Quando nasce Agronomi Senza Frontiere?
Ufficialmente Agronomi Senza Frontiere (ASF) nasce nel novembre del 2000. Prima, però, c’è stato un lungo lavoro di stesura del manifesto e dello statuto.
Chi ha preso l’iniziativa di questo lavoro?
Un gruppo di persone che, in anni differenti, ha condiviso l’esperienza del “Corso di perfezionamento in Sviluppo rurale nei Paesi del terzo mondo”, proposto dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Padova. Nonostante la differenza nelle esperienze, titoli di studio e attività lavorative, nonostante le diverse provenienze (dall’Italia, ma anche dall’estero), l’interesse comune per i Paesi del Sud del Mondo si è mantenuto ben oltre il termine del corso universitario e ci ha spinto a voler operare per la crescita ed il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni rurali di quei paesi, una volta definiti “Paesi in via di sviluppo” (PVS).
L’espressione “paesi in via di sviluppo” è solo apparentemente intuitiva. Che cosa s’intende esattamente con questa definizione?
Fino a qualche tempo fa si parlava di Terzo Mondo per indicare quei Paesi che non appartenevano al mondo occidentale ed al blocco comunista. In seguito alla scomparsa di quest’ultimo, il concetto è stato sostituito da quello di aree sviluppate ed aree non sviluppate, mentre ancora più appropriata risulta l’espressione Paesi del Sud del Mondo, entrata ultimamente in uso.
Rimanendo alla definizione meno recente: rispetto a quali parametri si consideravano certe aree sviluppate o meno?
Lo sviluppo di un Paese è stato spesso misurato utilizzando degli indicatori di tipo economico (il reddito, il prodotto interno lordo, ecc.) senza considerare però altri fattori più legati alla sfera spirituale dell’uomo. Negli anni ’80 si inizia invece a parlare di “sviluppo che deve sviluppare l’uomo, non le cose”. In seguito, questo concetto viene arricchito anche dall’aggettivo “sostenibile”, che richiama le problematiche ambientali, soprattutto la conservazione delle risorse naturali, ed implica in tal modo il processo di recupero delle conoscenze “tradizionali”, oltre alla tutela di condizioni di equità sociale. Da tutto questo deriva che una popolazione non necessariamente deve tendere a raggiungere un modello preconfezionato di sviluppo, ad esempio quello occidentale. Ogni società dovrebbe elaborare un proprio sistema specifico nell’ambito del quale ogni suo individuo veda soddisfatti non solo i bisogni più concreti (cibo, salute, educazione) ma anche le proprie aspirazioni spirituali, in sintonia con la propria cultura ed il proprio ambiente.
L’idea di sviluppo che hai esposto è quella attualmente accettata dagli organismi internazionali o quella per che cercate di affermare?
Sì, questo concetto di sviluppo è fermamente radicato soprattutto nel mondo delle Organizzazioni Non Governative (ONG), e sta alla base del modo di realizzare programmi.
Per stabilire delle priorità di intervento occorre che ogni idea sia, in qualche modo, misurabile. ASF si è posta questo problema?
Per la definizione delle priorità, proprio nel mondo delle ONG è stata elaborata, negli anni ’80, una metodologia di analisi definita “Approccio rurale partecipativo”. È una metodologia nata dall’esperienza sul campo, e dalla constatazione che molto spesso venivano realizzati interventi con obiettivi non condivisi dalle popolazioni beneficiarie. Ciò determinava sprechi di risorse, incapacità di risolvere i problemi e la non sostenibilità dell’intervento. In pratica: alla chiusura del progetto, le popolazioni non erano interessate a continuare le attività in maniera autonoma.
