Il poco tempo che abbiamo per cambiare il mondo

L’economista inglese John Maynard Keynes (1883 – 1946)

[Articolo pubblicato, in forma quasi identica, per la prima volta il giorno 07/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
Lo scorso 2 giugno [2013] mia moglie ha pubblicato sul suo blog un pezzo intitolato Diamoci da fare. A lettura ultimata, fra tanti pensieri una constatazione: invecchiare mi ha reso molto meno “ideologico” di quanto lo fossi a vent’anni. Ho ancora delle idee, e qualcuna è perfino profondamente radicata nel mio animo ma, mentre guardo anche lontano, cerco di non perdere di vista quello che può toccare la mia mano.
Il motivo, credo, è che detesto perdere tempo, perciò desidero essere concreto, cambiando ciò che posso migliorare davvero, rinunciando volentieri a dibattiti oziosi sui massimi sistemi. E siccome invecchio, e il tempo che ho davanti si riduce, eccomi a preferire un passo concreto ai molti discorsi che pure potrei fare.
Se vogliamo, questo mio modo di vedere le cose ha almeno un riferimento autorevole in un vecchio saggio, pensate un po’, sulla riforma monetaria. Molti conosceranno già la frase celebre.
“Nel lungo periodo, probabilmente questo è vero. … Ma per le questioni contingenti, questa del lungo periodo è una guida ingannevole. Nel lungo periodo siamo tutti morti. Gli economisti si pongono un obiettivo troppo facile e totalmente inutile se, nelle stagioni di tempesta, riescono a dirci soltanto che ben dopo che la tormenta sarà cessata, l’oceano sarà di nuovo calmo.” (KEYNES, John Maynard, A tract on monetary reform, London, McMillan and Co., 1924, p. 80).
Non occorre essere ansiosi e tuttavia: diamoci da fare.

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Franca e Modesto, fra lacrime e futuro

Modesto Campos alla Biblioteca San Giovanni di Pesaro, nel 2003

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 01/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
Il 29 maggio 2013 è morta Franca Rame, una di quelle persone tanto ricche d’umanità da rendere povera ogni definizione. Era un’attrice, ma non soltanto quello. Una scrittrice, ma non soltanto quello. Un’attivista politica, ma non soltanto quello. E l’elenco, appunto, potrebbe proseguire.
Fino a quando le è stato possibile, Franca Rame si è spesa per gli altri e per le idee nelle quali credeva, con quella passionalità che le aveva permesso di interpretare, accanto ai ruoli che esprimevano la sua cifra più comica, felicemente condivisa col compagno di una vita Dario Fo, personaggi dolorosi con un’efficacia da rendere difficile, almeno a me, sopportare fino alla fine la sofferenza che lei metteva in scena. Mi riferisco, per esempio, al monologo in cui interpreta la vedova ormai pazza di un contadino siciliano, ucciso dalla mafia per aver guidato con successo la lotta per ottenere l’acqua necessaria ad irrigare le terre.
Il 31 di maggio, con gli occhi umidi dopo aver ascoltato Dario e Jacopo Fo manifestare il loro amore per Franca, con mia moglie ho partecipato a un incontro con Amilcar de Jesùs del Aguila Mejia. Amilcar è un contadino guatemalteco. Più esattamente, un coltivatore di caffè. Da qualche tempo, Amilcar è anche il presidente dalla cooperativa Nueva Esperanza, della comunità di El Bosque, nel municipio di Santa Cruz Naranja.
Io di caffè ne consumo poco, mescolato col latte della colazione mattutina. Quel poco, dal 2003 è quello prodotto da El Bosque. Ne scoprimmo la bontà dopo aver partecipato a un’altro incontro, quella volta alla biblioteca San Giovanni di Pesaro. A raccontare la vita a Santa Cruz e il lavoro della cooperativa il presidente di allora, Modesto Campos. Se Amilcar ha l’aspetto paffuto e sorridente di una brava persona, Modesto era evidentemente, perfino nel modo di portare il sombrero, una persona dotata di un forte carisma personale.
Dopo l’incontro del 2003 ci fu un giro di caffè per tutti. Dopo l’incontro di ieri, invece, chi voleva poteva partecipare a una cena di sostegno alla cooperativa. La produzione di caffè, infatti, quest’anno sarà inferiore di quasi la metà a causa di una malattia che ha fatto morire un gran numero di piante che, dunque, dovranno essere sostituite.
A fine cena siamo andati a salutare Amilcar. Mia moglie gli ha raccontato di come, nel 2003, scoprimmo il caffè di El Bosque, e dell’incontro con Modesto. A quel nome, un velo di tristezza ha attraversato gli occhi di Amilcar.
Franca Rame e Modesto Campos neppure si conoscevano ma, a parer mio, erano fatti un po’ della stessa pasta, quella che inumidisce gli occhi di chi non li ha più accanto ma tenta ogni giorno, consapevole di non volare alla loro altezza, di proseguire il viaggio.

