Storie di biblioteche

Locandina Biblionovel – Iniziativa della Biblioteca “San Giovanni” di Pesaro

[Questo articolo apparve per la prima volta il giorno 04/02/2013 nel sito antoniomessina.it]
A giugno del 2012, fra le iniziative prese per festeggiare il suo decimo compleanno, la biblioteca San Giovanni di Pesaro organizzò due interessanti incontri su come le biblioteche fossero rappresentate nel cinema e nella letteratura. Riguardo a quest’ultima, le relazioni segnalarono una differenza fra gli scrittori stranieri (specialmente di area anglosassone) e quelli italiani. I primi, quando decidono di farlo, includono la biblioteca fra i luoghi in cui può accadere qualcosa perché la biblioteca, nel loro contesto socio-culturale, è uno dei luoghi della comunità. Per gli scrittori italiani, invece, la biblioteca (e più esattamente: la biblioteca pubblica) è una ulteriore occasione per lamentarsi dell’inefficienza e dell’ottusità con le quali agisce la pubblica amministrazione. Non è così sempre e comunque, ma neppure è raro. E quando accade, per quanto il tono sia ironico la sostanza non cambia: anche in biblioteca il cittadino è vittima di ritardi e regole astruse, oltre che prive di un qualsiasi senso. Data la brevità dell’esempio, cito un divertente brano di Daniele Luttazzi:
“Caro Daniele, perché hai fatto medicina? Per vocazione: un giorno entro in una biblioteca e chiedo se hanno un libro sulla manovra di Heimlich, quella che serve a liberare chi sta soffocando dal bolo che gli è andato di traverso. La bibliotecaria mi fa: ‘Guardi sullo scaffale in fondo, quello più in alto’. Prendo la scala, salgo, cerco il libro, torno dalla bibliotecaria. ‘Ha dimenticato la scala’. Vado, rimetto a posto la scala, torno. ‘Vorrei prendere questo libro.’ ‘Ha la tessera della biblioteca?’ ‘No.’ ‘Costa 8.700 lire.’ Gliene do diecimila. ‘Non ho il resto. Questa è una biblioteca, non una banca.’ Riprendo la scala, rimetto il libro sullo scaffale in alto, vado in banca a cambiare i soldi. ‘Si questa è una banca. Eccole i soldi.’ Torno in biblioteca, compro la tessera, prendo la scala, prendo il libro sulla manovra Heimlich, torno in macchina, ma ormai la mia ragazza è morta soffocata.” (LUTTAZZI, Daniele, Satyricon, Milano, Mondadori, 2001, p. 127-128).
Questa visione amara non è priva di un reale fondamento ma, a mio parere, denota anche la tendenza, diffusa fra noi italiani, a rivendicare individualmente anziché risolvere collettivamente. Mi spiego meglio: un gran numero di persone è pronto a lamentarsi perché deve aspettare troppo per avere un libro in prestito ma, una volta fuori della biblioteca col libro desiderato, non spende una goccia del suo tempo per chiedere un miglioramento generale del servizio o, magari, sostenere in qualche modo chi vorrebbe migliorare le cose a beneficio di tutti.
È per questo che vorrei parlare, da oggi in poi, delle biblioteche per quello che sono state nella mia esperienza: luoghi nei quali ci si apre al mondo attraverso il momento intimo della lettura. E non soltanto questo.
Ai prossimi articoli, dunque.

