In nome mio, di Grillo e di Pizzarotti

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 18/05/2014 nel sito antoniomessina.it]
Ieri, a margine di un incontro sui finanziamenti europei organizzato dal gruppo di Fano del Movimento 5 Stelle, ho avuto modo di ripensare al problema della rappresentanza.
Nel corso dell’incontro hanno preso la parola Hadar Omiccioli, candidato sindaco per il comune di Fano del M5S, e Marina Adele Pallotto, candidata al Parlamento europeo per lo stesso M5S. Tipi diversi. Omiccioli tranquillo, disposto all’ascolto, voce pacata; Pallotto grintosa, debordante, toni alti da tribuno che hanno indotto qualcuno a ricordarle, e la cosa è risultata vagamente comica, che lo scarso uditorio (una quindicina di persone) era composto quasi per intero da aderenti o simpatizzanti del M5S, perciò non c’era bisogno di scaldarsi tanto.
Fatto sta che Omiccioli, per chi abita a Fano, è una presenza discreta ma di lungo corso, impegnato da tanti anni, un mandato come consigliere comunale, partecipe di altre esperienze civili come ad esempio il Gruppo di Acquisto Solidale di Fano. La Pallotto, invece, non la conosceva nessuno. Ed è per questo, in vista delle elezioni europee, che mi è tornata in mente la diversa visione della rappresentanza che hanno espresso Beppe Grillo e il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti.
In breve: Pizzarotti lamentava che tramite le consultazioni online fossero finite nelle liste del Movimento 5 Stelle (anche) persone sconosciute agli attivisti; Grillo replicava che quelle persone erano state selezionate dall’espressione volontaria (telematica) delle preferenze da parte degli iscritti registrati al M5S. Dunque: per Pizzarotti conta di più l’essersi spesi per il proprio territorio, per Grillo è più importante il metodo di scelta. Di conseguenza, per Pizzarotti è buono un candidato conosciuto dagli aderenti al movimento, per Grillo è sufficiente che il candidato sia valido e abbia la possibilità di svolgere bene il suo lavoro.
Evidentemente sono vere entrambe le cose: una persona che si è impegnata molto (magari ad allestire banchetti) non garantisce affatto che sarà un buon parlamentare; un perfetto sconosciuto potrà avere capacità e formazione elevate ma, anche, deviare facilmente rispetto al programma della formazione che lo ha candidato.
Come accade spesso, nessun sistema è perfetto perché è difficile che molteplici esigenze siano tutte soddisfatte da una sola scelta che, per definizione, spazza via dal campo tutte le altre che si sarebbero potute prendere. Ciò premesso, bisogna pur scegliere chi ci rappresenti.
A me piacerebbe che la scelta tenesse conto di quel che nel passato ha realizzato una persona, più che di quello che ha detto. Chi ha saputo gestire bene un condominio, per dire, probabilmente è anche capace di gestire relazioni articolate e conflittuali; chi ha saputo lavorare bene per una cooperativa, forse sa anche come motivare un gruppo.
Detto questo, pur potendo continuare con gli esempi, preferisco concludere con l’ennesimo invito a scegliere, sì, ma con buon senso. Perciò ricordo l’immortale “principio di Peter” secondo il quale, in una organizzazione “meritocratica”, ognuno viene promosso fino a raggiungere il suo livello di incompetenza, cioè si sale nella scala gerarchica fino a occupare un posto per il quale non si è adatti. L’edizione italiana dell’opera di Laurence J. Peter e Raymond Hull è, purtroppo, fuori commercio. Per fortuna esistono le biblioteche pubbliche. Se volete dare una sbirciata dunque, potete cercare qui dove si trova il libro.

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , , , , , | Commenti disabilitati su In nome mio, di Grillo e di Pizzarotti