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I miei curiosi incroci fra finanza etica e reparto pediatria

Ritratto del predicatore Michele Carcano (1427 – 1484)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/05/2013 nel sito antoniomessina.it]
Certi incroci delle nostre vite sono così articolati da suscitare un moto inevitabile di sorridente stupore. Ecco quel che mi sta capitando in questi giorni.
Da bravo socio attivo, nonché azionista, parteciperò alla prossima assemblea nazionale di Banca Etica (a Firenze, sabato prossimo 18 maggio). A questa assemblea, per la prima volta, parteciperanno i soci della “quinta area”, cioè i soci spagnoli che si affiancano a quelli delle quattro aree italiane (Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud).
Da bravo lettore, nella mia borsa non manca mai un libro. In questo periodo sto leggendo un saggio intitolato I volonterosi carnefici di Hitler. La prima parte del libro è dedicata anche a come si è formata l’opinione comune dei tedeschi sugli ebrei. A tale opinione (negativa oltre ogni misura) si associarono anche le chiese tedesche del tempo, tanto cattolica quanto protestanti.
Da bravo appassionato di finanza etica, ieri ho sfogliato subito il numero appena ricevuto della rivista Valori, promossa da Banca Etica. Nell’editoriale leggo che l’attuale esperienza della Banca ha precedenti storici nell’attività dei frati francescani che, nel XV secolo, promossero in Spagna le Arcas de Misericordia e in Italia i Monti di Pietà. Questi istituti erogavano prestiti di modesta entità in cambio di un pegno, che si poteva riscattare alla scadenza stabilita.
La soluzione operativa escogitata dai Monti di Pietà per venire in soccorso dei poveri nasceva anche per superare il rifiuto cattolico del prestito a interessi. Tale tipo di prestito, a volte spinto fino all’usura, era invece lecito e praticato dagli ebrei. Questi ultimi, perciò, erano assai mal visti sia perché operavano in un modo che i cattolici consideravano moralmente spregevole, sia perché si ricorreva a loro quando la persona era in difficoltà. Nell’opinione comune, dunque, l’ebreo era un essere immorale che speculava sulle disgrazie altrui.
Fra i francescani più impegnati nella istituzione dei Monti di Pietà scopro che vi fu Michele Carcano. A Firenze (dove sabato prossimo si svolgerà l’assemblea di Banca Etica), nel 1493 fu vietato a frate Carcano di proseguire la sua predicazione a causa delle violenze sugli ebrei che essa aveva provocato.
Oltre che dedicarsi al sostegno economico ai poveri, Michele Carcano si adoperò nel campo dell’assistenza sanitaria, in particolare per concentrare in strutture di dimensioni adeguate i piccoli ospedali dell’epoca. Fra queste nuove strutture, l’ospedale Sant’Anna di Como, istituito nel 1468 e dove, 492 anni dopo, sono nato io.
Oltre che il mondo, dunque è piccola anche la storia!

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Meglio solis che male accompagnati