Con questo nuovo approccio “partecipativo”, la progettazione parte dall’analisi dei bisogni delle popolazioni fatta nell’ambito di riunioni informali alle quali partecipano i destinatari dell’iniziativa, le autorità locali (che se direttamente coinvolte possono appoggiare l’iniziativa) ed i tecnici, locali e/o stranieri. È importante il ruolo di “mediatori” che questi ultimi assumono. La loro funzione non è più quella di imporre soluzioni, ma è quella di facilitare la discussione e l’analisi, anche utilizzando delle tecniche estremamente semplici: disegni sul terreno, una passeggiata attraverso il territorio del villaggio per prendere visione della situazione, coinvolgimento di gruppi “privilegiati” (donne, vecchi, bambini, sciamani …), non disdegnando anche momenti “conviviali”.
Quasi sempre gli accordi migliori sono presi a tavola.
L’idea è quella di fare in modo che la popolazione interessata si senta a proprio agio, libera di esprimersi, senza limitazioni derivanti dall’imposizione di tecniche complicate o di un linguaggio troppo tecnico ed esclusivo. In questo modo risulta più semplice individuare i problemi e decidere delle strategie di intervento che mirino alla risoluzione di quelli più sentiti dalla popolazione. Ovviamente si tratta di ricercare una coincidenza tra le richieste dei beneficiari e le possibili proposte dell’organismo proponente l’iniziativa, oppure di giungere a un compromesso accettabile per entrambe le parti. E’ auspicabile, infine, lavorare in sintonia anche con le autorità locali.
Fra le cose che hai appena detto, mi sembra molto importante l’attitudine all’ascolto. In effetti, un possibile vizio degli interventi umanitari è quello di portare un aiuto di cui non c’è bisogno o che, comunque, non è quello sentito come più urgente dagli interessati.
Spesso dalla popolazione possono venire richieste anche molto semplici, e per questo a volte non considerate. Ad esempio: le donne di una comunità del Chiapas hanno fatto presente ad una ONG la necessità di disporre di macchine per cucire manuali. Il loro utilizzo è semplice, la riparazione di eventuali guasti è alla portata delle tecniche disponibili nella comunità e il loro uso permette di produrre tele e prodotti che possono facilmente essere venduti al mercato locale, consentendo un guadagno sufficiente al mantenimento della famiglia. Un cosidetto “micro-progetto”, che però interviene a soddisfare una richiesta concreta e, soprattutto, fornisce uno strumento per rendere le donne della comunità in grado di autosostenersi. E’ un’iniziativa “sostenibile”, che non sarà abbandonata alla conclusione del progetto. Il vantaggio di operare in tal modo risulta evidente: la popolazione non è più un soggetto passivo che subisce i progetti o che viene utilizzato per la semplice fornitura di manodopera, ma è coinvolta attivamente sin dalla fase di progettazione. Ciò garantisce anche il mantenimento dei benefici derivanti dalle attività di progetto anche dopo che esso è formalmente terminato ed i tecnici stranieri hanno concluso il loro intervento.
Dopo “sviluppo” e “sostenibilità”, vorrei che ci spiegassi come Agronomi Senza Frontiere intende il concetto di “cooperazione”?
ASF nasce anche dalla consapevolezza che fare cooperazione non significa operare a senso unico, ma significa cercare e sviluppare sinergie e complementarietà tra le richieste e i bisogni manifestati dai PVS e le opportunità offerte dal nostro sistema. Altro aspetto importante è la proposta di un approccio multidisciplinare alla questione dello sviluppo rurale. La maggior parte dei soci sono tecnici del settore agro-forestale, ma ci sono anche biologi, biotecnologi, operatori del settore sociale, economico, eccetera.
Aggiungerei che negli ultimi anni il concetto di cooperazione è comunque andato modificandosi. Fare cooperazione non significa operare esclusivamente all’estero; fare cooperazione significa anche cercare di modificare il nostro sistema culturale, renderci conto che comunque viviamo in un sistema globalizzato e che ogni nostra scelta (anche la spesa al mercato!) può avere delle ripercussioni in molti Paesi del Sud del mondo.
