“Questa è ‘tina, la rivistina del mio amico Matteo.”
Quella che mia sorella mi stava porgendo, in realtà, era poco più che qualche foglio stampato al computer e poi fotocopiato. Ma a detta di mia sorella conteneva dei racconti bellissimi e andava assolutamente letta. E fu così che Matteo andò a prendere il suo piccolo posto nella mia vita.
Io, lui, di persona non l’ho mai conosciuto. Non so neppure che faccia ha. Però ho continuato a seguire il suo lavoro attraverso internet (ormai da un po’, ‘tina ha anche una sua versione telematica) e dal suo lavoro ho ricavato una mia idea del personaggio (idea che, naturalmente, non ha alcuna pretesa di corrispondere al vero). E dunque: persona vittima di una per me inquietante iperattività, Matteo B. Bianchi si lancia con uguale entusiasmo, e sistematico disordine, nelle iniziative più disparate, purché collegate in qualche modo alla scrittura. Dalle cosiddette “fanzines” ai Millelire, dalle antologie di altri ai romanzi propri, dalla scrittura per la pubblicità alla ricerca di nuovi talenti letterari: niente che riguardi l’uso della parola a fini comunicativi gli è estraneo. Nutre un’insana passione per il cosiddetto “trash”, che lo porta a collezionare oggetti che sarei imbarazzato anche solo a toccare (provare per credere: collegatevi a ‘tina, osservate i frontespizi, e poi mi saprete dire). Il che non sarebbe poi così grave se non decidesse anche, quegli oggetti, di regalarli ai suoi amici. Su alcune cose siamo distanti (ad esempio nel rapporto che abbiamo con la televisione) ma questo è normale. Così com’è normale e giusto che anche i nostri gusti letterari non coincidano sempre. Però è un fatto che su ‘tina ho anche trovato delle vere perle. Su tutti, forse, i racconti di Alessandra Buschi. E, perdonate la vanità, ma anche i testi di due sorelle (cioè: la mia, Angela, e la sua, Francesca) si sono fatti apprezzare.
Tutto questo ed altro ancora, credo, basterebbe a distinguerlo, e tuttavia lo stesso tiene molto a quel B. nel nome, che secondo lui rende meno anonimo il Bianchi che lo segue. Ed è dunque Matteo B. Bianchi che ha scritto un romanzo, Generations of love, pubblicato da Baldini & Castoldi, in libreria dal 4 maggio 1999, e presentato nel mio sito dal giorno 3 in anteprima universale assoluta. Della qual cosa, ovviamente, lo ringrazio. E ora l’intervista.
____
L’occasione, per me, di fare la tua conoscenza (sia pure indiretta) è stata ‘tina, cioè “la rivistina di Matteo B. Bianchi”. Racconti ai miei amici di che si tratta?
Come esplicitamente suggerisce il sottotitolo, si tratta della mia personale rivista di letteratura. Era nata nel 1995 come semplice fanzine fotocopiata e poi si è diffusa ben al di là delle mie aspettative, sino ad approdare l’anno scorso su Internet. Non è una rivista seriosa e intellettuale, anzi è piuttosto un contenitore molto pop in cui pubblico racconti e stranezze letterarie. Pur rimanendo sempre in un ambito del tutto amatoriale, ‘tina sinora ha pubblicato sia brani inediti di esordienti assoluti che di autori piuttosto noti (come Matteo Galiazzo, Tiziano Scarpa, Gilberto Severini, Mario Fortunato …).
Nel mio sito ho deciso di ospitare i miei amici, o persone che comunque fanno capire qualcosa di me, indipendentemente dalla qualità letteraria dei loro testi. In ‘tina, invece, anche se non tutti mi sono piaciuti, è palese un buon livello dei testi pubblicati. Con che criterio li scegli, dunque? O hai tutti amici bravissimi a scrivere?
Effettivamente ho un sacco di amici scrittori, però il criterio con cui scelgo i brani da inserire in ‘tina è del tutto personale: pubblico solo le cose che mi piacciono e che trovo adatte allo spirito lieve della fanzine. Spesso inserisco pezzi di totali sconosciuti che mi hanno inviato i testi via email e dei quali non so nulla.
4 maggio 1999. Che cosa ti suggerisce questa data?
La morte di Napoleone? No, forse era il 5 maggio … Sarà mica il giorno di uscita in libreria di “Generations of love”, il mio romanzo pubblicato da Baldini & Castoldi?
Risposta esatta! Sei emozionato? In fondo, anche se non è il primo lavoro che pubblichi, un romanzo è in qualche modo un “salto di qualità”, se non altro sotto il profilo dell’impegno.
In effetti scrivere un romanzo è un impegno titanico, o almeno lo è stato per me. Ci ho messo un’eternità, anche perché non sono uno scrittore metodico, costante … anzi, mi perdo continuamente in altri progetti, come ‘tina per esempio, e la stesura del romanzo veniva continuamente interrotta o posticipata. Il vero salto di qualità è stato lavorare con una grande casa come Baldini, quindi conoscere da vicino i movimenti e le strutture dell’editoria ufficiale.