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/05/2013 nel sito antoniomessina.it]
In un paese che abolì nel lontano 1977 l’insegnamento del latino dai programmi delle scuole medie, i quotidiani ospitano le fiere dichiarazioni dei contendenti che inalberano le opposte bandiere dello ius soli e dello ius sanguinis. Per intenderci, il paese è lo stesso nel quale fra il 2008 e il 2012 sono aumentati di oltre il 20% i suicidi dovuti a motivazioni economiche (dato fornito dall’Osservatorio nazionale sulla salute) [N.d.A. del 15/07/2019 Lo studio dell’Osservatorio non è più raggiungibile dal link a suo tempo indicato nell’articolo. Il dato sui suicidi per motivazioni economiche è comunque ripreso e confermato da altre fonti attendibili.], e nel quale il Ministro dell’Interno partecipa entusiasta a una manifestazione dove si critica la magistratura (attività, di per sé, più che legittima) perché un pubblico ministero, il tribunale di primo grado e il tribunale d’appello hanno ritenuto una persona colpevole di frode fiscale. Ma tant’è, ai problemi che abbiamo dobbiamo aggiungere, e subito, la scelta del presupposto giuridico per l’attribuzione della cittadinanza.
Secondo lo ius soli, diventa cittadino chiunque sia nato nel territorio dello stato. Secondo lo ius sanguinis, i genitori cittadini trasmettono la cittadinanza al figlio, ovunque sia nato. Così, un bambino figlio di genitori cittadini di un paese dove vige lo ius sanguinis, ma che nasce in un paese dove vige lo ius soli diventa cittadino di entrambi i paesi. A leggere i giornali, non trova sostenitori agguerriti quanto serve per finire in prima pagina lo iure communicatio (cittadinanza trasmessa da un componente della famiglia, per esempio per matrimonio o adozione. Sistema che offre lo spunto al bel film Il matrimonio di Lorna, dei fratelli Dardenne), con il quale si esauriscono i termini latini ma non i criteri di attribuzione della cittadinanza ai quali, per completezza, bisogna aggiungere il beneficio di legge (cittadinanza concessa automaticamente sulla base di presupposti predeterminati dalla legge) e la naturalizzazione (cittadinanza concessa a discrezione dell’autorità, per esempio, per meriti acquisiti).
La cittadinanza, cioè la condizione che permette di godere pienamente dei diritti civili e politici riconosciuto da uno Stato, non è un fatto di natura ma una figlia delle regole, cioè una costruzione della mente umana e, in particolare, del pensiero dedicato alla gestione del vivere sociale. Ogni regola, così, è giusta o sbagliata, efficace o debole, in relazione ai principi scelti e ai risultati che si desidera conseguire. Le condizioni per la concessione della cittadinanza (cioè dei diritti e dei doveri che essa porta con sé) sono perciò più o meno “giuste” in base a quello che si crede e che si vuole ottenere. Così, quel che ancora una volta non mi piace nel dibattito (termine generoso) attuale sulla cittadinanza è l’uso parziale (nel senso di limitato a una parte del tutto) di concetti complessi per battaglie pseudo-ideologiche che di quei concetti riprendono solo una delle molte facce.
Per esempio: alcuni difensori dello ius sanguinis scagliano strali contro lo ius soli sulla base del fatto che quest’ultimo porterebbe in Italia orde di gestanti asiatiche e africane, ansiose di far nascere i loro bebè in talia per poter, fra diciotto anni, alterare i risultati delle elezioni e, da subito, usufruire della nostra superba assistenza sociale e del noto lassismo della pubblica amministrazione. Lo scarso realismo tradotto in una simile paura irrazionale, però, viene contrastato con delle considerazioni ancora più astratte, trasformando lo ius soli in una sorta di procedura automatica di accoglienza dei profughi stranieri, senza alcuna valutazione degli effetti che avrebbe sullo sviluppo demografico dell’Italia, con tutto quel che segue in termini di assistenza sociale, previdenziale e via dicendo.
Mi piacerebbe, cioè, che qualcuno si prendesse la briga di dire quale sarebbe, in pratica, la differenza fra un sistema e l’altro, magari aggiungendo la base di fatto delle valutazioni. Per dire: quanti sono i bambini nati in Italia da genitori stranieri? Perché se sono dieci, o anche cento o mille, i giornali hanno sprecato molto inchiostro, i politici molte parole, e io circa un’ora del mio tempo.
P.S.
La vignetta è di Mauro Biani ed è ripresa da qui.

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Il piccolo trotto dei lipizzani di Frank Westerman

Cavallo lipizzano durante un’esibizione

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 04/05/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel 1580 l’arciduca Carlo II d’Asburgo raccolse nella cittadina di Lipizza (nel Carso sloveno vicino Trieste) cavalli andalusi e giumente locali per dare vita a una nuova e selezionata stirpe equina che, anche attraverso ulteriori incroci, diventerà il lipizzano, lo splendido cavallo bianco capace di danzare. Un cavallo talmente prezioso da diventare bottino di guerra, protagonista di esodi avventurosi (e raccontati anche dal cinema) per salvare da bombe e razzie i preziosi esemplari che dovevano garantire la continuità della razza, oggetto di furti a fini speculativi e simbolo di riscosse nazionali nei martoriati territori ex jugoslavi.
Nel suo libro Pura razza bianca (Milano, Iperborea, 2010, pp. 371), il giornalista olandese Frank Westerman racconta le notizie e suggestioni accumulate nel corso di una lunga ricerca sulla storia del lipizzano e dei suoi esemplari più famosi. Le linee genealogiche si intersecano con la storia dell’uomo e dei suoi conflitti: bellici, scientifici, etici.
La selezione di un cavallo dalle caratteristiche sempre più uniche, così, è l’occasione per raccontare i trasferimenti forzati dei cavalli per allontanarsi dalle zone di guerra, ma anche le altalenanti fortune, e le conseguenze a volte terribili, delle idee su come si siano naturalmente modificate le specie e, soprattutto, su come si possano modificare secondo uno schema preordinato dall’uomo, ricorrendo a tecniche che spostano sempre di più il confine fra evoluzione e manipolazione.
Il libro è interessante e ricco di informazioni, restituite con uno stile più vicino al reportage che al saggio. Terminata la lettura, tuttavia, rimane la sensazione di una possibilità letteraria parzialmente sprecata. Il libro è scritto in prima persona, raccontando eventi anche assai minuti dell’inchiesta di Westerman (di cui veniamo a sapere, per esempio, che aveva Skype ma non la webcam); la storia dei lipizzani non è resa seguendone in modo rigorosamente cronologico le vicende; gli interrogativi sui confini etici dei processi di selezione della razza umana si alternano alle vicende degli animali in un modo che a volte appare quasi estemporaneo. Così, alla fine della lettura non appare chiaro chi sia il vero protagonista del libro: se l’elegante lipizzano o le domande sull’uomo che ha iniziato a credersi creatore di vita, e ad agire come se lo fosse.

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Viva il νόμος, abbasso Napolitano!

Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 30/04/2013 nel sito antoniomessina.it]
Io amo le regole. Le amo nonostante l’opinione generale, e solidissima, che le avvolge. Perché ogni regola, si sa, limita la libertà individuale, soffoca l’iniziativa e finanche la creatività, se non addirittura lo sviluppo pieno e armonioso della personalità. Perciò qualsiasi regola e, peggio ancora, la curiosa pretesa che sia rispettata, sono cosa degna dei regimi repressivi, lagnosamente rivendicata da quei deboli che, per esser tali, sono anche inevitabilmente un po’ vigliacchi. Da questo ed altro ancora discende nel modo più necessario che la regola, ogni regola, è triste come l’animo di chi è costretto a piegarsi ad essa.
Io amo le regole perché sono convinto dell’opposto: le regole fanno un gran comodo e semplificano la vita. Per dire, quando guidiamo e arriviamo a un incrocio, sappiamo tutti quel che dobbiamo fare, perciò meno incidenti e perdite di tempo. Quanto alla libertà, la regola è uno dei suoi presupposti. La parola “autonomia” viene dal greco e significa “regola stabilita dallo stesso soggetto che la osserva” (ecco spiegato il titolo di questo articolo, con l’avvertenza che nómos, in greco, è di genere maschile). Dunque è autonomo, cioè libero, colui che indirizza la propria azione secondo dei criteri.
Poi, certamente, la regola è un frutto della mente umana, cioè di quel congegno che ha generato l’ouverture del Flauto magico ma anche i campi di concentramento. Senza arrivare al peggio, fra i due estremi troviamo anche le regole inutili o inefficaci, stupide o ridondanti, travisate o pervertite.
Le regole, certamente, possono anche essere troppe oppure ingiuste, dunque da eliminare, modificare o sovvertire. Il che mi porta ad altre due annotazioni. La prima è dovuta ad un ricordo. Gonzalo Montserrat, uno dei miei insegnanti di spagnolo, introducendo una lezione di grammatica ci disse: noi possiamo anche rompere o disapplicare le regole ma, per farlo, dobbiamo prima conoscerle. Era il 1986. Dopo quasi trent’anni, condivido ancora.
La seconda annotazione è che, per quel che ho visto, uno degli sport più praticati in Italia è quello che risolve in modo brillante il problema delle regole ingiuste, o sbagliate, o inefficaci o che, ancor più semplicemente, non piacciono. Di fronte a tali regole, inutile affaticarsi a rimuoverle o migliorarle, basta comportarsi come se non esistessero. Fra i praticanti di questo sport dispiace annoverare Giorgio Napolitano, da poco rinnovato Presidente della Repubblica. Fra le sue forzature del dettato costituzionale, una che ho sempre considerato grave è l’intervento (attraverso contatti tanto informali quanto diretti fra presidenza della repubblica e presidenza del consiglio) nel processo legislativo, ancora in fase di elaborazione della proposta di legge. La Costituzione è un sistema delicatissimo di equilibri e contrappesi. Il potere di richiedere alle Camere una nuova deliberazione su una legge (art. 74 della Costituzione) è tanto grande quanto da usare con estrema prudenza. Tuttavia, per esercitarlo con piena autonomia e legittimazione, è essenziale che il Presidente della Repubblica sia assolutamente esterno al processo di formazione della legge, specialmente quando tale processo ha coinvolto il governo.
Anche sull’art. 74 della Costituzione, naturalmente, esistono opinioni diverse. Rimane il fatto che Napolitano, a cui magari l’art. 74 non piace, poteva adoperarsi per arrivare a una sua modifica o soppressione. Invece, ha assai più semplicemente agito come se non ci fosse. Così facendo, del resto, forse ha davvero rappresentato gli italiani. Quelli che lo hanno eletto e poi rieletto.

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Il 25 aprile è morto, come Dio e il buon senso

Copertina del disco a 45 giri Dio è morto, 1967, parole e musica di Francesco Guccini, interpretazione de I Nomadi.
La prima copertina del disco a 45 giri Dio è morto.