La farina del sacco di Farinetti

Oscar Farinetti

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 25/03/2014 nel sito antoniomessina.it]
Da qualche tempo, sulla stampa cartacea o telematica, accade sempre più spesso di incontrare il nome di Oscar Farinetti. Mi dicono che il titolare del nome è presente sempre più spesso anche in televisione ma io, televisione non avendo, non posso confermare questo fatto. Quello che posso dire, invece, è che a ogni piè sospinto Farinetti è cercato, interrogato, presentato come esempio di imprenditore di successo e, soprattutto, campione dell’italianità che si afferma nel mondo. Come in Italia accade troppo spesso, insomma, Farinetti sta diventando un esempio di vita perché ha avuto un grande successo commerciale. È amico di Matteo Renzi, mangia carne di manzo con Roberto Maroni, impartisce lezioni di coraggio che, ci spiega, è l’esito di sette mosse: amicizia, dubbio, tenacia, onestà, furbizia, capacità d’analisi e originalità che ci permettono di essere felici, vincenti e meravigliosi costruttori, insomma dei fuoriclasse.
Di Farinetti non so molto di più, né è di lui, in fondo, che io sto parlando. Il problema è sempre lo stesso, invece: la costruzione artificiale di un mito anche attraverso l’attribuzione di una valenza positiva a cose e fatti che non l’hanno o, quanto meno, di cui si può discutere se l’abbiano davvero. Tre piccole annotazioni, quindi.
L’Italia è un “marchio” internazionale frutto di secoli di storia. Appropriarsi in qualche modo di quel marchio (le società della famiglia Farinetti si chiamano Eataly, che in inglese suona come Italy) è una furbata del genere che ha chiamato un partito Forza Italia, rubando l’incitamento di milioni di tifosi sportivi. Non è un reato, ma chi lo fa non mi è simpatico.
Farinetti è la copertina del libro. Nelle pagine interne troviamo (da tempo) il nome di Coop e (da poco) quelli dei Branca, Ferrero, Lunelli, Lavazza e Marzotto. La solita concentrazione di ricchezza in un concentrato di ricchi che cercano di esserlo ancora di più. Il che va bene (soprattutto a loro) ma non mi spiega perché dovrei trasformarmi in una sorta di tifoso di Farinetti, come sembra che pretenderebbero certi giornali.
Il successo commerciale non rende ammirevole qualsiasi idea espressa da chi lo ha avuto. Farinetti sta palesemente cercando di far combaciare l’immagine della propria azienda con quella dell’Italia alimentare. Il suo modello commerciale è lo stesso di Ikea nel settore dell’arredamento o di Euronics nell’elettronica di consumo. Storie di enorme successo per quelle aziende che però, attorno ai loro poli, hanno seminato deserto. E perché dovremmo essere entusiasmati da tutto questo?
E, per finire, quanto è vero, solido, questo successo imprenditoriale? La società che detiene Eataly ha ceduto il 20% delle quote azionare della stessa Eataly per 120 milioni di euro, una somma che: “… valorizza il gruppo di Farinetti 600 milioni di euro, cioè 13 volte i margini attesi per fine 2014.”  Il tutto è dichiaratamente finalizzato alla quotazione in borsa fra il 2016 e il 2017. Dunque, fra tre anni i soci metteranno sul mercato le loro azioni. Perciò facciamo così: io oggi penso che attorno a Eataly crescerà lentamente la grancassa fino alla quotazione in borsa, e che una volta incassati i soldi Eataly sarà lasciata sgonfiare su se stessa, tanto a rimetterci saranno i risparmiatori. Fra tre anni vediamo che cosa è successo davvero. Chiunque voglia investire, comunque, si legga bene i bilanci. Se non sa farlo, metta i suoi soldi altrove.
Aggiornamento del 05/08/2019
Le fosche previsioni che avanzo nell’articolo si son rivelate totalmente errate. Al 25 marzo 2017, cioè dopo i tre anni ipotizzati dai proprietari di Eataly e presi a riferimento dal mio articolo, la stessa Eataly non era ancora stata quotata in borsa. In un articolo pubblicato online il 31 ottobre 2018, il Presidente esecutivo di Eataly Andrea Guerra dichiarava che il piano per quotare la società in borsa stava andando avanti e se ne sarebbe saputo di più nei seguenti 6-12 mesi, cioè entro il marzo o entro l’ottobre del 2019. Ad aprile del 2019, il finanziere Giovanni Tamburi ha dichiarato che Eataly “si sta preparando da tempo e ha rimandato un paio di volte, perché i numeri non erano quelli previsti, tra nuove aperture e investimenti mostruosi. Il problema è che la redditività a regime è in sofferenza”. Insomma, a distanza di cinque anni siamo ancora in alto mare e nessuno rischia di rimanare scottato acquistando azioni di Eataly. Peraltro, secondo notizie diffuse di recente la quotazione in borsa è rallentata da un incremento del giro d’affari, arrivato nel 2018 a 512 milioni di euro, però accompagnato da una perdita di oltre 17 milioni e da un indebitamente nei confronti delle banche che ha superato i 96 milioni. Nel frattempo, Eataly non è più diretta da Oscar Farinetti (che ha lasciato l’incarico nel 2015, sostituito dall’Andrea Guerra di cui sopra) e continua a espandersi all’estero. Un’altra di quelle storie con la rana che si gonfia fino a scoppiare?