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Ahmed Baba e i sei ladroni

Facciata d’ingresso dell’Istituto Ahmed Baba a Timbuctù, nel Mali

[Questo articolo apparve per la prima volta il giorno 29/01/2013 nel sito antoniomessina.it]
Apprendo dagli organi d’informazione due notizie geograficamente lontane ma culturalmente meno distanti di quanto possa sembrare.
Sul sito web del Corriere della Sera, ieri 28 gennaio 2013 potevamo leggere: Mali, i jihadisti bruciano libri antichissimi. L’occhiello del titolo rincarava: Scempio a Timbuctù, dove è stato dato alla fiamme l’Istituto Ahmed Baba che contiene oltre 20mila preziosi manoscritti.
Oggi, invece, sullo stesso sito potevamo leggere: Libri rubati, Dell’Utri indagato per concorso in peculato, Sotto il titolo, l’articolo riferiva la notizia dell’arresto di sei persone coinvolte nella sparizione di 1.500 libri (antichi) dalla Biblioteca dei Girolamini, a Napoli. L’indagine dei magistrati napoletano coinvolge anche il senatore Dell’Utri al quale, a differenza dei jihadisti, il sito del Corriere concedeva il diritto ad una replica, debitamente citata in chiusura dell’articolo. “Riguardo al suo presunto coinvolgimento nella vicenda, Dell’Utri ha spiegato all’Adnkronos di essere «già stato ascoltato dalla Procura». «È una bufala, una balla assoluta – sottolinea – Io non c’entro assolutamente niente»”.
Fatto sta che in Mali bruciano i libri antichi (anzi, antichissimi, per maggiore orrore di noi occidentali) mentre a Napoli (per la precisione: alla Biblioteca dei Girolamini) li rubano ma con l’accortezza, sospettano gli inquirenti, di regalarne un paio a un senatore della Repubblica, che male non fa.

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Non siamo Messi bene, perciò rimpiango Baggio

[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il giorno 03/01/2013 nel sito antoniomessina.it]
Sperando di distrarmi dalle difficoltà quotidiane e dalle miserie della politica italiana, mi sono avventurato nella visione dei 91 gol realizzati dal calciatore Lionel Messi nel 2012. Dopo una decina di minuti (tanti ne occorrevano per vedere tutte le oltre novanta reti) sono andato a cercare qualche filmato di Roberto Baggio.
Se bastassero i numeri a colpire l’immaginazione, le statistiche susciterebbero un entusiasmo incontrollabile, la gente farebbe la coda per procurarsele e scenderebbe in strada cantando. I caroselli di auto sarebbero avvolti da un coro di clacson mentre i passeggeri che si sporgono dai finestrini, con una mano sventolerebbero le bandiere e con l’altra il Guinness dei primati o, meglio ancora, uno degli annuari pubblicati dalle federazioni sportive che riportano l’elenco delle migliori prestazioni stagionali. Invece non è così. Quello che incanta è il momento magico nel quale l’atleta si esprime a un livello superiore, l’istante in cui lo spettatore vede qualcosa che, prima, non aveva neppure immaginato. Quello che si imprime nella memoria è il gesto che ci restituisce il senso di meraviglia che abbiamo provato soltanto da bambini, quando ci si sorprendeva per le piccole e grandi scoperte della vita.
Ho visto tutti i 91 gol realizzati da Messi nel 2012. Qualche rigore, più d’una rete segnata a porta vuota, un paio di pallonetti e tanti tiri che sembravano sempre lo stesso. Nessuna marcatura che stupisca per l’invenzione, la fantasia. Riconosciuta a Messi una notevole precisione al tiro, chi ha potuto ammirare Maradona o Roberto Baggio non può fare a meno di avvertire una sottile nostalgia.
Di Maradona paragonato a Messi scrissi già. Oggi chiudo ricordando due reti spettacolari di Baggio. La prima è una punizione in cui al pallone è impressa una traiettoria incomprensibile agli umani. La seconda (dal secondo 17 del filmato) è un capolavoro di fine carriera, lo stesso tocco morbido e sorprendente dei suoi vent’anni. Buona visione.

