La fine della stampa e l’inizio dell’informazione

Prima pagina del quotidiano socialista Avanti! del 10 giugno 1930
Valter Lavitola, editore del quotidiano L’Avanti!, condannato risarcimento di 23,8 milioni di euro al Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 14/03/2013 nel sito antoniomessina.it]
Da giovane mi accadeva di partecipare ad eventi, fossero concerti o manifestazioni di piazza, di cui poi leggevo sulla stampa. Ogni volta avevo l’impressione di essere stato in un luogo e un’occasione diversi da quelli descritti nell’articolo.
Negli anni ho poi assistito al ribaltarsi dell’opinione sull’attendibilità della stampa quotidiana. Quand’ero piccolo “c’è scritto sul giornale” aveva come appendice non detta “perciò è vero”. Oggi, per dirne una, mia moglie mi racconta che un diffuso quotidiano delle Marche da tempo è meglio noto come “il bugiardò”.
Negli ultimi trent’anni ho anche assistito alla morte dei giornali di partito (l’Avanti!, del Partito Socialista, chiuse nel 1993; Il popolo, della Democrazia Cristiana, nel 2003; l’Unità, del Partito Comunista, cessò di uscire su carta nel 2000) e alla nascita dei giornali-partito, su tutti la Repubblica con la sua perenne produzione di appelli, mozioni e lettere aperte.
In questi giorni, pieni di fermento per la mancanza di una chiara maggioranza parlamentare, l’informazione sta dando una prova che giudico pessima. Come mi accadeva trent’anni fa, leggere un articolo che parla di qualcuno e, poi, leggere o ascoltare quel qualcuno (con Internet la verifica è assai semplice) mi lascia l’impressione che fatti e resoconti non siano in relazione fra loro.
A volte, la mediocrità dei cronisti genera situazioni di una comicità ai confini del surreale. Ad una conferenza stampa del Partito Democratico dopo un incontro con una delegazione del Movimento 5 Stelle, i giornalisti hanno rivolto al rappresentante del PD soltanto domande su che cosa gli avessero detto gli esponenti del Movimento 5 Stelle e nessuna su che cosa avesse da dire lui.
La sensazione più frequente, però è di fastidio. Trovo insopportabili, per dire, le richieste di commento su frasi riferite dal giornalista e sconosciute all’intervistato. Siccome le frasi possono essere riferite male e, comunque, sono private del contesto, del tono e delle intenzioni con cui sono state espresse, ecco che la reazione più normale, nonché comprensibile, è quella del rifiuto di commentarle. Il giornalista scimmiotta un incalzante cronista d’assalto, io lo trovo soltanto petulante. Di sicuro, alla fine del servizio regolarmente mostrato dai canali televisivi, non ne so mai più di quanto ne sapessi all’inizio, lasciandomi nella convinzione che abolire i finanziamenti pubblici all’editoria, coi giornalisti e giornali che abbiamo, per noi fruitori dell’informazione non sarebbe un danno.

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I pulcini di Dorothy e le uova di Alessandro

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 07/03/2013 nel sito antoniomessina.it]
Se mai ne fossi stato capace, La famiglia Winshaw, romanzo dell’inglese Jonathan Coe, è il libro che avrei voluto avere scritto io. Fra i molti motivi di quest’ammirazione, la capacità di usare informazioni tecniche per descrivere, senza mai perdere qualità letteraria, personaggi, ambienti, un’intera classe sociale.
Coe, purtroppo per lui e per noi, non ha più ripetuto il miracolo, perdendosi in intrecci elaborati e perfetti ma privi della riuscita miscela di passione civile e grande umanità che troviamo in La famiglia Winshaw. Io, invece, mentre sogno di scrivere un grande romanzo ho iniziato a acquistare, tramite il gruppo d’acquisto solidale a cui aderisco, le uova dall’allevatore Alessandro Cascini. Metodi biologici, rispetto per gli animali e, come per fortuna avviene spesso quando si partecipa a un gruppo d’acquisto, la disponibilità a raccontarsi, spiegando motivazioni personali e metodi di lavoro, e a dare informazioni o consigli ai clienti.
Così ho scoperto che dentro al guscio, oltre all’uovo, c’è un mondo. Il mondo delle uova di Alessandro, però, è assai diverso da quello dei polli allevati da Dorothy Winshaw. In uno dei passi più efficaci del romanzo di Coe sono descritte le innovazioni produttive che Dorothy, in qualità di presidente del Brunwin Group, introduce nell’allevamento dei polli per incrementare la produzione e risolvere alcuni problemi gestionali. Uno di questi, l’eliminazione degli inutili pulcini maschi, risultati insoddisfacenti la macinazione e il cloroformio, viene brillantemente risolto semplicemente stipando i pulcini in enormi sacchi provvidamente richiusi. Il peso e l’asfissia fanno il resto, senza i costi aggiuntivi per macchine e gas.
Coe ha ripreso quel passaggio da informazioni reali. Anche in Italia al giorno d’oggi, del resto, le cose non sono poi troppo diverse, come si può vedere in questo filmato.
E scritto ciò, vado a farmi una frittata con le uova di Alessandro.