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 10/04/2013 nel sito antoniomessina.it]
A leggere la stampa, ha suscitato indignazione quasi unanime un post di Beppe Grillo intitolato “Il 25 aprile è morto”. Vediamo se era il caso.
Il testo di Grillo è un lungo elenco di fatti che lui ritiene in contrasto coi valori espressi da quell’azione ribelle di una parte del popolo italiano comunemente nota come Resistenza e che, per convenzione storica, si considera conclusa il 25 aprile del 1945. Il post incriminato si chiude con questa frase: se i partigiani tornassero tra noi si metterebbero a piangere. Una lettura delle sue affermazioni condotta con medio buon senso, dunque, vorrebbe Grillo campione degli ideali che diedero vita alla Resistenza e poi alla Costituzione, contro la corruzione di quei valori che si è manifestata, per esempio, nell’accoglimento di fatto del principio che non tutti sono uguali di fronte alla legge (chiunque dialoghi col Presidente non può essere intercettato; chiunque sia coinvolto nel dibattito politico e parlamentare non può essere processato).
Il concetto è chiaro: Grillo crede nei valori della Resistenza, soffre per come oggi sono dimenticati o traditi, si indigna per i discorsi (o i silenzi colpevoli) sul 25 aprile tenuti da persone che quei valori calpestano ogni giorno con le loro azioni. Nonostante l’evidenza, però, Grillo il mostro è accusato di idee che non ha espresso.
Del resto, parafrasando il detto, non c’è miglior stupido di chi non vuol capire. E consola poco che il fatto non sia nuovo. Nel 1967 i Nomadi portarono al successo la canzone di Francesco Guccini Dio è morto. Il titolo della canzone cita Nietzsche (che con quell’espressione volle sintetizzare la decadenza del mondo occidentale che, non riconoscendo Dio, rimane privo di un ordine morale); le parole iniziali sono un debito nei confronti di Allen Ginsberg (I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked, dragging themselves through the negro streets at dawn looking for an angry fix …); la struttura del ritornello è quella ripresa da Grillo nel suo post (un dio che è morto / ai bordi delle strade dio è morto / nelle auto prese a rate dio è morto / nei miti dell’estate dio è morto …). Guccini denunciava i guasti della società contemporanea, urlando in faccia al mondo e agli ipocriti che quel Dio, di cui magari si riempivano la bocca, era tradito ogni giorno da arrivismo e consumismo anche a discapito della solidarietà umana.
Nonostante il candore degli ideali gucciniani, la canzone fu censurata e mai trasmessa dalla radio e dalla televisione nazionali (cioè la RAI che, nel 1967, era anche l’unica a trasmettere sulle frequenze radiotelevisive) nonostante il favore del pubblico. La RAI fu anche più papista del Papa, per dir così. La canzone di Guccini fu infatti regolarmente trasmessa dalla Radio Vaticana i cui redattori, si deve pensare, si presero la briga di ascoltarne e comprenderne tutto il testo, anziché fermarsi al titolo.

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Hans Fallada e la miseria quotidiana del nazismo

La celebre foto del 1943 che ritrae un bambino ebreo a mani alzate, catturato nel ghetto di Varsavia. La foto fu scattata dai nazisti. La didascalia originale recitava “Estratti a forza dai bunker“.

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 10/04/2013 nel sito antoniomessina.it]
L’incendio del Reichstag; la Notte dei lunghi coltelli; la Notte dei cristalli; le parate coi soldati che marciano al passo dell’oca; la svastica; i pieni poteri a Hitler; lo scioglimento forzoso dei partiti politici; la milizia paramilitare delle Sturmabteilung (SA) e poi la sua sanguinosa eliminazione da parte delle Schutzstaffel (SS); la Gestapo; l’imposizione dei simboli nazisti in ogni manifestazione della vita pubblica; la violenta repressione interna degli oppositori; l’invasione della Polonia e la guerra mondiale scatenata; la foto del bambino ebreo con le braccia alzate; le persecuzioni razziali e le campagne di sterminio; l’Olocausto e Marzabotto; le Fosse Ardeatine e Kalavrita; Roma città aperta, Il pianista, La lista di Schindler
Quando pensiamo al nazismo tedesco la mente si riempie di queste ed altre immagini, fatti emblematici, simboli spaventosi. E tuttavia, la Germania degli anni Trenta e Quaranta del XX secolo era un paese di quasi settanta milioni di abitanti: persone che mangiavano, andavano a scuola e sbrigavano le loro faccende. Travolto dall’immensità della tragedia, il pensiero non va mai alla vita quotidiana sotto il regime nazista. Milioni di tedeschi, gente comune. Come si viveva sotto il tallone di Hitler?
Si viveva male, ci racconta Hans Fallada (Nel mio paese straniero, Palermo, Sellerio, 2012, pp. 358 – Leggi qui una recensione). Come ogni potere che si autolegittima solo in virtù della propria forza, lo stato nazista è il regno dell’irrazionalità. Le cose più semplici e banali diventano montagne insormontabili soltanto perché è così, con la completa ed assoluta (nel senso etimologico di “sciolta, priva di qualsiasi vincolo”) gratuità delle decisioni, che si riafferma il proprio dominio. Per lo scrittore Fallada, reo non di opporsi ma, assai più modestamente, di non aderire al regime, diventa difficile tanto avere la carta su cui stampare le proprie opere, quanto vedersi restituire un prestito o ricevere una sufficiente quantità di legno per scaldarsi. Il partito nazista ha bisogno di obbedienza cieca, in cambio assicura privilegi più o meno grandi e impunità anche per gli errori più modesti. La selezione dà spazio ad arrivisti di cabotaggio più o meno mediocre.
Il racconto dell’antieroe Fallada è illuminante. Il regime nazista, sotto il velo di una sfarzosa esteriorità, è il luogo, solito e modesto, delle miserie umane. A Fallada, negli anni, toccherà garantire i debiti di un caporione nazista, litigare per il confine di un frutteto, veder sfumare un lavoro di mesi perché Goebbels, che quel lavoro aveva approvato, non era tuttavia in grado di pretenderne il compimento perché “era uno sporcaccione, perché ancora una volta una delle sue maialate aveva fatto scandalo”, finendo pubblicamente schiaffeggiato dal fidanzato dell’attrice di cui Goebbels decantava, altrettanto pubblicamente, l’ombelico.
Il mondo che ci racconta Fallada è un mondo meschino, triste e condannato alla tragedia. Scrive Fallada: “Il riarmo era compiuto … si sarebbe tornati alla disoccupazione – se non fosse successo nulla di nuovo. … La novità che, in situazioni del genere, viene in mente a chi detiene il potere è qualcosa di molto antico, è la guerra …”
C’è chi si è voltato dall’altra parte, c’è chi ha lottato, c’è chi ha cercato di sopravvivere in un ambiente ostile, magari limitandosi a sperare in giorni migliori senza farsi illusioni. Perché la guerra aveva per sola conclusione la sconfitta ma, dice un giornalista incontrato da Fallada in casa d’amici: “Bisogna sempre prevedere il peggio: potremmo anche perdere questa guerra, e doverci tenere il Führer”.