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L’esperienza che abbiamo e il Movimento 5 Stelle

Donatella Agostinelli, capolista Movimento 5 Stelle nelle Marche alle elezioni politiche del febbraio 2013

[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il giorno 28/01/2013 nel sito antoniomessina.it]
L’Italia di questi giorni sta osservando, chi con curiosità, chi con entusiasmo e chi con preoccupazione, alla crescita di quel Movimento 5 Stelle (M5S) che, formatosi attorno al comico Beppe Grillo, parteciperà per la prima volta alle elezioni politiche, le prossime fissate per il 24 e 25 febbraio 2013.
Ascoltandole parlare, o leggendo le loro note biografiche, le persone che il M5S ha candidato al Parlamento appaiono persone comuni, impegnate volontariamente sui temi che hanno a cuore: dalla tutela dell’ambiente allo sviluppo delle reti informatiche, dall’agricoltura alla qualità della vita. A volte il loro impegno nasce dalla loro esperienza di vita: la difesa della scuola pubblica perché sono genitori con figli; l’attenzione alla gestione dei rifiuti perché sono contrari all’inceneritore vicino casa.
La prima, la più comune e la più facile critica rivolta al M5S è perciò quella di candidare al governo dell’Italia persone senza esperienza politica e amministrativa. Più che una critica, è la constatazione di un fatto: i candidati del M5S non hanno precedenti esperienze in Parlamento né di Governo. Questo fatto, però, non è l’unico. Per esempio, è un fatto che il debito pubblico italiano a novembre 2012 ha toccato il massimo storico di 2.020,668 miliardi di euro (la fonte è il Bollettino statistico della Banca d’Italia), così come è un fatto che, mentre raggiungevamo questo bel record, alla Camera, al Senato e al Governo c’erano persone di provata esperienza politica e parlamentare, nonché tutti laureati.
Sono proprio i fatti, dunque, a dirci che l’esperienza politica e parlamentare non sembra essere l’ingrediente decisivo per la formazione di un buon governante e che, forse, potrebbero essere importanti anche altri fattori personali: il senso della comunità, l’assenza di interessi privati nel gestire la cosa pubblica, la tanto sbandierata onestà. Senza contare che l’esperienza serve ma, appunto, è il frutto di un percorso che ha un suo inizio. Anche Giulio Andreotti, in Parlamento senza interruzioni dal 1948, all’inizio non aveva “esperienza”.

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Saverio Raimondo, Franca Valeri, il boom e lo sboom


[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il giorno 07/12/2012 nel sito antoniomessina.it]
Ieri 6 dicembre (2012! se si leggesse questo articolo fra chissà quanto tempo), a Pesaro, nella Sala della Repubblica del Teatro Rossini e per iniziativa della Biblioteca San Giovanni, ho assistito a uno spettacolo teatrale che comprendeva due brevi monologhi di Saverio Raimondo. Il primo di essi basava la propria comicità sul racconto del denaro e del lavoro (quello “normale”, retribuito) come esperienze lontanissime nel tempo, ricordi che è possibile ottenere soltanto scavando a fondo nella propria memoria.
Raimondo ci fa ridere, amaramente, obbligandoci a guardare la realtà, e cioè a quanto cose vicine nel tempo ci appaiano lontanissime dalla nostra attuale percezione del mondo, della vita, del futuro. “Vi ricordate quella cosa là, la … la … il lavoro! Tu lavoravi, e loro ti davano i soldi”. Si ride ma ci si chiede: davvero è successo tutto così in fretta? E come è potuto accadere?
Il meccanismo comico praticato da Raimondo mi ha riportato alla memoria una geniale battuta di Franca Valeri. Il personaggio, la sora Cecioni, telefonava a un’amica per chiederle di portare “la pupa” ai giardinetti vicino casa, apprendendo che i giardinetti non esistevano più perché lì avevano costruito un palazzo. La sora Cecioni non se n’era accorta perché la finestra della camera che dava sui giardini aveva da un mese la tapparella guasta.
Ecco, in una battuta è condensato un momento storico, il boom economico degli anni Sessanta che, insieme a molto altro, fu anche una tumultuosa aggressione al territorio, con le città che crescevano a vista d’occhio in maniera scomposta e, spesso, abusiva. Su quel periodo sono state scritte decine di saggi, spesi milioni di parole. Franca Valeri lo racconta in due frasi.
Non manco di approfittare delle possibilità di condivisione offerte dalla moderna tecnologia e propongo due video coi monologhi di cui scrivo in questo articolo (la battuta che cito della Valeri è al minuto 2.25).†††††††††††††††

[N.d.W. Il video di Franca Valeri che cito nell’articolo non è purtroppo più disponibile su YouTube. Un vero peccato.]