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Scaffali, arrampicata e Partito Democratico

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 06/03/2013 nel sito antoniomessina.it]
Ci sono cose che so di non saper fare ancora prima di provare a farle, tanto che, appunto, neppure ci provo. Per esempio, a causa di un problema alla schiena non potrò mai correre la maratona. Lo sognavo da ragazzo. Non posso. Pazienza.
Ce ne sono altre che non sapevo di saper fare finché non ho provato. Nella foto, per esempio, il mio ultimo lavoretto di falegnameria.
E per finire, ci sono quelle che ho scoperto di non saper fare dopo aver provato a farle. In gioventù tentai l’arrampicata libera smettendo prima di cominciare. Nel senso letterale, cioè non riuscii neppure a superare il primo semplice passaggio.
Questa carrellata di ovvietà mi è venuta alla mente dopo aver seguito la relazione di Pierluigi Bersani alla riunione di oggi della direzione del Partito Democratico. Bersani ha detto varie cose: che pubblicheranno i progetti di legge in rete; che non sono possibili accordi con la destra berlusconiana; ha letto il programma del PD. Come accade, qualcosa può essere condiviso ed altro no.
Il collegamento fra le mie esperienze di vita e la relazione di Bersani nasce da una considerazione. Io, quando scopro di non saper fare una cosa, non la ripeto e, soprattutto, non chiedo ad altri di darmi fiducia, per esempio finanziando una mia spedizione verso la cima del Monte Bianco. La cosiddetta “classe politica”, al contrario, ripropone se stessa a prescindere dai risultati, tale e quale quei manager che si attribuiscono premi e buonuscite anche se l’azienda è tracollata.
Come ho già ricordato in un altro articolo, il debito pubblico italiano a novembre 2012 ha toccato il massimo storico di 2.020,668 miliardi di euro. Colpa di chi ha governato la nostra Repubblica, evidentemente, e di chi non ha saputo (né voluto, come reso evidente dalla celebre dichiarazione di Luciano Violante del 28 febbraio 2002, disponibile qui in video e qui, a pagina 75, nel resoconto stenografico ufficiale) fare opposizione.
Qualsiasi proposta non è credibile se non lo è anche chi la avanza. Così, a mio parere, onestà vorrebbe che anche Bersani si dedicasse agli scaffali e lasciasse perdere l’arrampicata. Ma non accadrà. Il motivo? L’ha spiegato lui stesso nella relazione. Ha detto a un certo punto: “Il Movimento 5 Stelle si aspetta un’autodistruzione del sistema politico?”
Autodistruzione? Ma certo che no.

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Io, Spencer, Ernest, Alex e Celeste