Come ha scritto Michele Serra: oggi si fa politica non con gli scontri ma con gli scontrini.
Quindi fare cooperazione significa anche porre grande attenzione alle attività di sensibilizzazione, formazione ed educazione allo sviluppo da realizzare proprio nelle nostre realtà.
Torniamo ad occuparci di ASF. Perché costituire una nuova associazione?
Le associazioni esistenti in Italia e all’estero sono effettivamente molte, soprattutto quelle operanti nel settore agricolo, strategico nell’ambito dello sviluppo di un Paese e quindi nella cooperazione. Uno degli obiettivi che ci siamo posti è quello di creare un punto di incontro, di riferimento e di consulenza per tutte quelle realtà associative che operano nell’ambito dello sviluppo rurale. Non vogliamo quindi sovrapporci a soggetti che già sono attivi in questo campo operando con grande efficienza ed esperienza, ma vorremmo creare delle sinergie tra gli operatori del settore.
Il nome dell’associazione sembra ispirarsi a quello di Medici Senza Frontiere. Avete anche la stessa filosofia di intervento?
Ci accomuna la consapevolezza che la solidarietà, la difesa e la promozione dei diritti umani non possano e non debbano conoscere frontiere. La nostra è però un’associazione molto più “giovane”, con una base associativa e di sostegno molto più ridotta, e quindi operiamo anche su una scala decisamente molto più limitata!
Fino ad oggi, che iniziative siete riusciti a realizzare?
Innanzitutto è da sottolineare il fatto significativo che tutti i soci di ASF sono volontari e dedicano all’associazione il loro tempo libero ed il loro grande entusiasmo, quindi anche le attività realizzate dipendono dal fatto che nessuno di noi opera nell’associazione a tempo pieno. Abbiamo operato molto nell’ambito della formazione, grazie anche alla collaborazione con l’Università di Padova; sono state realizzate alcune esercitazioni nell’ambito di corsi di perfezionamento universitari e abbiamo contribuito ad attuare iniziative di sensibilizzazione presso la Facoltà di Agraria e nella città di Padova. Tra queste ultime, nell’ambito della Rete di Lilliput di cui siamo soci, è stata organizzata una serata di presentazione del vertice mondiale FAO sull’alimentazione.
Per chi ha pochi mezzi, in alcuni casi Internet rappresenta un’opportunità in più per agire e comunicare.
Alcuni soci hanno lavorato alla redazione di un metarchivio, una raccolta aggiornata di informazioni ed indirizzi utili per chi voglia introdursi nel mondo della cooperazione. Il lavoro sarà pubblicato dall’Università di Padova nell’ambito di un corso di laurea triennale, e spero sarà presto disponibile nella nostra pagina WEB.
Altre iniziative?
Insieme ad altre associazioni italiane, è stata costituita la sezione italiana del “Forest Stewardship Council”, organismo internazionale con sede a Oaxaca (Messico) ed operante nell’ambito della certificazione sostenibile del settore forestale.
Un altro ambito di operatività è rappresentato dall’attività di progettazione: in questo caso è stata molto fruttuosa la collaborazione con l’ONG “Associazione Cooperazione Sviluppo” e con Etimos, il consorzio per il microcredito con i Sud del mondo, entrambi con sede a Padova. Abbiamo infatti partecipato alla stesura di un progetto di cooperazione attualmente in fase di approvazione presso il Ministero Affari Esteri italiano, progetto che sarà realizzato in Palestina. Con gli stessi partner abbiamo partecipato ad un bando della Regione Veneto con un progetto molto particolare nell’ambito dell’immigrazione nel Veneto.
Di recente sollevò scalpore la decisione di Emergency, l’associazione per la cura delle vittime di guerra, di non accettare finanziamenti dal governo italiano che, in Afghanistan, appoggiava l’intervento militare. Vi siete già posti il problema di se e come discriminare gli eventuali finanziamenti ai vostri progetti?
