“Il libro che mi è rimasto in mente” viene proposto come un romanzo ma, in realtà, la struttura è tutt’altro che quella classica della storia con inizio, svolgimento e epilogo. Più che per successione di fatti, cioè, il libro procede per accumulo di riflessioni, spesso non collegate fra loro.
Infatti neanche io saprei dire se questo mio nuovo lavoro sia un vero e proprio romanzo. In realtà per Il libro che mi è rimasto in mente ho lavorato esattamente come per ogni altro mio testo, senza darmi limiti di spazio e di situazioni. Quello che ne è venuto fuori, stavolta, è questo.
Qui la vicenda (che poi è poca cosa, come dici tu) si svolge nell’arco di ventiquattro ore. Il tutto lo vedo come un “contenitore”, una specie di scatola in cui ho raccolto “cose”. La mia speranza è che chi la aprirà sarà contento di trovarvi almeno una sorpresa.
La misura dei tuoi scritti è stata finora quella del racconto (più o meno lungo), una formula espressiva di cui hai sempre rivendicato (anche in una recente intervista) l’importanza e l’attualità. Da cosa è nata, allora, la voglia di misurarsi con una “cosa” più lunga?
Difatti, come ho detto, io non riesco a fare questa distinzione tra Il libro che mi è rimasto in mente e i miei testi usciti in precedenza. Questo mi potrebbe far pensare che alcuni altri miei testi potrebbero allora essere considerati romanzi, soltanto un po’ più brevi, o questo un racconto lungo.
Il libro è uscito a novembre 2000, mentre gestazione e stesura risalgono a molti mesi mesi fa. In generale, fra l’idea di un libro e la sua uscita possono darsi intervalli di lunghezza biblica. A distanza di tempo, quanto ancora ti riconosci nelle riflessioni della protagonista?
Nelle riflessioni della protagonista ancora abbastanza, anche se c’è da dire che ho sempre avuto difficoltà ad emozionarmi in modo esagerato di fronte a un mio libro finalmente edito. Non credo si tratti di poca sensibilità da parte mia, piuttosto del fatto che per me un testo è “finito” quando, rileggendolo, non cambierei più neanche una virgola. Poi, si sa, il tempo che passa tra l’ultima stesura e la pubblicazione non è mai brevissimo, per cui per me avere fra le mani il “prodotto finito” è sì gratificante, ma non in modo particolare. Non mi sento mai distante dai miei testi, neanche dopo tempo; rileggendoli, credo di provare le stesse sensazioni che prova una madre che ha figli ormai grandi: li ama, ma con la consapevolezza che sono diventati altro da lei.
Fra i tuoi lavori letti di recente, la cosa migliore mi è parsa un testo breve intitolato “Io sono Barbara”. Nel tuo libro appena uscito, il momento più sorprendente e efficace è, a mio avviso, l’episodio della telefonata anonima. Questi due brani hanno in comune un senso di inquietudine e mistero che mi pare relativamente nuovo e insolito nei tuoi scritti.
Hai citato due brani che forse hanno in comune una cosa: sono entrambi di pura invenzione. Non so se questo sia un caso. Voglio dire: su Il libro che mi è rimasto in mente il “gioco” sta anche nel fatto che voglio mischiare le carte, far apparire come autobiografici certi particolari che in realtà non lo sono. L’espediente della telefonata è uno di questi momenti che, a mio avviso, risulta interessante proprio per il fatto che, rispetto ad altre situazioni, potrebbe sembrare reale quando invece non lo è.
Anche a me il racconto Io sono Barbara piace; qui la situazione è quasi paradossale: una tizia che vive raccogliendo particolari che altri non vedono, che sente di avere questo ruolo di “raccoglitrice”. Be’: sono contenta che ti sia piaciuto perché racconta un po’ la mia visione del senso acritico, di distacco, che per me uno scrittore deve avere quando riporta sulla pagina ciò che ha “raccolto”.
Pensando ai due brani che ho appena citato (ma anche al dramma profondo reso in un tuo racconto di anni fa, e cioè “Mario il Bini”) si ha la sensazione che questa, di un dolore che oltrepassi la tua persona, sia una direzione di possibile sviluppo della tua scrittura.
Appunto ciò che dicevo prima: la posizione di distacco di fronte ai fatti che deve avere chi scrive. Tutto deve coinvolgerti, ma sempre con la consapevolezza che tu sei un “mezzo”, un “media” che porterà anche il dramma a un lettore. Poco importa se si tratta di un dramma vissuto in prima persona oppure sorto da un’invenzione.
Hai esordito nel 1986 con Transeuropa in una raccolta ripubblicata da Mondadori. Nel ’90 è uscita una tua raccolta di racconti (oggi introvabile) per Il lavoro editoriale. L’editore di “Se fossi Vera” è Fernandel, che adesso fa uscire anche il tuo ultimo lavoro. Pensi di aver trovato finalmente casa?
Intanto vorrei dire che mi piacerebbe vedere ripubblicata la raccolta Dire fare baciare (consideriamolo un appello, quindi…), e questo perché mi sono accorta che chi l’ha letta la ricorda con affetto.