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Felicità e tristezza nella terra degli Iperborei

[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il giorno 02/12/2012 nel sito antoniomessina.it]
Ho letto, subendone lo strano fascino, il romanzo dell’islandese Jón Kalman Stefánsson La tristezza degli angeli (2012, Iperborea, pp. 384) che così si è affiancato ad altre opere di autori dell’area nord-europea andati a far parte delle mie letture. I titoli, come suol dirsi, sono pochi ma buoni. I tre che ricordo con maggiore soddisfazione sono del finlandese Arto Paasilinna (L’anno della lepre) e degli svedesi Björn Larsson (La vera storia del pirata Long John Silver) e Per Olov Enquist (Il medico di corte). In Italia questi autori sono accomunati dall’editore, la milanese Iperborea che in questo 2012, ha concluso i primi venticinque anni di attività.
Il primo loro libro che acquistai fu L’anno della lepre, e soltanto perché la copertina fu abbastanza bella da farmi superare la diffidenza verso un formato (i libri Iperborea misurano 10 x 20 cm) che mi pareva, e si confermò, abbastanza scomodo. Paasilinna si rivelò una gradevole scoperta e anche gli altri titoli di Iperborea, per così dire, non tradirono la mia fiducia (con la sola parziale eccezione, per i miei gusti, dell’olandese Kader Abdolah col suo Il viaggio delle bottiglie vuote).
Oggi che siamo in tempi duri per gli editori, coi libri che non si vendono, le librerie indipendenti che chiudono e quelle di catena che sembrano entrate in una spirale inarrestabile di perdita di senso, il libro appena letto di Stefánsson, e il ricordo degli altri che ho citato, conducono alla malinconica considerazione che sono e saranno tempi duri anche per noi lettori. Senza Iperborea, cioè senza editori che svolgano bene il loro mestiere, non avrei letto libri che meritavano di essere letti.
Consulto Wikipedia e rinfresco che Iperborea è una terra leggendaria della quale si riferiva l’esistenza in una zona lontanissima a nord della Grecia. Una terra perfetta dove il sole splendeva sei mesi all’anno ed il clima era sempre primaverile. Raccontata come sede di mille meraviglie, il termine iperboreo diventò per i greci sinonimo di “felice” e, soprattutto, dell’idea che ovunque, anche in luoghi ignoti, possiamo immaginare che ci siano felicità e bellezza.
La speranza è che, in qualche modo che ancora non so dire, la prossima fine dell’editore che produce manufatti cartacei (o anche elettronici) coincida con l’inizio dell’editore-operatore culturale che si dedichi alla parte più impegnativa e qualificante del suo lavoro, cioè quell’attività di ricerca, filtro e proposta che già adesso, almeno a mio parere, di quel lavoro può e deve essere il vero cuore.

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Meglio Messi o Maradona? Che domande, Maradona!