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Alta velocità e sarcasmo basso

Carrozza a cavalli… Altri tempi.

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 01/04/2013 nel sito antoniomessina.it]
Per ben due volte in una sola settimana (l’ultima, da Alessandro Sallusti che polemizzava con Jacopo Fo, vedi dal minuto 3.20 del video) mi è accaduto di sentir rinfacciare il fatto che, per spostarsi fra Milano e Roma, usufruivano del treno ad alta velocità anche coloro che gli si erano fieramente opposti. Siccome io sono fra coloro che sull’Alta Velocità in Italia hanno più di un dubbio, e siccome ho parenti sia a Roma sia a Milano, ho voluto verificare se, decidendo di salire su uno di quei treni, la mia coerenza avrebbe mostrato qualche falla. Ed ecco il risultato del mio accertamento.
Punto primo: praticamente non abbiamo alternative. I collegamenti resi noti dal sito di Trenitalia, che ho consultato il 28 marzo 2013, per quella data comprendevano 37 corse dirette fra Milano e Roma, di cui: 31 su treni Freccia Rossa, 2 su Freccia Bianca, 1 su Freccia Argento e 3 Intercity; più 2 collegamenti con cambio (Intercity più un treno regionale), questi ultimi con durata anche superiore alle 9 ore. Non prendere un treno ad alta velocità somiglia a un tiro al bersaglio più che a un viaggio e, quando si fa centro, bisogna armarsi di pazienza. Molta pazienza.
Punto secondo: le critiche non hanno mai riguardato la rapidità del collegamento ma i suoi costi socio-ambientali. Il procedimento penale avviato nei confronti del Consorzio Cavet, controllato da Impregilo, relativo ai lavori per la tratta fra Firenze e Bologna (perché, non sia mai che in Italia una grande opera non abbia degli strascichi penali) ha evidenziato una serie di danni all’ambiente e, di conseguenza, alle popolazioni insediate nella zona del Mugello. Il 3 marzo 2009 la sentenza di primo grado condannò 27 imputati per illecito smaltimento delle terre di risulta degli scavi e dei fanghi di lavorazione, per traffico di rifiuti e per i danni al territorio e ai corsi d’ acqua. Il 27 giugno 2011 la Corte di Cassazione annullò in parte la sentenza del 2009. Il nuovo processo di appello non si è ancora concluso, nel frattempo alcuni reati sono finiti in prescrizione, cioè è passato tempo bastante a far dichiarare per sempre che “cosa fatta, capo ha”. La “cosa fatta” sono 81 corsi d’acqua, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti disseccati o gravemente impoveriti, nonché la sparizione della vegetazione nelle aree dove sono sprofondate le falde acquifere. Ad oggi, rimane in piedi il procedimento penale per i reati ambientali relativi allo smaltimento scorretto dei rifiuti.
Punto terzo: le critiche riguardavano (e riguardano, per l’ormai famigerata Torino-Lione) l’insostenibilità da parte della finanza pubblica dei costi per i collegamenti ad Alta Velocità. Nel dicembre del 2008, Aldo Carosi e Fabio Viola sostennero che “… può affermarsi che, mentre di regola, il cattivo esito di un project ricade sugli investitori privati (cfr. in proposito la vicenda dell’Eurotunnel che è gravata sui risparmiatori e sulle banche), nel caso di specie detto onere è gravato interamente sullo Stato. Ciò probabilmente perché fin dall’inizio … i mercati finanziari non avevano ritenuto verosimile e conseguentemente appetibile il piano di rientro dell’ingente investimento programmato”. Per la cronaca: l’Eurotunnel è il tunnel sotto il Canale della Manica, realizzato da un consorzio franco-britannico; Aldo Carosi e Fabio Viola sono due magistrati della Corte dei Conti che nel 2008 hanno redatto le Risultanze del controllo sulla gestione dei debiti accollati al bilancio dello Stato contratti da FF.SS., RFI, TAV e ISPA per infrastrutture ferroviarie e per la realizzazione del sistema “Alta velocità” (Il documento è lungo ma interessante e insolitamente chiaro, perciò lo rendo disponibile tramite il collegamento alla fine di questo articolo).
Punto quarto: la rapidità del collegamento rallenta la vita. Spiego subito l’affermazione che, alle prime, può apparire paradossale, facendo mie le considerazioni di Filippo Schillaci. Ipotizziamo che l’8 aprile 2013 io mi debba recare da Roma a Milano, potendo mettermi in viaggio alle otto della mattina. Proprio alle 8.00 parte un Freccia Rossa che mi porta a Milano alle 10.55 al costo di 86,00 euro (tariffa base per servizio standard). Il primo treno non ad alta velocità è l’Inter City delle 9.35, con arrivo a Milano alle 16.15, prezzo base in seconda classe 55,50 euro. Con l’Alta Velocità viaggio per 2 ore e 55 minuti, con l’Inter City per 6 ore e 40 minuti. Per risparmiare 3 ore e 45 minuti di viaggio, perciò, devo spendere 30,50 euro in più. Posto che la mia retribuzione oraria è di circa dodici euro, per guadagnarne trenta devo lavorare poco meno di tre ore, cioè quasi tutto il vantaggio che mi dà il Freccia Rossa. Se poi, attenendomi all’esempio, considero l’ora e mezza in più che devo attendere per poter partire con l’Intercity, ecco che il mio saldo di vita è senz’altro negativo.
Alla fine, quel che davvero voglio dire è che la nostra opinione sulle cose dovrebbe sempre tentare di comprendere la somma degli aspetti di un problema. Buon viaggio a tutti.

