Nota: Questa intervista è apparsa sul numero 148 di DM, rivista dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. Si ringraziano DM e Matteo B. Bianchi per l’autorizzazione alla pubblicazione su antoniomessina.it
Il tuo anno di servizio civile presso una struttura di assistenza per bambini psicotici viene raccontato, nel modo fedele e infedele dei romanzi, in Fermati tanto così. Era il 1992 e in molti per strada additavano i bambini che accompagnavi a spasso, ridendo di loro. A distanza di oltre dieci anni, noti qualche cambiamento nell’atteggiamento comune verso i “diversi”?
Non proprio. Ho notato che se ne parla leggermente di più in televisione e che questo lentamente può portare a una maggiore apertura nei confronti dei disabili. Però allo stesso tempo temo il rischio di un’ipocrita spettacolarizzazione: sono tutti lì ad applaudire l’handicappato sullo schermo, ma se ne incontrano uno per strada, lo ignorano, sentendosi comunque la coscienza a posto per essersi commossi la sera prima davanti alla tivù.
Nel tuo libro dichiari che, essendo omosessuale, capivi meglio questi bambini perché anche tu avevi già sperimentato sorrisi di scherno, insulti e il bisogno di riconquistare un’identità…
Sì, è un’affermazione forte, se vuoi anche molto “politica”. Viviamo in un Paese in cui gli onorevoli in tivù si permettono di dichiarare che gli omosessuali non dovrebbero avere il permesso di fare gli insegnanti o frasi aberranti del genere.
Per un omosessuale “normale” (vale a dire integrato nella società e nel posto di lavoro, con una vita di coppia stabile e con una buona dose di serenità personale), come posso esserlo io o la maggior parte dei miei amici, sentire simili affermazioni pubbliche è oltremodo insultante. In realtà, moltissimi gay hanno compiuto la scelta del servizio civile e hanno scelto di operare nel sociale. Molti, in seguito, l’hanno fatto anche come scelta professionale e io credo profondamente che proprio chi ha vissuto sulla propria pelle l’ipocrisia, l’emarginazione, il disagio sociale abbia una dose maggiore di consapevolezza ed esperienza per aiutare chi deve affrontare simili situazioni. E questo mi appare molto più un valore che un demerito!
Scrivi infatti che disabili e omosessuali sono uniti in quella che definisci “l’eredità di una sofferenza comune”. E però gli omosessuali ai quali accenni nel libro non sembrano sentirla. A parte uno…
Non è esatto. Nel romanzo illustro costantemente come la maggior parte della gente rifiuti di considerare gli handicappati, li elimini dal proprio campo visivo o abbia al limite un atteggiamento di patetismo nei loro confronti. Illustro questa situazione al supermercato, nei parchi cittadini, nelle discoteche gay: si tratta di un’indifferenza generalizzata, trasversale alle categorie, ai generi, ai sessi. Questo non entra in contraddizione col discorso che ho appena fatto, sull’eredità di sofferenza comune. Gli stronzi e gli indifferenti li trovi dappertutto, compreso negli ambienti gay, che sono uguali a tutti gli altri. Quello che intendevo dire piuttosto è che quando un omosessuale sceglie di operare nel sociale, spesso lo fa sulla base di un’esperienza personale di emarginazione, quindi è più pronto a percepirla in chi deve assistere. Ma lo stesso discorso si potrebbe fare per un extracomunitario, ad esempio, anche lui abituato da una vita a subire ingiustizie.
Ogni tanto si sente che gli omosessuali reclamano la tale legge o la tale altra. Considerata l’esperienza dei disabili con le leggi che li riguardano, viene da dire che gli sforzi devono puntare prima alla cultura e alla mentalità, piuttosto che alle leggi. Che ne pensi?
Concordo. Gli omosessuali non stanno combattendo una guerra per ottenere diritti, ma per abbattere pregiudizi. Del resto, a pensarci lucidamente, la richiesta di due persone (dello stesso sesso o di sesso opposto) che decidono di vivere insieme e che chiedono allo Stato che venga garantita loro giuridicamente questa possibilità, non ha in sé nulla di sconvolgente o di sbagliato. Eppure, appena se ne paventa l’idea, subito qualcuno tira fuori frasi del tipo: “Si vuole distruggere l’istituzione della famiglia!”. Ovviamente è un ricatto morale e religioso, esattamente come avveniva ai tempi del divorzio o dell’aborto.
Il fatto di rendere legali certe opportunità non equivale MAI a distruggere le istituzioni precedenti (oltretutto mi chiedo chi ne avrebbe interesse. Gli omosessuali no di certo). E’ evidente che non si sta parlando di diritti legali, ma di presunte questioni morali.
Verso la fine del libro si legge: “Fu allora, credo, mentre Pamela elencava continue varianti del termine puttana, che compresi che per questi bambini io avrei potuto fare ancora qualcosa: scriverne”. E’ una frase dal sapore definitivo come un addio. Eppure, in due versioni, la storia di Fermati tanto così ti accompagna da dieci anni…
Non credo che quella frase abbia il sapore di definitivo. Al contrario, apre delle prospettive. Questa in effetti è una storia che si presterebbe a numerose versioni. Pensa che quando ho consegnato il dattiloscritto definitivo alla Baldini&Castoldi, uno degli editor mi ha detto una frase illuminante: “Tu avevi fra le mani un altro libro, che hai scelto di NON scrivere”. Si riferiva al rapporto fra me e il ragazzo Guido, che poteva essere il tema centrale di questo romanzo e che invece io ho scelto di trasformare in una storia fra le tante. Quindi, come vedi, le prospettive sono infinite, tutt’altro che chiuse. A ciò aggiungi che ho avuto già diversi contatti per una possibile riduzione cinematografica. Se il progetto andasse in porto, si tratterebbe ancora di un’altra, ennesima riscrittura. Forse questo libro è nel mio karma…
[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 21/06/2003]