[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il giorno 24/11/2012 nel sito antoniomessina.it]
Inauguro la sezione “dibattiti oziosi” di questo blog con uno dei dilemmi oggi più in voga fra i perditempo da bar dello sport: meglio Messi o Maradona?
La prima considerazione del perditempo assennato è: non si possono paragonare giocatori di epoche diverse. Tuttavia non voglio sottrarmi alla risposta, tanto necessaria per evitare notti in bianco e distrazioni sul lavoro a causa del tormento, perciò dirò la mia.
Per me, Maradona rimane unico per almeno due motivi. Il primo è più importante è proprio legato al fatto che ha giocato in tempi diversi rispetto a quelli attuali. Tempi diversi non soltanto per le tattiche di gioco o i metodi d’allenamento ma, e si tratta di un elemento decisivo, per le regole del gioco. Negli anni Ottanta sui cui regnò Maradona non esistevano né l’espulsione del giocatore che sottrae fallosamente alla squadra avversaria l’evidente opportunità di segnare una rete (regola introdotta nel 1990) né l’espulsione per grave fallo di gioco (introdotta nel 1998). Queste due regole sono giuste (tutelano l’incolumità dei calciatori, oltre che la lealtà della competizione) ma disegnano un calcio diverso. Messi è rapido di movimenti, veloce, tecnico, spettacolare quando brucia gli avversari sullo scatto o supera in slalom difensori in serie ma non ha, come aveva Maradona, il pensiero di segnare sempre affiancato da quello di salvarsi le gambe. La carriera di Maradona è illuminata dal celebre gol all’Inghilterra ma anche segnata dal fallo subito nel 1983, frattura del malleolo e perdita del trenta per cento della mobilità della caviglia. I falli vengono commessi anche oggi ma l’atteggiamento dei difensori è indubitabilmente cambiato e chi attacca ha molte più possibilità di arrivare incolume al tiro. Forse Messi saprebbe comunque replicare le sue gesta anche con le regole di prima del 1990 ma, in assenza di controprova, mi sembra corretto notare che Maradona ha giocato in condizioni più rischiose.
Non è colpa di Messi neppure il fatto di giocare assieme ad altri fenomeni (Iniesta è il mio preferito) appena una spanna al di sotto di lui. Con tutto il rispetto, Maradona (insieme ad altri campioni come Careca) ha fatto vincere un Napoli imparagonabile (per difetto!) al Barcellona di Messi, o un’Argentina di cui vorrei sapere se fra gli appassionati di calcio (anche un po’ in età come me) c’è qualcuno che, fra i seguenti, ricorda almeno altri due nomi oltre quello di Maradona: Pumpido, Brown, Cuciuffo, Ruggeri, Batista, Giusti, Burruchaga, Enrique, Olarticoechea, Valdano.
Detto tutto questo, ammetto che ognuno è influenzato dai propri ricordi. Ora il calcio lo seguo molto meno, mentre negli occhi rimarrà per sempre una magia di Maradona realizzata nel 1987 a velocità doppia contro il grande Milan di quegli anni. Il video s’impone. Godetevi lo spettacolo.

Una magia. La rivedi cento volte e cento volte ti chiedi come ha fatto.
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Non ci resta che piangere

[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il giorno 08/01/2013 nel sito antoniomessina.it]†