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L’inutile ipoteca a cinque stelle

Striscione di protesta contro lo sfratto

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 04/04/2013 nel sito antoniomessina.it]
Ha suscitato critiche più o meno feroci e sensate la proposta del Movimento 5 Stelle di stabilire per legge l’impignorabilità della prima casa. A farmi riflettere sull’argomento mi ha indotto la singolare coincidenza che proprio in questi giorni mi ha fatto leggere (per ennesimo buon suggerimento di mia sorella) Nel mio paese straniero, duro e vivace resoconto autobiografico della vita dello scrittore tedesco Hans Fallada sotto il regime nazista. Scrive Fallada a proposito di un suo padrone di casa economicamente fallito: “È chiaro che in altri tempi i creditori avrebbero sollecitato da un pezzo il sequestro della casa, ma già uno dei precedenti governi … aveva introdotto la cosiddetta salvaguardia dal pignoramento, vale a dire che era lecito eseguire un sequestro soltanto se il debitore dava il proprio assenso, cosa che evidentemente succedeva in casi rarissimi.” (FALLADA, Hans, Nel mio paese straniero, Palermo, Sellerio, 2012, pp. 33).
La proposta del Movimento 5 Stelle, perciò, quanto meno non è nuova (e neppure isolata, dato che Domenico Scilipoti presentò l’anno scorso una proposta di legge sulla “impignorabilità della prima e unica casa”). A prescindere dalla paternità dell’idea e dall’autorevolezza di chi la propone, vediamo che cosa se ne può pensare.
Al pignoramento si arriva per due possibili ragioni:
a) far valere la garanzia fornita (con relativa iscrizione di ipoteca sull’immobile) a chi ha concesso un finanziamento che non è stato rimborsato nelle quantità e nei tempi pattuiti;
b) saldare, in tutto o in parte, un debito non rimesso nei modi stabiliti ricorrendo al patrimonio del debitore (di cui l’immobile rappresenta, a volte, l’unica voce consistente).
Ragioniamo sull’ipotesi a). In vita mia ho acquistato tre “prime case”, ricorrendo ad un mutuo ipotecario tutte e tre le volte. Senza ipoteca sull’immobile, non avendo altri beni da offrire come garanzia, io non avrei ottenuto il finanziamento, la banca non avrebbe riscosso gli interessi, il precedente proprietario non avrebbe venduto l’immobile (almeno, non a me). Con l’ipoteca, io ho avuto un tetto, la banca il suo guadagno e il venditore i soldi che desiderava. Stabilire l’impignorabilità della prima casa avrebbe almeno due effetti ugualmente nefasti: impedire a chi non dispone di consistenti risorse proprie di accedere a finanziamenti dell’importo (normalmente elevato) necessario per acquistare un immobile; incoraggiare comportamenti scorretti in quei debitori che potrebbero pagare quanto devono ma, certi dell’impunità sostanziale derivante dall’impignorabilità, potrebbero valutare positivamente l’ipotesi di sospendere i pagamenti.
Sfuggendo a un’immagine dickensiana della società, occorre notare che i vantaggi dell’impignorabilità si estenderebbero anche a patrimoni maggiori di quelli della famigliola che acquista la prima casa con tanti sacrifici. Anzi, posto che “prima casa” può essere anche un castello con parco, piscine e pertinenze, l’impignorabilità “secca”, cioè senza correttivi di sorta, sarebbe tanto più vantaggiosa quanto più grande è la ricchezza. Una distorsione quasi certa del mercato, poi, sarebbe l’intestazione di tante “prime case” quanti sono i componenti del nucleo familiare, sottraendo una parte consistente del patrimonio alla funzione di garanzia dei creditori.
E dunque? La mia impressione è che, come accade spesso, occorra molta attenzione prima di tradurre in una regola anche la migliore delle intenzioni. Tutelare il bene primario dell’abitazione, soprattutto in favore chi sta soffrendo di più l’attuale crisi economica e sociale, richiede ricette non riducibili a slogan come quello purtroppo contenuto nel programma del Movimento 5 Stelle.