Pubblicato in Economia e finanza | Contrassegnato , , , , , | Commenti disabilitati su La farina del sacco di Farinetti

La statistica degli statisti e le città metropolitane

Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia dal 2010 al 2014

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 28/02/2014 nel sito antoniomessina.it]
I numeri sono una cosa bellissima. Per esempio, danno molte certezze anche se è un vero peccato che quelle certezze, a differenza dei numeri, abbiano dei limiti. Mi spiego subito. Se un anno mangio dieci carciofi, l’anno dopo 30 e quello dopo ancora neanche uno, sono certo dei carciofi che ho mangiato nel singolo anno, in una coppia di anni e perfino nella somma dei tre anni considerati. È anche sicuro che il secondo anno ne ho mangiati il triplo dell’anno precedente e che il terzo ho smesso di mangiarne. Conoscendo il prezzo dei carciofi, posso addirittura calcolare esattamente quanto ho speso per quel gustoso alimento nel periodo di tempo che scelgo di osservare.
E qui, però, la potenza dei numeri si ferma. Perché compro dei carciofi? Perché ne ho consumate quantità così diverse? Questione di gusto? Mia moglie era ghiotta di carciofi e poi abbiamo divorziato tanto che io, in preda alla depressione, ho smesso di mangiarne perché me la ricordavano troppo? Mi hanno diagnosticato un’allergia? Per saperlo occorrerebbero ulteriori domande, nuove risposte, probabilmente altri numeri: livello di reddito, composizione del nucleo familiare, risultati delle analisi del sangue ecc.
Insomma, i numeri dicono qualcosa, a volte molto, ma raramente tutto. A quanto pare, però, di fronte ai numeri, non tutti hanno la mia stessa prudenza. Giorgio Orsoni, per esempio, cammina sul filo delle cifre come neanche un acrobata da circo.
Siccome non tutti lo conoscono, informo che Orsoni Giorgio è l’attuale sindaco di Venezia, nel viso somiglia vagamente al giornalista Eugenio Scalfari e, per quel che qui interessa, è il “delegato alle Città metropolitane” dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI).
Le cosiddette “Città metropolitane” sono, sostanzialmente, dei grandi agglomerati sovracomunali ai quali viene riconosciuta un’autonomia amministrativa, affiancandosi agli enti locali tradizionali: regioni, province, comuni. Previste per la prima volta nel 1990, poi inserite nella Costituzione nel 2001, fino ad oggi non sono state ancora effettivamente istituite.
Come accade, c’è chi le considera completamente inutili e chi invece le ritiene necessarie. Orsoni appartiene alla seconda schiera e in una conferenza stampa di qualche tempo fa ha snocciolato “alcuni numeri a sostegno della necessità di dare operatività alla riforma … ormai ferma da venti anni.” E quali sono i numeri di Orsoni? Eccoli:
– il 39% dell’occupazione è concentrata nelle grandi città;
– il 50% degli addetti alle attività terziarie lavora nelle aree dove dovranno nascere le Città metropolitane;
– il 36% degli immobili (12 milioni di unità) italiani è ubicato nei grandi centri.
Dunque, conclude Orsoni, l’istituzione delle Città metropolitane non è più rinviabile perché è su tale istituzione che “si gioca la pianificazione strategica metropolitana che, se ben attuata, potrà favorire l’integrazione di politiche e servizi nell’ottica di una programmazione a lungo termine.
A dar manforte a Orsoni è intervenuto Graziano Delrio, già Ministro per gli affari regionali e ora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Delrio, riferiscono, ha detto: “Penso che con l’istituzione delle città metropolitane si possano dematerializzare tutti gli atti burocratici nel giro di 12 mesi.
Sulle ali dell’entusiasmo di fronte al rigore logico di Orsoni e Delrio, mi sono provato anch’io a dilettarmi con dei progetti di riforma.
Riforma del campionato di calcio. Le città di Torino, Roma e Milano hanno il 30% delle squadre di serie A, perciò è necessario istituire un campionato metropolitano che, grazie alla dematerializzazione dei palloni, permetterà di disputare l’intero torneo nel giro di poche ore, con grande vantaggio per i tifosi ansiosi di conoscere il risultato delle partite.
Riforma dell’agricoltura. Il 90% delle attività agricole viene svolta su terreni agricoli e solo il 10% in serre chiuse, perciò è necessario istituire un registro delle produzioni agricole che permetta di conoscere quanti prodotti sono coltivati ricorrendo all’uso di macchine trebbiatrici.
Riforma del cinema. Il 70% dei biglietti d’ingresso viene venduto nei giorni festivi, perciò è necessario istituire dei cinema festivi dai quali, grazie alla dematerializzazione delle poltrone, gli spettatori usciranno non appena si sentiranno stanchi di stare in piedi, con beneficio per gli esercenti che potranno trovare rapidamente un posto agli spettatori in attesa.
Grazie ai numeri, progettare riforme è facile e divertente. Prova anche tu!