Non ci resta che piangere è il film (del 1984 scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi) con la famosa e spassosissima scena della dogana. Nell’arco di pochi minuti, per necessità o per caso, i due protagonisti si trovano a dover fare più volte avanti e indietro proprio in corrispondenza del posto doganale e l’esattore, che ripete come un pappagallo sempre le stesse domande senza curarsi di chi ha davanti, ogni volta li ferma e chiede il versamento della tassa di passaggio. L’ambientazione del film è medievale, quando realmente innumerevoli confini racchiudevano come bachi nel bozzolo stati, feudi e staterelli che affollavano la penisola italiana. Oggi, invece, siamo ai tempi del Web, della rete informatica mondiale, del mondo globalizzato. Un clic su Twitter ed un istante dopo tutto il pianeta Terra, se non ha altro da fare, apprende che hai appena fatto la pipì.
Ma le barriere, uscite dalla porta, stanno rientrando dalla finestra e in un modo anche più invasivo di prima. È vero che non è più necessario recarsi di qua e di là per avere un’informazione o per pagare una bolletta. È altrettanto vero, però, che per avere la stessa informazione, o pagare la medesima bolletta, si deve accedere alla rete Internet e digitare “nome utente” e password.
Nei giorni scorsi ho riordinato l’elenco dei nomi utente e password che devo utilizzare a casa e sul lavoro. Ho una vita abbastanza ordinaria: il lavoro, qualche obbligo sociale, qualche interesse personale. A volte mi sono avventurato negli acquisti online. Ebbene, alla fine della mia ricognizione ho constatato che per pagare le bollette, accedere al conto in banca, controllare la carta di credito, acquistare i biglietti ferroviari, gestire questo sito Internet, controllare la posta elettronica e qualcos’altro, più accedere alle diverse applicazioni che devo utilizzare per lavoro, alla data del 7 gennaio 2013 contavo la bellezza di 81 nomi utenti e relative password. Ciò significa che se per caso dovessi utilizzare tutte le applicazioni e i siti nei quali sono registrato, nella giornata dovrei inserire 162 “stringhe” di caratteri.
Le stringhe, va da sé, non sono quasi mai identiche. Chi chiede che la password sia di almeno sei caratteri, chi di almeno otto, chi vuole che ci siano lettere e cifre, chi ammette i caratteri speciali e chi no. Questa torta ha pure due ciliegine: la prima sono i siti che ti obbligano a cambiare la password ogni tot di tempo; la seconda sono le applicazioni che ti scollegano se non invii alcun comando in un lasso di tempo stabilito. Non si finisce mai.
Insomma, la vita 2.0 è avvolta da mille doganieri che a ogni passo ci chiedono un fiorino. Rispetto al Medioevo c’è il vantaggio che i doganieri sono tutti radunati nello schermo del nostro computer, a pochi centimetri da noi. Nonostante questo, guardando la mia lista di nomi utente e password, anche a me è venuto da dire: non ci resta che piangere.

Un fiorino!
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Il ciclismo

La mia “storica” bicicletta marca Legnano. Purtroppo mi fu rubata.

Il ciclismo è uno sport di fatica.
Il ciclismo, fra gli sport di fatica, è di quelli che invoglia ai toni epici. Fughe solitarie, salite impossibili, scatti fulminei, la disciplina ascetica degli specialisti nelle gare a cronometro… E questa varietà tutta all’aperto, col sole che picchia, sferzati dal vento, sotto scrosci d’acqua gelida…
La fatica del ciclismo è solitaria anche quando si è in gruppo e ci si aiuta, perché a spingere sui pedali ci sono solo due gambe, sempre le stesse, sempre le tue. Perciò anche l’ultimo arrivato riscuote il suo applauso. Anche lui ha lottato ed è arrivato in fondo.
Il ciclismo è fatto di gare che si svolgono lungo un percorso, anzi due: uno che si vede e l’altro che no. Anche il percorso che non si vede si snoda fra partenza e arrivo, ma è interiore, profondo, nascosto agli altri quasi per intero dalla monotonia del gesto atletico. Soltanto certi volti stravolti, a volte, denunciano la volontà ferrea di arrivare o, chi può dirlo?, un tale stordimento da fatica che non si aveva neppure la forza di smettere di pedalare.
Il ciclismo è fatto di milioni di pedalate. Nella monotonia di quel gesto, io credo, risiede la ragione di un ciclismo sport di leggende scritte e orali, ma poco adatto al cinema. Per quest’ultimo, meglio, assai meglio i dualismi esasperati del pugilato o di frazioni precise di certi sport di squadra, si tratti del touch down del football americano, del fuori campo nel baseball o del tiro da fermo nel gioco del calcio. Il cinema è duello evidente, non immersione silenziosa nelle proprie fibre fisiche e mentali, alla ricerca di quell’ultima stilla di energia che ti farà arrivare.
Il ciclismo è uno sport al quale mi sono appassionato fin da piccolo. Per le origini di questo mio interesse sospetto fortemente di mio padre, classe 1914, qualche trascorso da corridore amatoriale e, da giovane, la bici per incombenze che oggi strabiliano, come andare da Vizzini a Catania (130 km andata e ritorno, con le strade come potevano essere a metà anni Trenta) per comprare un po’ di chiodi che occorrevano al fratello sellaio. Tanti chilometri percorsi in gioventù garantirono a mio padre anche il diritto di trasmettermi, oltre alla passione, il suo punto di vista sulla faccenda nel suo insieme. Così, per molti anni, il ciclismo affascinante per me fu solo quello delle grandi imprese. L’ammirazione incondizionata era riservata ai cosiddetti scalatori e alle spietate tappe di montagna, meglio se in condizioni climatiche proibitive. Gli specialisti delle cronometro erano sopportati, mentre si arrivava a nutrire una vera ostilità per i velocisti, parassiti della fatica altrui che si facevano belli pedalando fortissimo gli ultimi duecento metri. Poi almeno io ho cambiato idea, tanto da ammettere nell’Olimpo dei miei ricordi sportivi anche qualche volata e un paio di gare a cronometro. Ne racconterò, prima o poi.