Piuttosto che la classica domanda su “di che cosa tratta il suo romanzo”, vorrei portene una sul mestiere di scrittore. E cioé: tu come vivi, se lo vivi, l’isolamento insensato in cui deve chiudersi chi decide di scrivere un romanzo? Voglio dire: nel mondo continuano a succedere le cose più belle, o più tragiche, e lo scrittore è lì a infischiarsene delle une e delle altre.
Ma non è vero, e poi, che diamine, non sono mica Moravia! Sono un esordiente che ha avuto la sorte di pubblicare per una grande casa editrice, ma per il resto non vivo alcun isolamento, anzi: vado a lavorare tutti i giorni, ho a che fare con gente quotidianamente… E poi io ritengo che il mio libro, anche se è un tipico romanzo di formazione, ha comunque una sua valenza politica (se mi concedi il termine), nel senso che parlo esplicitamente di omosessualità e delle problematiche connesse, con una franchezza e una disinvoltura che mi sono costate anche un certo impegno personale. È il mio modo per schierarmi, per portare avanti un una battaglia sociale.
Beh, a questo punto te la sei voluta. Di che cosa tratta il romanzo?
È uno dei cosiddetti “romanzi di formazione”, vale a dire una storia dal forte contenuto autobiografico sul tema del diventare adulti. Messa così sa veramente di banalissimo, me ne rendo conto, però sarebbe impossibile definirlo diversamente. Per salvarmi, dirò che l’approccio ironico e pop lo personalizza molto. In altre parole, quale altro romanzo di formazione ha come figura di riferimento principale Wanna Marchi?
Il tuo romanzo esce per una affermata casa editrice (quella delle “Formiche” e di “Va dove ti porta il cuore”, tanto per dire). Premesso che non si tratta di un colpo di fortuna o di raccomandazioni, visto che è da tanto che scrivi e “bazzichi l’ambiente”, vorrei rubare il mestiere al mio amico Maurizio J. Bruno e chiederti di dare un consiglio agli aspiranti scrittori. C’è, per te, un “modo migliore” per cercare di farsi conoscere?
Allora, potrei scrivere 20 cartelle su un argomento del genere. Intanto diciamo subito che ci sono molti modi che fanno sprecare inutilmente energie e denaro: per cominciare non partecipare MAI a nessun concorso a pagamento o accettare proposte di pubblicazioni che implichino un esborso di soldi. Sono tutte truffe, comunque te la mettano giù. Altro errore colossale, mandare i propri testi alle case editrici, così genericamente, nella speranza di essere letti. Non avviene praticamente mai, equivale letteralmente a buttare via i propri dattiloscritti. Al limite è più saggio inviarli personalmente agli editor delle varie case. Perlomeno leggeranno le lettere a loro indirizzate, e magari si faranno incuriosire sul contenuto del libro …
Io credo che una buona via sia compiere piccoli passi: cominciare a pubblicare sulle riviste, cercare di far circolare il proprio nome fra gli addetti ai lavori della piccola editoria, entrare in contatto con altri autori, scambiarsi opinioni ed esperienze. Io, perlomeno, ho fatto così.
E di una scelta un po’ folle come la mia, di partire da Monsummano (cioé da zero) alla conquista del mercato editoriale, cosa ne pensi?
Francamente credo che tutti partano da zero. Ognuno ha il suo Monsummano, per così dire. E, a meno che tu sia il figlio, il fratello, l’amante di qualcuno di influente, partire da un paesino sperduto o una grande metropoli non fa alcuna differenza. Anzi, l’Italia è un paese che culturalmente crede molto nelle realtà decentrate, provinciali … Prendi gli autori degli Under 25 curati da Tondelli, per esempio: venivano tutti dalla provincia e oggi sono autori affermatissimi.
E questo mi riempie di gioia e di speranza, anche se resta, a dire di molti, un ultimo scoglio. Mi spiego: nella vita sono serissimo, mentre come scrittore riesco a esprimermi realmente solo come umorista, il che, nella testa di quei molti, equivale ad un’autocondanna al purgatorio degli scrittori. Tu che ne pensi? Dell’umorismo come genere, intendo.
Ne penso tutto il bene del mondo. Pensa che in questo momento sto lavorando proprio a un progetto a quattro mani con Luciana Littizzetto, che secondo me è un’autrice comica straordinaria, quindi l’umorismo è proprio una passione che condivido. Anche nel mio libro ho cercato di filtrare tutto con una forte carica ironica, di sdrammatizzare anche i punti più traumatici, perché per natura sono molto più portato allo humor che al dramma. Comunque ci sono delle differenze sostanziali fra la narrativa con valenze ironiche (che è quella a cui credo di appartenere) o la scrittura comica vera e propria. E, alla faccia del purgatorio, i libri comici in Italia sono quelli che vendono più di tutti in assoluto!
La mia celebre “Prima legge sulla scrittura” afferma che: “Si scrive per soddisfare un’esigenza interiore, ci si fa leggere per vanità, e si pubblica per vendere”. Il tuo commento?
Diciamo che potrei essere d’accordo sulla prima parte, mi auguro proprio di non scrivere per la seconda motivazione, e quanto alla terza … beh, non mi illudo neanche.
[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 03/05/1999]