Pubblicato in Società e vita politica | Contrassegnato , , , , , | Commenti disabilitati su La statistica degli statisti e le città metropolitane

L’aura delle regole

Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati dal 2013 al 2018

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 04/02/2014 nel sito antoniomessina.it]
I casi della vita mi hanno portato a svolgere un’attività professionale che ha per contenuto principale quello di pretendere, verificare e applicare le regole. Tale attività ha la sua dose di spine, specialmente quando costringe a mediare fra uomo (che magari non condivide affatto la regola) e funzionario (che quella regola non condivisa deve, però, applicare), ma tant’è e, sia pure non più di altri, anche garantire il rispetto delle regole è un lavoro difficile. Non so se riesco a svolgerlo sempre nel modo migliore, di sicuro sono più bravo di Laura Boldrini, attuale Presidente della Camera dei Deputati.
Pochi giorni fa, Laura Boldrini ha motivato la sua decisione di mettere ai voti, annullando l’ostruzionismo dei parlamentari del Movimento 5 Stelle, la conversione in legge del cosiddetto decreto “IMU-Bankitalia” con la volontà (della Boldrini, evidentemente) di “impedire che oggi le famiglie italiane dovessero preoccuparsi di tornare a pagare la seconda rata dell’Imu come sarebbe successo se non fosse stato votato per tempo un decreto legge che pure conteneva materie tra loro molto diverse”. Dunque, secondo Boldrini, le cose stanno così: in casi di necessità e urgenza, il Governo emana un decreto legge; se il decreto sta per scadere, il Presidente della Camera ne assicura la possibilità di conversione perché ritiene giusti contenuti e finalità del provvedimento. Dunque, il Presidente della Camera esprime un giudizio di merito e “fa politica”.
La decisione di Laura Boldrini non ha precedenti nella storia della Camera e già questo avrebbe dovuto suggerire qualche riflessione. Per misurare la gravità di quanto accaduto, del resto, è utile ricorrere a una sorta di esperimento mentale. In questo mese di febbraio, lamenta la stessa Boldrini, scadranno i termini per la conversione di vari decreti legge. Se tali decreti non dovessero piacere al Presidente della Camera, questi potrebbe agevolmente lasciare libero sfogo all’ostruzionismo dell’opposizione lasciando che uno o tutti tali decreti non siano convertiti in legge. Sostituzione del Parlamento, fine non dichiarata della democrazia rappresentativa.
Operare a tutela delle regole può essere difficile. A volte, molto difficile. Fra le cose da valutare prima di fare delle eccezioni, mi pare, c’è anche la quota di credibilità che si perde facendo pendere la bilancia da un lato anziché dall’altro. E comunque, ne avessi avuta l’occasione, io avrei scelto un altro modo per passare alla storia.

Pubblicato in Persone, Società e vita politica | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su L’aura delle regole

Numeri da blogger

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 09/01/2014 nel sito antoniomessina.it, al quale si riferiscono le informazioni contenute nell’articolo stesso]
All’origine di questo articolo ci sono l’invariabile abitudine di essere sincero e quella, altrettanto forte, per la verifica basata sui dati statistici. Fine della premessa e andiamo subito a vedere, grazie ai fantastici rilevatori degli accessi ai siti Internet, se qualcuno ha raccolto i messaggi lanciati dalle mie pagine web.
Nel 2013 le pagine del sito sono state visualizzate complessivamente 7.664 volte. Anche considerando le visualizzazioni dovute ai motori di ricerca, il numero non sarebbe poi così basso. Peccato soltanto che non riguardi me. Delle 7.664 visualizzazioni, infatti, 4.519 (quasi il 60%) si riferiscono alle istruzioni per costruirsi una macchina fotografica a foro stenopeico, un oggettino che, fatta salva la grande amicizia con l’autore Pasquale Aiello, comincio a sentirmi in diritto di odiare cordialmente (anche perché praticamente nessuno di quelli che leggono le istruzioni poi passa a curiosare fra le altre pagine).
Superata la montagna dei numeri fotografici, si arriva a quelli che raccontano davvero del mio sito. La pagina più vista del 2013 (287 visualizzazioni) è quella del blog. Questo numero si riferisce all’indirizzo del blog stesso (antoniomessina.it/blog) ma, evidentemente, comprende le letture dei diversi articoli che si sono succeduti via via (il primo che appare nella pagina è sempre il più recente). L’articolo al quale ci si è collegati direttamente (cioè collegandosi all’indirizzo specifico) il maggior numero di volte è “Twitting Mandela”, letto (o, perlomeno, visto) per 18 volte.
Dopo il blog, la sezione più vista è quella dei racconti, con 86 visualizzazioni. Anche in questo caso, la spiegazione più probabile del buon piazzamento è legata alla maggiore varietà della sezione (che, ad oggi, contiene 16 racconti) e agli aggiornamenti che ne sono derivati. Infine, al momento può farmi piacere ma non trova spiegazioni la buona posizione (19 visualizzazioni) della pagina degli ospiti dedicata a Alessandra Buschi e Raffaella Vicario.
Insomma, siamo onesti: per ora questo blog è poco più di un diario tenuto nel cassetto e fatto leggere a pochi amici intimi o, per ricordare una bella canzone, un messaggio nella bottiglia che si affianca a quello di altri milioni di naufraghi.

