La gente comune che sterminò gli ebrei

Soldati tedeschi tagliano i capelli a un ebreo prigioniero nel campo di concentramento di Bergen-Belsen

[Articolo pubblicato, in forma quasi identica, per la prima volta il giorno 16/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
A distanza di 17 anni dalla sua prima uscita negli Stati Uniti, e di 16 dalla pubblicazione in Italia, ho letto anch’io I volonterosi carnefici di Hitler (Milano, Mondadori, 1997, pp. 636) di Daniel Jonah Goldhagen, un saggio divenuto celebre per le conclusioni, di cui dirò più avanti.
L’opera di Goldhagen esamina la vicenda dello sterminio degli ebrei fra il 1941 ed il 1945 da un’angolazione particolare. Secondo le stime più prudenti (forzatamente approssimative) in quel breve periodo i tedeschi (non sempre da soli) sterminarono oltre cinque milioni di ebrei. Un’operazione di tali dimensioni doveva necessariamente coinvolgere un numero elevatissimo di persone, direttamente o indirettamente. Dunque, posto che la teorizzazione dello sterminio e la sua organizzazione sono imputabili ai vertici dello stato e del partito nazista, la sua realizzazione pratica richiese e trovò la collaborazione attiva di migliaia di tedeschi comuni.
Dopo che molti si erano dedicati a studiare come e perché vennero dati gli ordini, così, Goldhagen prova rispondere alla domanda forse più drammatica: perché migliaia di persone ordinarie, operai, impiegati, padri di famiglia, si resero disponibili a eseguirli? Una domanda che diviene ancora più ingombrante quando si osserva, come risulta dalle ricerche di Goldhagen, la varia estrazione sociale degli esecutori materiali dell’Olocausto, il fatto che per la maggior parte non fossero neppure iscritti al Partito Nazionalsocialista, o la circostanza che le squadre incaricate degli eccidi fossero formate da volontari (una circostanza che appare più gravida di significati quando si apprende che, a quanto risulta, si poteva chiedere l’esenzione da quel tipo di missioni senza dover subire particolari conseguenze).
Le fonti per una ricerca del genere sono in buona parte rappresentate dalla documentazione deliberatamente omissiva degli organismi incaricati dello sterminio, dalle dichiarazioni degli imputati nei processi del dopoguerra (ovviamente mirate anche a limitare la portata e la consapevolezza delle proprie azioni), oltre che dalla pubblicistica dell’epoca. Goldhagen si muove su tale terreno sconnesso cercando di colmare deduttivamente le lacune informative mantenendo coerenza e igore interpretativo. Le sue conclusioni sono che nella Germania nazista si combinarono in modo unico questi elementi: l’antisemitismo eliminazionista che permeava l’opinione pubblica tedesca; la presa del potere da parte di un partito che fin dalla sua nascita aveva dichiarato la sua ferma volontà di risolvere la “questione ebraica”; la presenza della condizione materiale necessaria, cioè il controllo militare su un’area vasta dell’Europa e, conseguentemente, sui milioni di ebrei lì residenti.
Fra le molte annotazioni del libro, qui, per le riflessioni che può suscitare anche rispetto all’oggi, ricordo soltanto quella relativa alla percezione degli ebrei da parte della gente comune. Tale percezione fu il risultato di una propaganda secolare dato che la furia nazista seguì temporalmente le invettive religiose, tanto della chiesa cattolica quanto di quella protestante. Ma una “questione ebraica”, semplicemente, non esisteva. Tuttavia, sebbene in molte città e villaggi gli abitanti non avessero neppure mai visto degli ebrei, questi erano ritenuti responsabili di ogni nefandezza, portatori di minacce mortali al popolo tedesco. Questo approccio totalmente irrazionale fu la premessa di scelte altrettanto irrazionali fra le quali risaltano, per la loro insensatezza rispetto al contesto dato da una guerra ormai conclusa e perduta, le “marce della morte” con le quali migliaia di ebrei furono condotti senza meta per la Germania, al solo scopo di farli morire di fame e di stenti. L’ultima di queste marce cominciò il 7 maggio 1945, neppure 24 ore prima che il feldmaresciallo Keitel firmasse la resa incondizionata della Germania.
Ogni sintesi, naturalmente, non rende piena giustizia ad un saggio di oltre 600 pagine, nel quale l’autore si impegna ad argomentare ogni affermazione. A lettura ultimata, rimangono la certezza che il libro aiuti a capire e la sensazione che per noi, uomini comuni e di comune buon senso, l’Olocausto rimanga una realtà incomprensibile.

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