Spencer Tracy (1900 – 1967) in una scena del film Il vecchio e il mare (1958, regia di John Sturges)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 04/03/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra le immagini cinematografiche che mi accompagnano dall’adolescenza c’è quella di Spencer Tracy che, nei panni del pescatore Santiago, disputa l’estenuante sfida a braccio di ferro nel film (del 1958) tratto dal capolavoro di Ernest Hemingway Il vecchio e il mare. Per quanto fossi rimasto colpito dalla storia, lessi il romanzo solo molti anni dopo. Il libro stette a lungo nella piccola sezione della mia libreria dove conservo i capolavori, prima di finire triturato dalla cronica mancanza di spazio delle case in cui ho abitato.
Ma, evidentemente, la tenacia di Santiago si dispiega oltre le sfide vittoriose col negro di Cienfuegos e le grandiose sconfitte nella lotta coi pescecani. Dopo decenni, così, accade che io parli a mia figlia di come Hemingway abbia saputo rendere vivo il personaggio e la storia usando soltanto le parole necessarie; ne bastano poche e sei già intriso di salsedine, bruciato dal sole e con lo sguardo vigile ai movimenti della lenza. Pochi mesi fa mia figlia torna da un incontro che la sua scuola ha organizzato con alcuni autori russi di cinema d’animazione. Fra questi autori c’è Alexander Petrov, vincitore nel 2000 del premio Oscar per il miglior cortometraggio d’animazione con la sua poetica (e tecnicamente strabiliante) versione de Il vecchio e il mare.
E si arriva a gennaio di quest’anno. Per il mio compleanno, sempre mia figlia mi regala due libri e uno di questo è Il vecchio e il mare, che così rileggo ancora una volta, rimanendone catturato come sempre.
È proprio delle grandi narrazioni attraversare tanta vita anche con una storia che per protagonista, in fondo, ha quella morte che nessuna tenacia, per quanto grandiosa, può sconfiggere. Rimane il senso che l’esistenza riceve dall’impegno coerente, mantenuto anche quando si è consapevoli che vale soltanto come testimonianza. In questo senso, la mirabile creazione di Petrov è a sua volta suggestiva, realizzata com’è mediante una tecnica che non conserva i disegni necessari per i vari fotogrammi. Persa la materia della vita, rimane il ricordo. E questo è tutto.

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Banca Etica, gli opportunisti e il Movimento 5 Stelle

Un’immagine del comico e attivista Beppe Grillo

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 01/03/2013 nel sito antoniomessina.it]
In questi ultimi giorni si sono verificati due fatti diversi e distanti ma che è possibile collegare: il grande successo elettorale del Movimento 5 Stelle, da un lato, l’inchiesta giudiziaria sulla compravendita del senatore Sergio De Gregorio ad opera di Silvio Berlusconi, dall’altro.
Quanto a De Gregorio, egli fa parte della discreta serie di singolari personaggi saliti sul carro dell’Italia dei Valori, il movimento politico formatosi attorno a Antonio Di Pietro, per valorizzare soprattutto se stessi.
Quanto al successo del Movimento 5 Stelle, è facile prevedere che fra le sue conseguenze ci sarà un infoltimento repentino delle sue fila. Molti saranno in buona fede, altri no, mentre fra le accuse più ricorrenti rivolte a Beppe Grillo c’è quella di controllare in modo quasi poliziesco requisiti e dirittura morale (secondo i parametri di Grillo stesso, ovviamente) dei portavoce del Movimento. Eppure, vivendo in Italia, non dovrebbe apparire tanto sconclusionata una determinazione feroce nel provare a evitare l’ingresso last minute di persone che vedono nel movimento non un’occasione d’impegno ma un’opportunità di visibilità personale.
La ricerca di una effettiva democrazia interna a un’organizzazione, del resto, pone diverse questioni. Una di queste è richiamata in quello che considero un bel passaggio del Codice Etico di Banca Popolare Etica. Lo riporto per intero.

Non opportunismo dei soci attivi

I soci che partecipano in maniera più attiva alla vita della Banca hanno maggiori opportunità di esercitare un’influenza nei principali eventi che caratterizzano la vita societaria, con il rischio di agire in base a un orientamento personale che non tenga conto sufficientemente delle posizioni dei soci meno attivi, limitandone così l’esercizio della partecipazione.
Al fine di ridurre tale rischio, BancaEtica:
1. si impegna a tenere tutti i soci, anche quelli meno attivi, costantemente aggiornati e informati sulle questioni rilevanti inerenti alla vita societaria;
2. adotta modalità partecipative diversificate in occasione dei momenti più importanti della vita societaria, al fine di favorire il maggior coinvolgimento possibile nei processi decisionali.