[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il 22/11/2012 nel sito antoniomessina.it]

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Diverso differente

Copertina romanzo Il profumo

A rendere unico Jean-Baptiste Grenouille nel panorama letterario è la sua irrimediabile e assoluta solitudine. Il personaggio principale del romanzo Il profumo non ha odore. Questa sua caratteristica lo rende un diverso ma, a me sembra, differente da altre celebri figure di esiliati, emarginati, incompresi. L’assenza di odore, infatti, non cancella Grenouille alla vista ma lo rende invisibile alla coscienza degli altri. Le persone che incontra lo vedono con gli occhi, approfittano della sua abilità, sfruttano la sua forza fisica o usano la sua esperienza da eremita, ma non lo percepiscono davvero, non ne avvertono la presenza, lo dimenticano subito. Non ha odore, dunque non c’è.
Un frettoloso ripasso a memoria mi fa pensare che gli innumerevoli diversi presenti nella letteratura, invece, siano accomunati dal fatto che gli altri si relazionano con la loro diversità. Si tratti di deriderli, di evitarli, di amarli follemente oppure di opprimerli, fra il diverso e gli altri esiste un’interazione. Il percorso di Grenouille, così, risulta anomalo e originale perché assolutamente separato dal mondo in cui vive. Grenouille non è il brutto anatroccolo, prima deriso e poi ammirato. Non è la Sirenetta, interiormente combattuta e contesa da due mondi. Non è Gregor Samsa, tollerato da quella sua famiglia che, però, si volge dall’altra parte per non vedere l’insetto nel quale Gregor si è trasformato. Non è Don Chisciotte, attorno al quale gravitano inconsapevolmente tutti coloro che lo deridono o lo tutelano suo malgrado.
L’elenco potrebbe continuare: Quasimodo, Rigoletto, la Bestia … Aggiungo soltanto che Grenouille non è neppure Achab. L’ossessione (uccidere la balena bianca, creare il profumo che permetta di dominare il cuore degli uomini) è un lato che condividono, ma è il solo. Achab è in lotta con Moby Dick ma anche col suo equipaggio, che sottomette completamente ed al quale non riconosce altro ruolo che quello di servire il delirio del suo capitano. Grenouille, invece, è sempre, irrimediabilmente, solo. Gli altri lo percepiscono nella misura in cui egli decide che ciò avvenga, per gioco, esperimento o per un tornaconto preciso. L’impossibilità di comunicare coi suoi simili alla fine sconfigge Grenouille che, consapevolmente, decide di concludere la sua esperienza di quel mondo che non lo conosce.

[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il 20/11/2012 nel sito antoniomessina.it]


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Il fascino della complessità, il ritmo delle proporzioni

Rhein II – Fotografia di Andreas Gursky.