Pubblicato in Web e webmaster | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su Numeri da blogger

I vivi e i morti

La scrittrice canadese Alice Munro, Premio Nobel 2013

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 02/01/2014 nel sito antoniomessina.it]
La più grande narratrice vivente del Nord America”. Questo lapidario giudizio di Jonathan Franzen è riportato sulla copertina di Nemico, amico, amante (Einaudi, 2003, pp. 315), raccolta di racconti della scrittrice canadese, e recente premio Nobel, Alice Munro. Lungi dal condizionare il formarsi della mia opinione (Nemico, amico, amante è il primo libro della Munro che ho letto in vita mia), le parole di Franzen mi hanno fastidiosamente solleticato. Perché ha sentito il bisogno di specificare “vivente”? Se la Munro, e sia chiaro che non glielo auguro, morisse di qui a poco, diventerebbe la più grande narratrice defunta? Oppure fra i defunti (beninteso: narratori del Nord America) c’è qualcuno più grande di lei? Purtroppo, fra i narratori (italiani) defunti dobbiamo annoverare Achille Campanile che, su domande del genere, sarebbe stato capace di scrivere pagine memorabili.
Comunque sia, Nemico, amico, amante. Si tratta di nove lunghi racconti che esprimono al meglio questa forma di narrazione che, per generare un’esperienza di lettura intensa, deve esaltare il dettaglio che racchiude l’insieme. A volte si tratta di istantanee, a volte di brevi sequenze che descrivono un momento di passaggio, una debolezza che ci impedisce di passare il guado, la rassegnazione a cui ci costringe l’occasione perduta, i dubbi a cui ci porta l’occasione che abbiamo colto. Insomma, le esperienze che possono far parte della vita di molte persone, per non dire di tutte.
Pur molto diversi fra loro, dei nove racconti ho preferito quello d’apertura (“Nemico, amico, amante”, che dà il titolo alla raccolta) e l’ultimo, “The bear came over the mountain”. Il primo è decisamente umoristico, con uno scherzo adolescenziale che ha conseguenze impreviste e a lungo termine. “The bear came over the mountain” (cioè: l’orso attraversò la montagna), invece, è il toccante, a volte duro, racconto della malattia mentale di Fiona e di come suo marito Grant si confronti con gli sviluppi impensati della situazione.
Nemico, amico, amante è senz’altro da leggere. Tuttavia, a lettura ultimata ho pensato che nessuno dei nove racconti raggiunge bellezza e intensità di quello che, ad oggi, rimane il mio racconto preferito in assoluto, cioè “I morti”, in Gente di Dublino, di James Joyce. Il più grande narratore defunto dell’arcipelago britannico.

James Joyce (1882 – 1941)
Pubblicato in Libri, arte, cinema, umanità | Contrassegnato , , , , , , , | Commenti disabilitati su I vivi e i morti

MIchele Serra fra sdraiati e sdraio

Michele Serra

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 27/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra i libri che ho ricevuto per Natale era in qualche modo inevitabile che ci fosse Gli sdraiati di Michele Serra (Feltrinelli, 2013, pp. 108). Inevitabile perché l’autore ha deciso di dedicare il suo ultimo libro al rapporto genitori-figli visto a partire dalla sua esperienza che, in effetti, ha più di un punto di contatto con la mia: essere un padre di oltre cinquant’anni (in effetti, Serra ne compirà 60 il prossimo anno, dunque sei più di me), con un figlio di meno di 20 (mia figlia ne compirà 18 fra non molti mesi) caratterizzato in modo non singolare (nel senso che a quei comportamenti è attribuita valenza “generazionale”) dall’essere disordinato, pigro, trascurato e incapace di cogliere la differenza fra un un gesto concluso e un gesto incompleto (tipicamente: che la cosa è fatta non quando si è finito di mangiare ma quando il piatto è tolto dalla tavola, pulito delle eventuali scorie più grosse e riposto nella lavastoviglie). Le somiglianze fra me e Serra, però, temo che si esauriscano in questi dati superficiali.
Partendo dall’osservazione stralunata dei comportamenti del figlio (e di una sua amica che finisce nel campo di osservazione) Serra li registra alternando ironia e preoccupazione. Una camminata in montagna, in un luogo della memoria, diventa l’occasione proposta insistentemente al figlio per ricercare una condivisione di esperienze e, di conseguenza, un nuovo legame che permetta poi di passare il testimone. Quando la camminata avviene, col figlio poco allenato e che la affronta con le scarpe sbagliate, dopo un po’ Serra si accorge di essere rimasto indietro. Il figlio lo ha staccato per scollinare da solo, perso alla vista del padre che, da questo, conclude di poter finalmente diventare vecchio.
L’idea di Serra, sembra, è che noi genitori critichiamo i figli perché non sono giovani nello stesso modo in cui lo siamo stati noi, ma che loro sapranno cavarsela bene lo stesso. Personalmente, parlando da padre, ritengo questa tesi tanto consolatoria quanto auto-assolutoria. Consolatoria perché, nella mia pur modesta esperienza, ciò che noto è che le nuove abilità di cui sono provvisti oggi i giovani, alla fin fine, si riducono all’uso delle nuove tecnologie. In questo non rilevo passi avanti per due motivi: quando noi genitori avevamo l’età dei nostri figli, quelle tecnologie, semplicemente, non c’erano e perciò è stupido fare confronti; in secondo luogo, le stesse abilità non si stanno aggiungendo alle nostre ma le rimpiazzano, anche se quelle “vecchie” rimangono necessarie. Il risultato è che, se per qualche motivo va via la corrente elettrica, nessuno o pochissimi giovani sarebbero in grado di svolgere una ricerca, risolvere un problema, reperire un’informazione.
L’auto-assoluzione risiede nel dire che sì, magari non siamo riusciti a trasmettere (o, almeno, a raccontare) la nostra esperienza, però poco male: sono giovani e forti e sapranno percorrere la loro strada, perciò noi padri possiamo rimanere sulle sdraio a leggere e prendere il sole ammirando il panorama.
Io sono affezionato al significato letterale della parola educare. Viene dal latino ex ducere, condurre fuori. È una parola bellissima che comprende tutto: il senso del viaggio, l’aiuto a crescere, il rispetto dei tempi di ciascuno (“si accompagna” e non “si trascina”), il fatto che “fuori” il mondo è grande e ciascuno sceglierà poi dove andare. Ma non ci si può sottrarre al ruolo: il genitore è colui che, fin quando è necessario, come minimo racconta che c’è un “fuori” formato dalle nostre attitudini, dalla relazione con gli altri, dal nostro essere sociali nel modo che più ci è congeniale.
Checché ne dica Serra, insomma, sono convinto che una prossima edizione degli Sdraiati, dopo il finale attuale avrebbe una pagina in più, quella dove si racconta che il figlio si è ritrovato con le vesciche ai piedi e che il padre è dovuto andare in farmacia.