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Dichiarazione di vuoto (da riempire)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 21/02/2013 nel sito antoniomessina.it]
Dunque ci siamo anche stavolta. Fra due giorni, il 24 e 25 febbraio, si voterà per rinnovare la composizione del Parlamento italiano. Davanti a noi cittadini, così, ecco la consueta serie di opzioni: non votare, astenersi oppure votare e, se lo si fa, per chi. Fra i milioni di parole spese per motivare l’una o l’altra scelta, ho letto con attenzione quelle affidate ai rispettivi blog da due persone che seguo quando posso, ma con una certa continuità. Mi riferisco a Barbara Collevecchio e Simone Perotti.
Sperando che mi perdonino la sintesi drastica delle loro argomentazioni (che, comunque, potete conoscere per intero qui e qui) provo a riassumerle.
Barbara Collevecchio non si riconosce (e rifiuta) nella politica dei partiti, delle istituzioni, dei leader-imbonitori vecchi e nuovi, tutti distanti dalla vita delle persone e, in definitiva, dall’idea stessa di democrazia partecipata. Perciò non voterà, senza che per questo possa accettare di sentirsi dire che la sua scelta è assenza o disimpegno. Al contrario, Barbara Collevecchio sceglie la cosiddetta politica dal basso, quella fatta di azioni dirette e concrete, attuate nel proprio contesto familiare, sociale e professionale, in vista della necessaria rivoluzione culturale che ci renda indipendenti e non più gregari di imbonitori.
Simone Perotti, anche lui, non voterà. Non vuole essere neppure lontanamente corresponsabile di una politica e di scelte che vanno nella direzione opposta a quella che vorrebbe. Neppure vuole unirsi “alla moltitudine che avalla con una croce” l’idea di una finanza egemone e di una economia sconsiderata. Ad aggravare le cose, aggiunge Perotti, è il nostro sistema elettorale, i cui meccanismi interni, ulteriore paradosso, sono già il primo momento di esautorazione della volontà popolare. E allora, se minoranza deve essere, insomma, che lo sia fino alle estreme conseguenze, in una sorta di replica in grande formato dell’Aventino parlamentare del 1924. E poi che fare, dunque? Agire, vivere diversamente, testimoniare le nostre scelte attraverso il traffico dove non saremo, i rifiuti che tenteremo di limitare e differenziare, le relazioni autentiche che tenteremo di costruire. Saranno queste, conclude Perotti, le nostre elezioni quotidiane, nelle quali l’azione di ogni giorno si sostituirà alla matita adoperata una tantum.
Ho letto con interesse e molto ho condiviso, più di tutto il richiamo alla coerenza quotidiana delle nostre azioni, all’importanza di esprimerci concretamente in quello che rientra nel nostro raggio di azione. Però, almeno a mio parere, tutto ciò non basta. Viviamo in una società assai complessa. Per andare a Roma a trovare i miei anziani genitori ho bisogno di strade, ponti, linee ferroviarie. Mia figlia ha bisogno di un sistema di istruzione pubblica che funzioni. Un mio amico disabile ha bisogno di una rete di provvidenze sociali e servizi sanitari che va oltre le possibilità di qualsiasi singola persona. In molti desideriamo una struttura sociale diversa da quella attuale: più democratica, più giusta, più partecipata, più al servizio dei cittadini. Questa struttura diversa, però, non è quella attuale nella quale tutti viviamo. Un solo imbecille che preme un pulsante alla Camera o al Senato può devastare il terreno pazientemente concimato da migliaia di azioni quotidiane, comprare un inutile cacciabombardiere e far chiudere dieci ospedali, alzare l’IVA di un punto e regalare ai farabutti l’impunità per i capitali esportati illegalmente all’estero.
Anche soltanto dal punto di vista tattico, perciò, provare a limitare il numero degli arrivisti di lungo corso e dei disonesti consumati potrebbe avere un senso. Almeno, è con questo spirito che io voterò. Sperando che Barbara Collevecchio mi perdoni e che Simone Perotti non mi consideri correo della finanza egemone, della politica prona, della crescita a oltranza e dei sacrifici imposti dalla catena del lavoro-produco-consumo-spreco-inquino. Quanto a me, continuerò a seguirli con attenzione perché di due cose almeno sono certo: che occorre sempre ridiscutere le proprie convinzioni e che, per farlo, c’è bisogno di tutte le persone oneste e libere di mente.

