Con tutte le cose che fai, è difficile scegliere da dove cominciare. Però mi viene in mente che tutti e due siamo… ehm … soci dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. Va bene, va bene, tu sei il Presidente (posso darti sempre del tu, vero?) e allora, anche per dovere d’ufficio, presenta brevemente l’associazione che ci ha fatto incontrare.
Sì, sono il presidente. E ovviamente puoi (devi) darmi del tu. Anche perché non so ancora bene perché sono il presidente. La Uildm è una delle più belle associazioni italiane sulla disabilità. È nata per tutelare le persone colpite dalle varie forme di distrofia, nei primi anni ’60, grazie alla testardaggine di un triestino tutto d’un pezzo, Federico Milcovich. Poi è cresciuta molto, perché anche senza muscoli si possono fare grandi cose. Ora ha 70 sezioni, quindicimila iscritti (siamo fortunatamente in calo) e una bella attività in molte città italiane. La cosa più originale? Avere la sede nazionale a Padova e non a Roma. Con quel che ne consegue. È
Giornalista professionista (“il Resto del Carlino”, “Il Mattino”), organizzatore d’eventi (Abilexpo) e molte altre cose, tutte con un risvolto “pratico” molto forte. Come ti senti nel tuo nuovo ruolo, diciamo così, “ufficiale”, all’interno della UILDM?
Un po’ in difficoltà. Non credo agli apparati, alle burocrazie. Credo ai progetti, alle buone idee, alle persone in gamba. Ma in questo senso la Uildm è una bella realtà, molto pulita. Sono anche convinto che ognuno di noi non deve mai dimenticare se stesso, quando si dedica a una nuova attività.
Diventare giornalista non è facile per nessuno. Ricordi di aver incontrato, in quanto disabile, delle difficoltà aggiuntive? E di che tipo?
Per “fare” il giornalista, no. Per “diventare” giornalista, sì. Ricordo il direttore dell’epoca del Resto del Carlino, si chiamava Tino Neirotti, un nome abbastanza famoso. Eravamo nel 1983, io da anni facevo il pubblicista part-time nella redazione di Padova. Chiesi di essere assunto come praticante, e lui si dimostrò molto imbarazzato. Temeva probabilmente che non fossi in grado di fare il cronista, non usando le gambe. Io risposi che effettivamente non potevo essere utile in un giornale fatto con i piedi … ma se serviva la testa, allora era un altro discorso. Gli devo dare atto che mi riconobbe d’ufficio il praticantato, consentendomi di presentarmi da “libero” agli esami di Stato per il professionismo, che poi superai tranquillamente a Roma nel gennaio del 1984. Un altro particolare curioso: la commissione giudicatrice, magistrato in testa, dovette scendere dalla saletta nella quale si riuniva ed esaminarmi al bar del Circolo della Stampa di Roma, perché era l’unico luogo senza barriere. Fu molto divertente.
L’occasione per questa intervista è la pubblicazione del tuo primo romanzo, intitolato La contea dei ruotanti. Non è raro il caso di giornalisti che, a un certo punto della loro attività, decidono di misurarsi con la narrativa. Quale molla scatta, secondo te, a determinare questo passaggio? E nel tuo caso?
È la necessità di confrontarsi con se stessi, con la propria cultura. Nel mio caso specifico sono stato spinto dal desiderio di non rompere le scatole a malcapitati lettori con una tiritera autobiografica, o con un saggio presuntuoso. Volevo rappresentare la realtà che vivo, che ho vissuto, che tanti vivono come me, in maniera diversa, diciamo pure da un altro punto di osservazione. Quando ho cominciato a scrivere pensavo a un racconto, per me, tutto privato. Poi, come spesso succede, la storia mi ha preso la mano, e mi ha condotto su strade che non avrei mai pensato di percorrere.
E veniamo (finalmente!, dirai) al tuo romanzo. Ci racconti brevemente la trama?
No. Non vorrei proprio. Ma se devo condensare, direi che è la storia di un sogno che si trasforma in un incubo, ma che fortunatamente torna ad essere un sogno. Ho cercato di inventare un mondo nel quale una persona senza handicap è costretta a vivere secondo le perfide regole dei “ruotanti”, ossia delle persone in carrozzina che hanno preso il potere in una piccola contea di un’improbabile Padania. E naturalmente ciò che fa saltare l’equilibrio di un regime dittatoriale alla rovescia è l’amore fra una donna (disabile) e un uomo (camminante).
Il libro l’ho letto. Mi sembra evidente che hai cercato un modo diverso (romanzo anziché articolo, o intervento a un convegno) per proseguire le battaglie che conduci da anni, in primo luogo quella per l’affermazione di una “cultura della normalità”. Potresti sintetizzare il significato di questa espressione?