La creatività umana assume le forme più diverse, ciascuna affascinante a modo suo ma che può avere punti di contatto con le altre. Per raccontare la bellezza dello stile usato da Süskind nel Profumo, così, è possibile cominciare da una foto. Quella che vedete riprodotta è Rhein II, del fotografo tedesco Andreas Gursky. È diventata famosa perché l’originale fu venduto all’asta (nel 2011) per oltre quattro milioni di dollari. Ma dimentichiamo la cifra e concentriamoci sull’immagine.
Sebbene sia difficile valutare una gigantografia (l’originale di Andreas Gursky occupa oltre sei metri quadrati) dalle modeste riproduzioni disponibili nel web, appare evidente che una delle chiavi del fascino di questa foto sta nell’equilibrio delle parti. Le due rive del Reno, il fiume che scorre quietamente, una pista di asfalto e il cielo nuvoloso formano sei fasce di altezza differente. Le linee orizzontali sono nette. Eppure, tanto equilibrio appare esatto e indefinibile allo stesso tempo. Una perfezione sfuggente nella quale si fondono geometria e mistero.
Rhein II e Il profumo condividono soprattutto questo: uno stile severo ed essenziale che suggerisce e lascia intuire il fascino della complessità facendo ricorso al ritmo preciso dei numeri, delle regole, delle proporzioni.
Non azzardo teorie generali ma, nella mia mente, questa via per esprimere la grandezza di un mistero che possiamo soltanto sfiorare si associa a geniali figure del nord Europa e tedesche in particolare. Bach e Beethoven, con la loro musica a toccare corde profonde dell’animo attraverso architetture musicali rigorose e complesse, ma anche Linneo (svedese) e Julius Meyer (tedesco), impegnati nella comprensione della natura attraverso la classificazione delle forme viventi e degli elementi fisici.
Il profumo è segnato da uno stile asciutto, necessario. Qualche volta sembra di leggere un documento scientifico. Nel corso del romanzo i pensieri del protagonista Grenouille, anche i più tormentati, sono sempre esposti senza indecisioni, quasi che ci sia solo da dire un contenuto definito e inevitabile. Eppure, è proprio attraverso questo stile che Süskind riesce a raccontarci una figura complessa, malvagia e dolente, potente ed esclusa, che suscita orrore e pietà in misura uguale, che si è fermata per sempre nell’immaginario di milioni di lettori. Anche per questo, nel prossimo articolo spiegherò chi è per me Jean-Baptiste Grenouille.

[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il 23/10/2012 nel sito antoniomessina.it]

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Il profumo di un genio

Copertina romanzo Il profumo

Nel 1985 fu pubblicato in Germania il romanzo Das profum – Die Geschichte eines Mörders, scritto da Patrick Süskind. Il libro apparve subito anche in Italia, dove uscì col solo titolo principale, Il profumo, senza quello secondario La storia di un assassino. Io lo lessi nel 1992, in edizione tascabile, su consiglio di mia sorella. Quella riprodotta è la copertina della mia copia. Fin dalle prime righe rimasi talmente scosso e ammirato da decidere che non avrei avvicinato altri libri dello stesso autore. Nessun essere umano, pensavo, può raggiungere due volte tanta grandezza e qualsiasi altra opera di Süskind, perciò, mi avrebbe deluso. Addirittura mi accadeva (e mi accade!) di immaginare lo scrittore tedesco come un povero idiota, divenuto tale per lo sforzo mentale eccessivo richiesto dalla perfezione non umana del libro. Un po’ come capita, per chi se lo ricorda, al David Helfgott del film Shine, mentalmente esaurito dallo studio del pianoforte e dell’esigente Concerto per pianoforte e orchestra numero 3 di Rachmaninov. Fatto sta che quando la Biblioteca San Giovanni di Pesaro organizzò una maratona di lettura invitando a leggere un brano dal proprio “libro del cuore”, la mia scelta fu immediata e senza tentennamenti: lo straordinario incipit del romanzo con il quale Patrick Süskind racconta la storia di Jean-Baptiste Grenouille, uomo senza odore.

P.S.
Passato qualche anno non mantenni la promessa e, fra molte titubanze, comprai Il piccione, altro romanzo scritto (nel 1987) da Süskind. Come avevo temuto, l’odore del volatile non resse il confronto.

[In forma leggermente diversa, questo articolo apparve per la prima volta il 29/09/2012 nel sito antoniomessina.it]

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