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Tre biblioteche per una tesi

Ingresso della Facoltà di Scienze Politiche a Firenze in VIa Laura

[Articolo pubblicato, con differenze minime, per la prima volta il giorno 15/02/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra il 1988 e il 1991 (ebbene sì, per completarla ho impiegato tre anni) la preparazione della mia tesi di laurea mi condusse in tre biblioteche. Erano anni ancora senza Internet, i computer stupivano, i mouse erano visti come una diavoleria non del tutto utile, le webcam erano ipotesi dei film di fantascienza. Quanto alle applicazioni, se adesso alzo lo sguardo alla barra degli strumenti di Open Office conto 40 icone che mi permettono di impostare quasi tutto con un clic. Vent’anni fa, per la tesi, stampai un intero capitolo sottolineato perché avevo dimenticato di digitare il comando Ctrl+S dopo una parola che si trovava in apertura del testo.
Erano anni ancora senza Internet ed io, senza sapere a che cosa sarei andato incontro, mi trovai ad affrontare lo studio della cosiddetta “autoquestione di incostituzionalità”, un istituto giuridico previsto dalla legge che, nel 1979, aveva istituito il Tribunale Costituzionale della nuova Spagna democratica.
La metafora del viaggio vale anche per la redazione di una tesi di laurea. Nel mio caso, però, il viaggio fu reale. Anzi, i viaggi. Il materiale che mi era necessario, infatti, l’avrei trovato in tre biblioteche diverse, nessuna delle quali nella città di Pistoia, dove vivevo, e tutte destinate a lasciare una traccia indelebile nella mia memoria.
Ma un blog ben fatto, ho sempre pensato, non deve avere articoli troppo lunghi. Perciò chiudo anticipando soltanto di quali biblioteche si trattava: la biblioteca del Real Colegio de España a Bologna, quella del Centro de Estudios Constitucionales a Madrid e quella dell’Istituto Universitario Europeo, a Fiesole, vicino Firenze.

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Le due sorelle di Tommaso Landolfi

Francobollo commemorativo di Tommaso Landolfi (1908 – 1979)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/02/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra le poche certezze che ci accompagnano nel corso della vita c’è la bella figura che si fa quando in una conversazione, anche dalle più modeste ambizioni culturali, si lascia cadere con noncuranza l’apprezzamento per una qualche opera di Tommaso Landolfi (1908-1979). Figura appartata, vagamente misteriosa, tanto desideroso di essere pubblicato da cambiare editore se il suo tardava a far uscire un libro e però, in vita, assente per scelta dai cosiddetti “salotti letterari”; oppresso dal vizio del gioco ma, infine e soprattutto, autore dallo stile curatissimo e, a volte, deliberatamente incomprensibile, Landolfi è uno di quegli autori che dispensano un’aura da raffinato intenditore di letteratura a coloro che, appunto, lo citano. Non mancherò di avvalermi di un simile beneficio e perciò informo i miei lettori d’aver letto recentemente il racconto Le due zittelle, un testo che lo stesso Landolfi, stando alla nota finale dell’edizione Adelphi da me letta, considerava forse il suo migliore.
La storia è presto detta. Due anziane e devote sorelle, Lilla e Nena, sono al centro della singolare comunità formata da loro, dalla domestica Bellonia e dalla scimmia Tombo, finita in casa quale dono di un loro fratello marinaio, poi morto in terre lontane. Un giorno, una suora si presenta a casa delle due sorelle segnalando che Tombo è sospettato d’aver violato la cappella del monastero. Dopo opportuni appostamenti, si scopre che la scimmia ha davvero imparato ad aprire la sua gabbia per andare nottetempo nella cappella a simulare il rito religioso, con tanto di consumazione di ostie e vin santo. È a questo punto che il destino dell’animale sacrilego è affidato al giudizio di due religiosi, l’anziano monsignor Tostini e il più giovane padre Alessio. Dopo una delle più strabilianti dispute teologiche della storia della letteratura, prevale l’opinione del prelato anziano, dunque la condanna della scimmia, uccisa di propria mano dalla sorella Nena.
Non conosco abbastanza Landolfi da poter dire quanto ci sia di programmatico nel dissacrare le forme esteriori della religiosità, ma non si può fare a meno di notare, credo, che Le due zittelle sia stato scritto e pubblicato a metà degli anni Quaranta del secolo scorso, cioè in un’Italia scossa dalla guerra, gonfia di retorica, con un basso livello di istruzione e la presenza forte della Chiesa a condizionare mente e condotta di larghi strati della popolazione. Landolfi travolge tutto con la sua scrittura, una storia singolare e chissà, forse una punta di aristocratico disprezzo.

