partigiano, morto quando il futuro magistrato era poco più di un neonato, arricchisce gli interrogativi che Colnaghi si pone continuamente su che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato, sul senso e l’utilità del sacrificio degli affetti per servire un ideale, sulla violenza come soluzione dei problemi. In tutto questo, Colnaghi risulta un personaggio realistico, estremamente credibile nel suo essere uomo di forti convinzioni che però sottopone di continuo al vaglio della coscienza.
L’anno in cui si svolgono i fatti (quelli della vicenda portante, mentre quasi metà del libro è occupata dal flash back sulla traiettoria umana e politica del padre Ernesto) è precisamente il 1981. Forse per caso e forse no, è lo stesso anno in cui è nato l’autore del romanzo. Fontana, perciò, ha ben ventun anni meno di me. Questo significa che durante gli “anni di piombo”, sì, ero giovane (e forse, come canta Guccini, anche “stupido davvero”) ma c’ero, navigante in quella sinistra che, solo facendo un passo, ti poteva far incontrare le frange più estremiste. Annoto la circostanza perché, mi sembra, ha influenzato i pensieri nati dalla lettura facendomi ritenere che l’unico punto debole del libro sia dato dai personaggi che fanno capo al mondo del terrorismo di sinistra.
Si tratta di personaggi necessari per fare da sponda agli interrogativi del magistrato (che, come si è detto, vive anche cercando di costruire un legame con quel padre che, mai conosciuto, è morto combattendo per un suo ideale) ma li ho sentiti meno credibili di Colnaghi. Dicono quello che devono dire ai fini della storia, forse concentrando troppe tesi in poche battute. Soluzione efficace come riassunto, ma che non dà lo spessore sufficiente ai personaggi che esprimono quelle tesi. Così, quello che dovrebbe essere un punto alto del romanzo, cioè il confronto fra Colnaghi e il capo terrorista Gianni Meraviglia, a me è suonato un po’ artificiale.
Per fortuna, quando Fontana si sgancia dalle parti “necessarie” e asseconda il suo senso di umana pietà nei confronti dei personaggi, il libro ci regala pagine che non risolvono (e come potrebbero?) i grandi dilemmi etici ma ci fanno sfiorare, almeno, il mistero dell’animo umano. Come dovremmo provare a fare tutti.