Pubblicato in Libri, arte, cinema, umanità | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su MIchele Serra fra sdraiati e sdraio

Un Natale kaizen

Il marchio della Banca del Cibo per la città di New York

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 23/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel mio articolo del 20 dicembre sostenevo che l’inefficienza è dannosa quanto la corruzione dei funzionari e la voracità dei partiti. Subito dopo aver scritto quell’articolo, il caso ha voluto che m’imbattessi in una notizia che parla proprio di efficienza e che, visto il periodo, mi ha toccato come una commovente storia di Natale. Forse ci vuole un po’ di fantasia, dato che al posto di slitta, renne e anziano corpulento con barba bianca e giubba rossa che parte dal Polo, abbiamo una multinazionale giapponese dell’automobile che agisce a New York. Inoltre, la notizia è di qualche mese fa. Tuttavia, è davvero più bello immaginare il tutto mentre la neve fiocca, anziché sotto il sole estivo che c’era quando fu riportata dal New York Times.
La Food Bank for New York City è il più grande ente benefico degli Stati Uniti a occuparsi dell’assistenza alimentare ai poveri; eroga circa un milione e mezzo di pasti all’anno; è sostenuto da una serie di finanziatori: dalla Bank of America alla squadra di baseball dei New York Yankees, fino alla Toyota. Tutti staccano assegni più o meno generosi ma, un bel giorno, alla Toyota viene in mente il kaizen, cioè il metodo organizzativo il cui nome viene normalmente tradotto con l’espressione “miglioramento continuo”. Così Toyota propone alla Food Bank una donazione diversa dal solito: anziché soldi, un po’ di tempo dei loro ingegneri.
Dopo qualche perplessità, Food Bank accetta e gli ingegneri si mettono al lavoro. Il punto di partenza è un’attesa media di un’ora e mezza per ricevere il pasto. Il punto a cui si arriva è un’attesa di 18 minuti grazie a tre accorgimenti:
anziché far entrare le persone a gruppi di dieci, le si fanno entrare via via che si libera un posto in mensa;
la zona dove si attende il proprio turno è spostata più vicino alla linea di distribuzione dei pasti;
nelle ore di distribuzione dei pasti, un incaricato di Food Bank ha il compito esclusivo di verificare via via la disponibilità di posti, segnalandola subito alle persone in attesa.
Piccole cose, come si vede, ma che hanno prodotto una conseguenza positiva sproporzionata, in meglio, rispetto alla dimensione apparente delle decisioni: ogni persona aspetta un quinto del tempo che impiegava prima, Food Bank riesce a erogare molti più pasti.
Non si deve mai pensare alla strada tutta in una volta, tutta intera, capisci? Si deve soltanto pensare al prossimo passo, al prossimo respiro, al prossimo colpo di scopa. Sempre soltanto al gesto che viene dopo … Allora c’è soddisfazione; questo è importante, perché allora si fa bene il lavoro. Così deve essere.” (ENDE, Michael, Momo, Milano, Longanesi, 1984).