Non è del tutto vero che volevo proseguire in altro modo le mie battaglie.
E vabbè: mica sempre ci prendo, no?
Forse volevo solo raccontarle in modo diverso, rivivere dentro di me emozioni e sentimenti in forma di racconto. La cultura della normalità è proprio l’idea che più mi sta a cuore. Tutto il mondo dei cosiddetti “normali”, nel migliore dei casi, sottolinea la “diversità” delle persone disabili, anche quando lo fa con spirito di apprezzamento e di solidarietà. Io invece voglio dire che la disabilità è una condizione umana che può capitare a tutti, come il colore dei capelli, o la pancia, o la miopia. La “normalità” è considerare una persona disabile così come è, né meglio né peggio. E le persone disabili, a loro volta, dovrebbero smetterla di sentirsi o vittime o eroi.
Inutile dire che condivido in pieno l’obiettivo di crearla, questa benedetta cultura della normalità. Riguardo al romanzo, invece, ho almeno due perplessità importanti sulle quali vorrei ti pronunciassi. In primo luogo: in più d’un brano ti ho trovato troppo “didascalico”, quasi che la volontà di affrontare certi temi si sia imposta sulla libertà d’invenzione letteraria.
Accetto il rilievo. È molto giusto. Il guaio è che mentre scrivevo mi rendevo conto che il mio ipotetico lettore “non esperto” (perché io in realtà vorrei che questo romanzo venisse letto soprattutto da chi disabile non è) non sa nulla di nulla, o crede di sapere, il che è peggio. Perciò mi sono trovato quasi costretto a prendere per mano questo ipotetico lettore. E non penso che questo sia di per sé un difetto. Casomai il problema è che sono stato troppo sintetico, mi sono fermato per paura di esagerare …
Un’altra cosa che non mi ha convinto appieno è la collocazione temporale della storia, in un futuro abbastanza prossimo. Non pensi che uno spostamento ancora più avanti nel tempo o, come pure era possibile, l’invenzione di una realtà diversa avrebbe esaltato il significato simbolico di alcuni passaggi? Ho in mente, per dirne uno, il celebre Fahrenheit 451 di Bradbury.
Può darsi. Però secondo me lo straniamento rappresentato proprio dalla vicinanza temporale (ma dall’assoluta lontananza mentale dei luoghi) potrebbe funzionare: insomma non è proprio fantascienza, anche se l’idea originaria mi è nata vedendo Il pianeta delle scimmie.
Un aspetto che, invece, ho trovato molto positivo, è l’equilibrio che riesci a mantenere nella prospettiva della narrazione. Voglio dire: il libro affronta il rapporto fra disabili e società senza mai essere un libro “per” i disabili o invece “per” i non disabili. È un libro e basta, insomma.
Ecco, è un libro e basta. Ad esempio, credo che sia una delle prime volte in cui si parla d’amore, anche in termini chiari, raccontandolo così come plausibilmente si può vivere, anche in situazione di disabilità. Questo è uno dei tabù più duri da abbattere. Non è un romanzo “per”, è il mio romanzo, nel quale oltre tutto il mio modo di pensare, di vedere le cose, si distribuisce fra vari personaggi, e non solo in una figura singola. L’editore, Luca Parisato, di Padova, che voglio davvero ringraziare per il coraggio, o l’incoscienza, che sta dimostrando, ha voluto proprio evitare, nella copertina, nella quarta di copertina che contiene una breve nota biografica, qualsiasi accentuazione della tematica del romanzo. Io ho molto condiviso questa scelta, anche se per ora vedo grandi problemi nella distribuzione, che invece si blocca di fronte alla paura di promuovere un prodotto editoriale atipico. Se si limitassero a considerarlo un romanzo come un altro, non sarebbe meglio?
Per finire: La contea dei ruotanti, come s’è detto, è il tuo primo romanzo. Che cosa ti ha lasciato questa esperienza? Pensi di proseguire su questa strada? In fondo, a ben vedere, per la conclusione del libro hai scelto un finale “aperto”.
Il finale è aperto, ma non perché già pensassi a un seguito. Anzi. È aperto perché secondo me era giusto così, non avrei sopportato un “happy end” ma neppure una conclusione troppo amara. Penso di proseguire, in ogni caso, ma solo quando sarò sicuro di me stesso come narratore. Può darsi che cerchi invece, nel frattempo, di mettere ordine in tutte le cose che ho scritto, in maniera sparsa, sui tanti temi dei quali mi sono occupato. A 47 anni si comincia a tirare qualche somma, ma è anche bello sentirsi assolutamente giovani, e con la voglia di combattere. E vincere.
[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 13/10/1999]