Personalmente ho apprezzato molto la decisione di Emergency (e di Medici Senza Frontiere) di non accettare finanziamenti da governi coinvolti nell’intervento militare. Come ASF non ci siamo ancora trovati nella situazione di dover fare una scelta di questo tipo.
Nel nostro piccolo, una scelta etica l’abbiamo però fatta: il conto corrente dell’associazione è stato aperto presso Banca Popolare Etica, convinti che anche scelte di questo tipo siano un piccolo segnale per costruire una società più solidale ed etica.
Come si descrive un ipotetico progetto di ASF?
È nostra intenzione coordinare, appoggiare e promuovere microrealizzazioni all’interno di progetti che risultino in sintonia coi principi ispiratori dell’Associazione. Tali progetti devono partire da iniziative locali o essere concertati tra l’Associazione e le controparti sul posto, nell’ottica di un approccio partecipativo. Ciò significa che vogliamo rispondere a delle esigenze espresse direttamente dalle popolazioni beneficiarie e che queste devono essere coinvolte attivamente non solo nella fase realizzativa, ma anche nella fase decisionale. Questo è avvenuto, per esempio, per il progetto Palestina.
Puoi dire brevemente in che cosa è consistito questo progetto. E soprattutto, dopo i fatti recenti, ne è rimasto qualcosa?
L’idea del progetto è nata da una sollecitazione all’Associazione Cooperazione e Sviluppo e ad Etimos da parte dei Palestinian Agriculture Relief Commitees (PARC), una ONG palestinese operante nella promozione dello sviluppo sostenibile nelle aree rurali della Palestina. Il progetto è stato elaborato seguendo il metodo dell’approccio rurale partecipativo e vede coinvolti l’ONG “Overseas”, l’Associazione Italiana Agricoltura Biologica e l’Associazione Trans Fair Italia. L’obiettivo generale è quello di migliorare in modo sostenibile e permanente le condizioni di vita e di reddito di un gruppo di famiglie palestinesi attraverso l’avvio, da parte delle famiglie stesse, di microprogetti generatori di reddito. L’intervento locale sarà affiancato da attività di coordinamento e dalla promozione di istituzioni a livello nazionale palestinese.
Più in dettaglio?
Il progetto sarà centrato sul ruolo delle donne contadine, che con il loro lavoro sono in grado di sostenere il reddito familiare soprattutto in periodi di chiusura delle frontiere e di scarsa disponibilità di posti di lavoro (ricordo che la maggior parte degli uomini lavora in territorio israeliano). Ci si propone di lavorare in tre aree: quella delle produzioni agricole vegetali ed animali, con particolare attenzione al metodo di coltivazione biologico attraverso l’introduzione dei disciplinari e la costituzione di un ente palestinese di certificazione biologica riconosciuto sulla base della normativa internazionale; l’area della commercializzazione a livello locale ed internazionale, attraverso il commercio equo e solidale; ed infine il settore del risparmio e del credito.
A che punto siete?
Il progetto è attualmente in fase di valutazione presso il Ministero degli Affari Esteri. Nonostante la delicata situazione politica in cui versano i territori palestinesi, la richiesta di attivazione del progetto da parte della controparte locale è molto forte. Soprattutto in questi momenti, infatti, la chiusura della frontiere provoca altissimi livelli di disoccupazione, sia per l’impossibilità di raggiungere Israele, sia per il blocco delle attività nei territori palestinesi a causa della mancanza di comunicazioni. Molte famiglie sono prive di qualsiasi fonte di reddito. E’ quindi importante proporre e promuovere delle attività che garantiscano l’autosufficienza in situazioni di isolamento dall’esterno. Inoltre è di rilievo la costituzione di istituzioni di supporto e di enti di intermediazione finanziaria a sostegno dell’economia rurale, attualmente assenti.
Un sincero, caloroso augurio di buon lavoro.
[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 28/07/2002]