Intervista a Pasquale Aiello

Antonio: Le tue prime foto risalgono alla fine degli anni Settanta e sono di cronaca: manifestazioni e manifestanti soprattutto. Nei miei ricordi, il “compagno che scattava le foto per il giornale” era uno che, rimanendo mescolato a curiosi e passanti sparsi sui marciapiedi, aveva trovato il modo di non reggere l’asta dello striscione. E il tuo fotografare? Era un essere dentro o un tenersi fuori?

Pasquale Aiello: Sicuramente un essere dentro… il più possibile. Riprendevo gli eventi senza curarmi troppo dei dettagli tecnici poiché la cosa più importante era documentare quello che succedeva.

Dare meno importanza alla tecnica era una scelta o una necessità?

Una necessità. Durante il ’77 e negli immediati anni successivi, fotografare episodi politicamente caratterizzati, come i cortei, non era sempre facile dato che spesso, come ci racconta anche Erri de Luca, non erano propriamente delle semplici passeggiate.

Detto il periodo, qual è stato il luogo dei tuoi esordi come fotografo.

Il quartiere di Centocelle, nella periferia sud di Roma. Sicuramente una grande palestra di allenamento politico, sociale e anche fotografico. Ricordo che a volte, tornando da manifestazioni, feste, concerti o da iniziative in altre zone di Roma, sentivamo quasi un senso di sicurezza e, forse, protezione allorché i vecchi tram delle linee 12 o 14 varcavano la via Tor de’ Schiavi, confine (non disegnato su nessuna mappa) che ci divideva dal limitrofo quartiere Prenestino, presidiato spesso dai fascisti. Roma, lo ricordiamo sicuramente in molti, era fatta di zone “rosse” e “nere”: si adoperava molta cautela anche soltanto per scegliere un cinema o una pizzeria!

Nel corso della tua attività hai sperimentato tecniche diverse. Dopo tanti anni e centinaia di foto, c’è una tecnica alla quale ti senti più legato o nella quale ti sembra di ottenere risultati migliori?

Certamente la tecnica del bianco e nero. Seguendo i preziosi consigli di due vecchi amici, Pietro Pietrazzini e Corrado Rossetti, ho sperimentato da subito sia la ripresa che la stampa in camera oscura. Non ricordo se per una questione ideologica o per qualche altro inconscio pensiero o se, forse e più probabilmente, per questioni economiche, iniziai utilizzando una reflex Zenith E (per fotografare) e un ingranditore UPA5 (per stampare), rigorosamente sovietici ed in metallo! Oggi, come allora, utilizzo il piccolo formato (35 mm), soprattutto pellicole in bianco/nero, obiettivi grandangolari e, quando possibile, il cavalletto. Non avrei mai immaginato, peraltro, le potenzialità rivoluzionarie di quest’ultimo!

Dai non fotografi, la fotografia su pellicola è quasi sempre identificata con il momento dello scatto mentre si tende a ignorare lo sviluppo e la stampa.

In effetti hai giustamente rilevato quella che è una semplificazione. Dopo aver accuratamente sviluppato un negativo, la cosa veramente formidabile, quasi magica, dello stampare le proprie fotografie dopo averle “scattate” era (ed è) il vedere emergere nella vaschetta dello sviluppo l’oggetto, la persona o il paesaggio su cui ci si era concentrati nella fase di ripresa. Era il momento in cui ti rendevi conto che stava prendendo forma qualcosa di nuovo.

E’ possibile affermare che stampare una foto significhi “scattarla” un’altra volta?

Credo proprio di si. Molte volte ho la sensazione di creare qualcosa di diverso dalla semplice rappresentazione grafica dell’istante fermato nel fotogramma. Il negativo, ci insegna un vero maestro come Anselm Adams, è uno spartito da interpretare intelligentemente ed in maniera creativa in sede di stampa.

Secondo te, esiste una tecnica comunque più adatta a ritrarre un determinato soggetto?

Assolutamente no. La scelta estetica di come ritrarre una determinata realtà è frutto della combinazione di diversi elementi soggettivi quali la formazione, gli stimoli, la capacità, la fantasia… In altre parole: della cultura che forma il singolo fotografo. Molto semplicemente è questione di applicare una determinata sintassi fotografica (scelta e combinazione, da parte del fotografo, degli strumenti e delle tecniche disponibili) che, come detto, è estremamente soggettiva.

Nel suo libro Fermati tanto così, Matteo B. Bianchi inserì una frase che ho sempre trovato molto bella. Lasciando l’istituto per bambini con disabilità mentali dove aveva prestato servizio civile, dice a se stesso che c’è ancora qualcosa che può fare per loro: scriverne. Ti è mai accaduto di fotografare per un motivo simile?