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Arto Paasilinna e la storia della sua Finlandia

Lo scrittore finlandese Arto Paasilinna (1942 – 2018)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 11/02/2013 nel sito antoniomessina.it]
Sangue caldo, nervi d’acciaio è l’ultima opera tradotta in italiano dello scrittore finlandese Arto Paasilinna, uscita nel 2012 per la consueta cura dell’editore Iperborea. Il libro ricostruisce la storia della Finlandia degli ultimi novant’anni ma, naturalmente, attraverso la lente scanzonata, e a volte irriverente, di Paasilinna.
Lo stile è, come sempre, efficacissimo. Si comincia a leggere e si ha la sensazione di andare subito al galoppo. Quanto al taglio dello sguardo, una citazione vale più di mille commenti. Tuomas Kokkoluoto, il padre del protagonista Antti, si adopera per far seppellire i due fratelli Jaakkola, rimasti uccisi nel corso della guerra civile alla quale partecipavano dalla parte dei rossi. Il rappresentante della chiesa di Toijala, contattato da Tuomas presso la “camera mortuaria della città, dove eroi bianchi e rossi venivano conservati fianco a fianco”, accoglie la richiesta, non senza prima sottolineare che “… non era così ovvio, di quei tempi, mettersi a spedire cadaveri di rossi su e giù per il paese. Tuttavia, per pura carità cristiana, in quel caso era disposto a fare un’eccezione.
Due giorni dopo, nella stazione di Ykspihlaja entrò sbuffando un treno con un pianale merci attaccato in coda. Sul pianale cinque bare, e quaranta botti di burro destinate all’Inghilterra.”
(PAASILINNA, Arto, Sangue caldo, nervi d’acciaio, Milano, Iperborea, 2012, p. 34).
Il libro è tutto così, sempre sul crinale fra la compassione e una punta di disprezzo per tanto agitarsi degli esseri umani in nome di convinzioni e convenzioni che sfociano così facilmente in tragedia, quando la vita, almeno un po’, potrebbe essere più semplice.

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Accesso agevolato al microrazzismo

Copertina dell’opuscolo informativo “Aiuti anticrisi”, diffuso dalla Provincia di Pesaro e Urbino nel 2013

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 10/02/2013 nel sito antoniomessina.it]
Forse esagero, forse no. Comunque … Fra carte di casa ritrovo un opuscoletto riepilogativo delle misure di sostegno economico adottate da soggetti pubblici e privati della provincia di Pesaro e Urbino, in collaborazione, in favore delle persone più colpite dalla crisi economica. Cose semplici ma concrete: proroghe nei pagamenti delle bollette, sconti sui trasporti scolastici, accesso agevolato a microcredito … Fin qui, tutto bene. Ma leggo anche che, per usufruire degli aiuti, i cittadini extracomunitari devono essere residenti nel territorio provinciale da almeno cinque anni. E da qui, meno bene.
La crisi c’è per tutti, le risorse per gli aiuti sono molto limitate, è doloroso ma bisogna stabilire delle priorità. Tuttavia, perché un norvegese può accedere al microcredito il giorno dopo essersi stabilito nel territorio provinciale e un tailandese deve aspettare cinque anni? Che cosa ha di diverso la loro condizione di bisogno?
E anche volendo pensare ad una scelta di favorire l’assegnazione di risorse locali a chi ha un rapporto non troppo recente né occasionale con il territorio, ecco che la questione si pone negli stessi termini di prima. Perché un cileno residente da quattro anni non può usufruire di un rinvio nel pagamento di una bolletta e un polacco appena arrivato, invece, sì?
Le condizioni oggettive di bisogno non conoscono passaporti. Ecco perché pretendere soltanto dai cittadini extracomunitari che risiedano nella provincia da almeno cinque anni appare come una piccola declinazione del razzismo.
[N.d.A. Non credo di essere stato così importante da determinare un cambiamento. Ovviamente, è assai più probabile che, per qualche via, se ne siano accorti da soli. Fatto sta che una seconda versione dell’opuscolo modificò, in meglio, il punto che contestavo.]