Pubblicato in Economia e finanza, Società e vita politica | Contrassegnato , , , , , , , , , | Commenti disabilitati su Un Natale kaizen

Se moltiplicando

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 20/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
L’ultimo dato fornito dalla Banca d’Italia riferisce del nuovo massimo storico raggiunto dal debito pubblico dello Stato italiano: a ottobre 2013 siamo arrivati a 2.085.321.000.000,00 euro, una cifra che, scommetto, avrete perfino difficoltà a leggere. Per riportarla a un livello comprensibile, diciamo che ogni italiano si trova sul groppone 35mila euro di passivo sul suo conto personale di cittadino. Di fronte a tali cifre, una delle domande più spontanee è: come si è potuti arrivare a tanto?
Come per molti fenomeni di ampia portata, penso che l’approccio corretto sia quello che evita risposte semplicistiche e, più ancora, risposte univoche. Una sola causa, difficilmente avrebbe potuto scatenare effetti tanto disastrosi e duraturi nel tempo come quelli concretizzati dall’enorme debito dello Stato italiano.
Un’opinione diffusa colloca l’origine di quel debito nella corruzione e negli appetiti dei gestori della cosa pubblica, prima di tutto i partiti. Esperienze comuni, vox populi e vicende giudiziarie conferiscono fondatezza a quell’opinione ma trascurano, a parer mio, altri due fattori di uguale se non maggiore importanza. Mi riferisco alla solidità morale e alla robustezza professionale dei decisori. Ci si potrebbe scrivere sopra un saggio, provo a cavarmela con l’esempio di una vicenda che ho dovuto seguire direttamente, dato che ha accompagnato la mia vita professionale.
Alludo alla gestione dell’Albo degli autotrasportatori. Questa gestione, fino al 2001 era affidata alla Motorizzazione Civile. Nel 2002, uno fra i topolini partoriti dalla montagna del federalismo all’italiana fu il passaggio di quella gestione alle Province. In questi giorni, la Legge di stabilità per il 2014 la sta restituendo alla Motorizzazione.
Premesso che ogni scelta può essere argomentata e legittima, mi limito a constatare che questo palleggio significò nel 2001 un mare di circolari, decisioni, trasferimenti (di personale, documenti, risorse finanziarie) e predisposizione di strumenti di lavoro (informatici e non) senza contare l’istituzione di uffici, posti dirigenziali e incarichi vari. Nel prossimo futuro, nonostante la Legge di stabilità 2014 affermi “coraggiosamente” che la restituzione dell’Albo alla Motorizzazione avverrà senza oneri per lo Stato, si verificheranno esattamente gli stessi fenomeni, ma nella direzione inversa a quella del 2002. E tutto ciò, si badi bene, per dare agli autotrasportatori sempre esattamente lo stesso servizio.
Ecco, secondo me, una fetta della cifra che abbiamo visto all’inizio viene anche da vicende come questa dell’Albo. Una vicenda minuscola rispetto al mare del debito pubblico e tuttavia, parafrasando Mina, se moltiplicando io potessi calcolare le risorse sprecate con le migliaia di decisioni irrazionali e costose, ho l’impressione che avrei individuato una causa di quel debito che, con gni probabilità, può stare al pari della corruzione e della affermata voracità dei partiti.
P.S.
Per semplificarvi la vita: il debito pubblico ha superato i duemilaottantacinque miliardi di euro.

Pubblicato in Società e vita politica | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su Se moltiplicando

Mio caro Jonathan, è stato bello ma …

Jonathan Coe

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 11/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Lo straordinario credito acquisito ai miei occhi da Jonathan Coe con La famiglia Winshaw mi ha poi spinto a leggere via via, con insistenza da innamorato, Questa notte mi ha aperto gli occhi, La casa del sonno, La banda dei brocchi, Circolo chiuso, La pioggia prima che cada, I terribili segreti di Maxwell Sim e finalmente (lettura conclusa pochi giorni fa) il recente Expo 58 (Milano, Feltrinelli, 2013, pp. 280). Quest’ultimo libro passerà alla mia storia di “lettore forte” come la classica goccia che fa traboccare il vaso. Infatti, se nessuno dei sei romanzi pubblicati da Coe dopo La famiglia Winshaw ne raggiungeva le vette stilistiche e di contenuto, Expo 58 è quello che più di tutti meriterebbe la qualifica di bidone.
La storia è insulsa, alcuni movimenti della trama sono di una banalità sconcertante. Per dire: il protagonista inglese vive un matrimonio privo di slanci e passione. Inviato in missione a Bruxelles per l’Esposizione Universale, viene accolto da un’avvenente hostess belga. Ebbene, tenetevi forte perché Coe risolve la situazione in modo geniale: i due finiscono per diventare amanti. Ma il protagonista è insulso come il libro che lo ospita e, dopo aver ondeggiato fra la belga e un’americana, ritorna al focolare domestico. Dopo alcuni decenni, vedovo, torna in Belgio e da un’amica comune viene a sapere che dall’unica appassionata notte d’amore con la belga è nata una figlia. L’intrigante vicenda si svolge intrecciando i suoi eventi con quelli legati alla gestione del pub Britannia, un locale che ricrea, all’interno del padiglione inglese ell’Expo, una tipica birreria britannica che, come il protagonista sarà costretto a scoprire, diventa il teatro di una lotta sotterranea fra i servizi segreti inglese e americano contrapposti a quello russo. Sotto i profili dell’originalità e della capacità di avvincere il lettore, la vicenda spionistica si colloca giusto mezzo gradino sopra quella sentimentale.
Così, dopo aver preso ben sette batoste in cambio di un unico capolavoro, penso proprio che lascerò Coe al suo destino. Devo anche dire che non amo e non ho intenzione di dedicarmi alle stroncature. Così, questo breve articolo non è altro che una lunga premessa all’invito a leggere (o rileggere) La famiglia Winshaw, il romanzo in cui l’innegabile talento narrativo di Coe si salda con una varietà di registri, una coerenza delle parti e, oserei dire, un valore civile mai ripetuti nei successivi romanzi.