Ho sempre detto che mi piace trovare una casa per i miei scritti. In Fernandel, e in specifico nella persona di Giorgio Pozzi, ho trovato una buona casa per alcuni miei testi, una casa davvero comoda e confortevole. Scegliere di dare a Fernandel Il libro che mi è rimasto in mente è stato per me naturale: non sentivo l’esigenza di cambiare casa, mi stava comodissima quella che avevo appena trovato per Se fossi Vera.
Per me è molto importante il rapporto con le persone, e in Giorgio Pozzi ho trovato una persona amica e molto sensibile ed attenta. E quando una casa la senti amica e vicina, perché trasferirsi, almeno per il momento? Non posso dire di aver trovato una casa in cui abiterò per sempre; questo non lo posso dire perché credo che non si possa dar nulla per scontato nella vita.
Compito in classe. “Commentare questa frase di Hermann Melville: Un libro nella testa d’un uomo è meglio d’un libro rilegato in pelle di vitello. In ogni caso è più al sicuro dai critici”.
Svolgimento. Si tratta un po’ anche del “gioco” che cerco di raccontare nel mio ultimo libro. In realtà io non ho paura della critica, anzi. Diciamo che sono abbastanza consapevole di ciò che potrebbe essere attaccato del mio lavoro di scrittura, ma proprio di questo mi faccio forza. Ho avuto periodi in passato in cui avevo molti dubbi, durante i quali avvertivo questa differenza tra me e gli scrittori che intorno a me emergevano, mentre io rimanevo (e rimango!) nell’ombra. Pian piano ho capito perché; sempre con il tempo, ho acquisito la consapevolezza che mai avrei voluto cambiare il mio percorso per avvicinarmi a qualcosa che rischiava di non farmi vivere la scrittura con felicità. Mi piace mettermi in gioco il più possibile, e quindi è naturale che accetti anche la critica. Il “gioco” implica anche questo.
Da pochi mesi hai una tua libreria in un piccolo centro marchigiano. Visto che Mondadori ha appena lanciato una promozione che recita (giuro!) “un chilo di libri a 9.900 lire”, tu, fatte le debite proporzioni, pensi di venderne un etto a 990?
Su questo sono ferrea e credo di poter parlare anche a nome di Petra, la mia socia in affari: noi i libri al chilo non li venderemo mai. Capirai poi se si tratta di libri scritti da me! E questo per il semplice motivo che il nostro progetto di libreria è proprio impostato sul fatto che vorremmo metterci in contrapposizione alla “macellazione del libro”, ovvero allo smercio dell’oggetto-libro come fosse un qualsiasi altro bene di consumo esposto anonimamente sugli scaffali di un supermercato. Non è positivo il modo in cui il libro viene venduto, considerandolo una merce alla stregua del tubetto di dentifricio o del chilo di patate, al di là del suo valore che, bene o male, preferirei ancora considerare culturale… Senza poi tener conto del fatto che nei grandi magazzini puoi trovare soltanto certi libri e non altri, soltanto quelli delle maggiori case editrici o, meglio, di quelle che hanno più possibilità di operare grossi sconti, libri che vengono sfornati appunto a peso. Il fatto che i libri oggi si possano vendere un po’ dappertutto non significa che il lettore abbia maggiore possibilità di scelta, anzi. Bisognerebbe a questo punto porsi la fatidica domanda: “Pesa più un chilo di libri o un chilo di fieno?”…
Le idee sono molto più veloci delle dita sulla tastiera e tu, davvero come la protagonista del tuo libro, spesso devi sacrificare la tua scrittura ai molti impegni di lavoro e familiari. Tuttavia: che cosa bolle in pentola?
Le solite cose, cioè il lavoro, gli impegni familiari, le amicizie, gli affetti, la scrittura… Cioè: tutto un calderone che, in condensato, è nient’altro che la mia vita. Ho un paio di testi iniziati ma non ancora finiti, e un altro a cui sto lavorando e di cui ho già fatto la prima stesura. Inoltre dovrebbero uscire fra poco alcuni miei testi su varie antologie.
Per finire, pensando nuovamente anche alla tua professione di libraia, quali letture, fra quelle da te fatte ultimamente, ti sentiresti di consigliare ai visitatori del mio sito?
Io sono una lettrice onnivora: leggo un po’ di tutto. Ora poi che ho la possibilità di approvvigionarmi di libri a piacimento, è una pacchia. Testi che consiglierei a un lettore sono L’educazione delle ragazze in Boemia, di Michael Viewegh, e Bambini nel tempo, di Ian McEwan. Di McEwan consiglio anche Il giardino di cemento. Per chi volesse andare un po’ più sul classico ma non troppo (in quanto come invenzione linguistica e stilistica non ha nulla da invidiare a testi più attuali), Natalia Ginzburg, con Lessico famigliare. Tra gli autori giovani consiglierei Paolo Nori. Un libro che ho appena iniziato a leggere ma che “sento” mi regalerà delle sorprese è L’appeso di Claudio Piersanti. Sempre di Piersanti, Luisa e il silenzio, secondo me un testo che, nel suo profondo dramma, non può non rimanere nel ricordo del lettore.
[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 26/11/2000]