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Il principio di Peter e il Movimento 5 Stelle

Il sociologo canadese Lawrence Johnstone Peter (1919 – 1990)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 06/02/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel 1969 i canadesi Lawrence Johnstone Peter (a sinistra nella foto) e Raymond Hull (docente universitario il primo, sceneggiatore il secondo) pubblicarono Il principio di Peter, un saggio divenuto celebre per la formulazione del principio di incompetenza. Argomentando con un tono umoristico, i due autori arrivano a concludere che sempre, nelle organizzazioni che agiscono secondo uno schema gerarchico, ogni persona sale nella scala decisionale fino a raggiungere un posto per il quale non è adatta. Per necessaria conseguenza, tutto il lavoro viene svolto da chi ancora non ha occupato la posizione gerarchica per la quale è inadeguato.
Il principio di Peter, cito da Wikipedia, è un caso speciale della generalizzazione “… Ogni cosa che funziona per un particolare compito verrà utilizzata per compiti sempre più difficili, fino a che si romperà.”
Non mi spiego come mai il principio di Peter, che tanto si presterebbe allo scopo, non sia mai stato citato nel profluvio di articoli e dichiarazioni con cui commentatori di ogni sorta hanno esaminato la crescita (tumultuosa, a dar retta ai sondaggi) del consenso degli italiani al Movimento 5 Stelle in vista delle prossime elezioni politiche del 24 e 25 febbraio. Gli esponenti del M5S, magari bravi nel gestire un comitato per l’acqua pubblica o a sfilare contro la galleria per l’alta velocità ferroviaria in Val di Susa, raggiungerebbero in Parlamento quei posti per i quali non sono adatti, con gran danno per gli italiani e per la gioia dei sostenitori del principio di incompetenza.
Come accade a molte osservazioni brillanti, parte dell’attrattiva del principio di Peter deriva dal fare luce su una delle due facce del problema lasciando in ombra l’altra. Infatti, mentre si può accettare che, in partenza, si è tutti incompetenti quando ci si fa carico di un ruolo nuovo e superiore, non è vero l’inverso, cioè a dire che chiunque cominci a svolgere un ruolo nuovo e superiore non possa mai raggiungere il livello di competenza necessario.
Se il principio di Peter fosse una verità assoluta, l’umanità non avrebbe mai conosciuto alcun progresso.

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Antonio Bonacchi e la didattica del software

Antonio Bonacchi – Il violinista del web

[Questo articolo, con differenze minime, apparve per la prima volta il giorno 06/02/2013 nel sito antoniomessina.it]
La prima pubblicazione di una mia pagina web risale a più di dieci anni fa. [N.d.A. Dunque, più o meno al 2002] L’aspetto del sito era abbastanza sobrio, tuttavia adoperavo in abbondanza i colori, diversificando anche cromaticamente le diverse sezioni del sito stesso. Fin da allora lo realizzai personalmente, senza conoscere il linguaggio html, usando un software oggi non più in commercio di cui, in un’ora di conversazione, un amico mi spiegò i primi (e, per me, anche ultimi) rudimenti. Dopo annose vicissitudini, fra gli strumenti open source disponibili ho voluto provare non con Word Press, il più diffuso e forse il più semplice da utilizzare, non con Typo3, col quale aggiorno personalmente, per la parte che mi compete, il sito web dell’ente per cui lavoro, ma Drupal, di cui molti dicono un gran bene ma, onestamente, non mi sembra affatto intuitivo. Un breve corso che ho frequentato ha lasciato tracce sbiadite nella mia memoria. Nei momenti di difficoltà, ricorro a Antonio Bonacchi, l’ormai “storico” fornitore dello spazio web che ospita il mio sito.
Quando ho dei problemi tecnici, Antonio ha di buono che sa di dover scendere al mio livello. Non sono un informatico, non conosco i linguaggi di programmazione e ho scoperto da poco, dopo che ne sono un utilizzatore da almeno quattro anni, che i CMS si appoggiano a un database e, soprattutto, quali sono le conseguenze operative di questa caratteristica.
Sono convinto che le conoscenze informatiche siano un linguaggio che oggi si dovrebbe apprendere, come l’inglese. La diffusione della conoscenza, tuttavia, esige che chi insegna comprenda i passaggi che la mente dell’allievo deve affrontare e risolvere. Troppo spesso, invece, negli informatici noto una tendenza a compiacersi del loro sapere, e una scarsissima predisposizione a far sì che un bagaglio tecnico importante diventi un patrimonio culturale diffuso. Così, quando incontro persone come Antonio Bonacchi, disposte a spiegare il funzionamento di un’applicazione come una volta si insegnava a scrivere, cioè cominciando dalle aste e dai cerchi, quasi mi commuovo.

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