Non nella stessa maniera di Matteo B. Bianchi. Lui cita un’esperienza precisa per la quale si sente di voler fare di più, scrivendone, mentre la mia scelta non è legata ad una situazione singola, definita. Tuttavia vedo un’analogia nell’aver voluto fotografare realtà considerate marginali con l’intento di renderle manifeste dando loro maggiore visibilità. Così, cercando di ottenere anche qualcosa di più della loro semplice rappresentazione iconografica, ho documentato periferie, lavoro, mondo giovanile, campi nomadi, scelte antagoniste, ecc… Tutto questo, spesso, in compagnia di due ottimi compagni di viaggio, Antonio De Carolis e Sergio Mauriello, fotografi anch’essi, con i quali condivido da oltre tre lustri progetti ed idee.

Come hai scritto con bonaria ironia in una tua nota autobiografica, gli anni Ottanta ti privano di molte opportunità di fotografare i lavoratori in piazza. Più tardi, il corso degli eventi ti ha privato anche di molte opportunità di fotografare i lavoratori. E’ per questo che in tempi più recenti ti sei dedicato a immagini di archeologia industriale?

La passione per l’archeologia industriale nasce dalla volontà e dalla curiosità di indagare gli ambienti nei quali il lavoro si svolgeva, sicuramente in maniera diversa da oggi. Per questo motivo mi sono recato presso vecchi siti minerari, ripercorso tracciati ferroviari abbandonati e visitato fabbriche dimesse, attraversandone le grandi navate neoromaniche in mattoni rossi. Ogni volta ho cercato di fotografare le soluzioni tecniche ed estetiche di questi ambienti (lungo le ferrovie: vecchie stazioni e ponti in ferro; nei villaggi minerari: pozzi di discesa e vecchie attrezzature per l’estrazione; nelle fabbriche: ciminiere, macchinari, laboratori, ecc.), e di cogliere le tracce del passaggio e della fatica dei lavoratori, i quali traevano da questi ambienti sia il sostegno economico che la forza per migliorare la propria condizione. Sono esperienze assolutamente straordinarie.

Ammesso che sia corretto dividere la tua attività in un primo periodo in cui ritraevi gli operai in fabbrica e in un secondo in cui ritrai le fabbriche senza operai; tu, in generale, preferisci ritrarre cose o persone?

Non ho una preferenza in tal senso. Certamente quando riprendi degli ambienti, oppure dei paesaggi, ti disponi a realizzare delle fotografie che, nella loro staticità di ripresa, ti consentono con calma di posizionare il cavalletto, inquadrare la scena, calcolare l’esposizione, insomma di “rilassarti” e previsualizzare la foto finale. Viceversa, fotografare persone comporta, secondo me, il fatto di entrare in sintonia con esse per evitare che la macchina fotografica diventi uno steccato, fonte di diffidenza o timidezza. Non mi piace assolutamente “rubare” un’immagine se essa rappresenta una persona. Preferisco, se possibile, rendere la persona stessa partecipe e complice dello scatto… Insomma, anche se posso aver fatto qualche buon reportage non sarò mai un buon reporter.

Memoria, desiderio d’eternità, testimonianza, stimolo… Che cosa è per te la fotografia?

La fotografia, nel mio personalissimo caso, soddisfa due esigenze fondamentali, una più razionale ed un’altra più istintiva. Da un lato, fotografia è memoria, documentazione e quindi testimonianza a cui si perviene proponendosi un metodo serio di lavoro (individuale o collettivo) e perseguendo la migliore combinazione di tecnica e materiali. Dall’altro, la fotografia è soprattutto stimolo e ricerca per trovare e sperimentare strade alternative nelle quali prevalga, nel conseguire il risultato, la trasmissione di una sensazione o di un’impressione.

Ti senti molto diverso rispetto a com’eri negli anni in cui hai iniziato a fotografare?

Fotografare era per me, già allora, il sentirmi inserito in un meccanismo in continua evoluzione e trasformazione. I volti, i luoghi, gli eventi (spesso drammatici) erano le manifestazioni esteriori della nostra ricerca e del nostro tentativo di modificare la realtà. Molte di queste cose le ho fotografate in un periodo in cui il rapporto tra movimenti, politica, informazione, televisione e stampa era sicuramente più problematico di adesso e non c’era una diffusione di massa della fotografia. Oggi, al contrario, con la spettacolarizzazione televisiva e la diffusione del digitale (strumento immediato e veloce per definizione) tutto è molto diverso. Basta guardare, ad esempio, quale valenza dirompente hanno avuto la presenza di migliaia di fotocamere e telecamere a Genova, durante il funesto G8 del luglio 2001, nella documentazione dei drammatici fatti di quei giorni. Ma, per concludere, ti posso dire che salve le esperienze della vita (accumulate in ambiti diversi e che parzialmente ti cambiano) di quei tempi conservo sicuramente ancora la curiosità, unica leva che ti porta a indagare continuamente il mondo che ti circonda e a cercare delle risposte… in fotografia come in altre campi.

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[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 16/11/2005]

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