Pubblicato in Libri, arte, cinema, umanità | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su Mio caro Jonathan, è stato bello ma …

6 dicembre 2013

Su Nelson Mandela ho già scritto in un paio di occasioni, l’ultima proprio nel post precedente a questo. Nel giorno della sua morte, non mi sento di aggiungere altro. L’immagine qui sotto è uno dei suoi ritratti che preferisco. Fu scattata nel 1960.

Nelson Mandela (1918 – 2013). La fotografia, scattata nel 1960, lo ritrae mentre brucia il passaporto interno imposto ai sudafricani di colore.
Pubblicato in Persone | Contrassegnato | Commenti disabilitati su 6 dicembre 2013

Twitting Mandela

Nelson Mandela (1918 – 2013)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 17/11/2013 nel sito antoniomessina.it]
Su Twitter, il servizio di cosiddetto microblogging (possibilità di pubblicare via web testi di non più di 140 caratteri), si è già scritto molto, né pretenderò di far concorrenza a sociologi, filosofi e analisti vari aggiungendo considerazioni profonde e originali sull’argomento. Mi limiterò a esporre l’esito di una mia piccola esperienza personale.
L’interesse e l’ammirazione che nutro verso Nelson Mandela si sono tradotti, fra l’altro, nella lettura di tre libri: l’autobiografia Lungo cammino verso la libertà; la raccolta di materiale preparatorio per l’autobiografia intitolata Io, Nelson Mandela; il saggio Nelson Mandela and the Game that made a Nation, di John Carlin, dal quale è stato tratto il film Invictus, regia di Clint Eastwood, con Morgan Freeman nei panni del grande leader sudafricano. Ho visto anche il film, tre volte.
Da circa un anno sono anche un follower, appunto su Twitter, della Nelson Mandela Foundation. I tweet (cioè i micromessaggi pubblicati) della Fondazione sono sostanzialmente di due tipi. Il primo tipo contiene il ricordo di piccoli anniversari nella vita di Mandela. Cose del tipo: 15 novembre 1993 Nelson Mandela ritorna a Howick, nel KwaZulu-Natal, nel luogo dove fu arrestato nel 1962. Oppure: 13 novembre 1989 Nelson Mandela annota la sua pressione sanguigna sul calendario della sua prigione. 150/80 alle 7 di mattina, 140/80 alle 10.30 e 150/80 alle 15.30. Per chi conosce un po’ il personaggio, si tratta di cose estremamente minute ma che confermano l’idea che ci si può essere fatti di lui.
Il secondo tipo di tweet è composto da citazioni di Mandela stesso. Frasi come: “Io non ho, mai e sotto alcun riguardo, considerato le donne meno competenti degli uomini.” Oppure: “È stato detto mille e una volta che il problema non è quel che accade a una persona ma come quella persona vive quel problema.”
Ecco, il primo tipo di tweet arricchisce chi già conosce la storia di Mandela grazie ai dettagli che danno la dimensione quotidiana di una battaglia epocale. I tweet del secondo tipo, invece, finiscono per essere controproducenti, specialmente per chi dovesse farne la sua fonte primaria di informazione sulla vita e il pensiero di Mandela. Certe frasi, infatti, estratte dal contesto complesso della vita del leader sudafricano e degli anni che ha attraversato, diventano banali e, in qualche caso, rasentano addirittura il ridicolo (come: “Essere poveri è una cosa terribile.”).
È per questo che Twitter va bene, e anch’io ne faccio uso, ma se si vuole conoscere Mandela è molto meglio sobbarcarsi la piacevole fatica di leggere Lungo cammino verso la libertà, 579 pagine per raccontare una fantastica avventura umana.

Pubblicato in Persone, Web e webmaster | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su Twitting Mandela