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L’infelicità ha i piedi d’argilla

Locandina del film Guess who’s coming to dinner (Indovina chi viene a cena) , del 1967, regia di Stanley Cramer

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 27/03/2013 nel sito antoniomessina.it]
Rivedere Indovina chi viene a cena (1967, regia di Stanley Kramer) ha significato anche riascoltare delle parole che mi hanno accompagnato fin da quando, molti anni fa, vidi il film per la prima volta. Quando Matt Drayton, il giornalista bianco e liberal interpretato da Spencer Tracy, si rivolge alla figlia ed al fidanzato nero per dire finalmente, dopo tante sollecitazioni e incertezze, che cosa pensa del loro possibile matrimonio, a un certo punto dice: Il punto in cui John ha sbagliato, io credo, è nel dare tanta importanza a quello che ne pensavamo Christina e io.
Ho sempre inteso quella frase non come un invito al disinteresse o alla mancanza di rispetto, ma a crescere, tenendo conto del parere di chi ci vuol bene ma trovando la forza di scegliere la propria strada.
Un altro senso ho poi sempre attribuito a quelle parole di Drayton-Tracy: l’infelicità, a volte, non è nelle cose, ma nell’occhio col quale le guardiamo. Se liberiamo lo sguardo, il mondo può apparire per come è e dunque, a volte, più semplice e piacevole di quanto pensavamo. Un po’ quello che accade al protagonista di “San Pedro”, un bel racconto di Matteo B. Bianchi, a cui poche parole pronunciate dal regista spagnolo Pedro Almodóvar fanno capire che il problema che stava cercando di risolvere da anni, semplicemente non esiste.
Con la misura che dobbiamo usare nelle cose umane, dunque, questo è ciò che penso: gli schemi mentali sono un necessario punto di partenza, ma dobbiamo essere abbastanza aperti da accettare che non siano anche il punto d’arrivo. In questo modo, almeno qualche volta, sapremo riconoscere se l’infelicità ha delle basi fragili.
Nota del 12/07/2019: Purtroppo il video completo del monologo finale di Matt Drayton-Spencer Tracy non è più disponibile. In rete ho trovato una sua versione testuale, disponibile a questo link.

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Berlusconi e Bersani a Città del Capo

Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 20/03/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel 1995, il nuovo Sud Africa nato sulle macerie della segregazione razziale provò ad uscire dagli anni bui dell’oppressione violenta della minoranza bianca sulla maggioranza nera anche attraverso la singolare esperienza politica, giuridica e umana della Commissione per la Verità e la Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, di seguito TRC).
La TRC aveva fra i suoi compiti quello di promuovere la comprensione reciproca fra i sudafricani, ricostruendo in modo fedele e completo le cause e gli episodi di violazione dei diritti umani in Sud Africa a partire dal 1960. Un aspetto importante del lavoro della TRC riguardò la facilitazione della concessione dell’amnistia a coloro che, responsabili di atti di violenza politica e istituzionale, dichiaravano pubblicamente le loro responsabilità, anche di fronte alle vittime.
La concreta attività e i risultati della TRC sono stati inevitabilmente oggetto di critiche anche feroci (alcuni bianchi l’hanno ritenuta poco più di una pagliacciata) o amare (molti neri ritennero che le amnistie concesse siano state troppe e non sempre giustificate). Tuttavia, al netto della prudenza e dell’equilibrio sempre necessari quando si esamina un’esperienza umana, le idee alla base dell’istituzione e dell’operato della TRC esercitano su di me un fascino notevole e mi hanno sempre suscitato un sentimento di grande rispetto.
In questi giorni di dibattito politico post-elettorale in vista della formazione del nuovo governo, perciò, è stato quasi con la sensazione di mescolare il sacro col profano che tante dichiarazioni dei nostri politici mi hanno fatto pensare alla Commissione stessa. O meglio, mi hanno fatto pensare a come i nostri esponenti politici stiano seguendo una strada diversa, per non dire opposta, a quella indicata alla TRC dalla sua legge istitutiva.
L’Italia è un paese in grande difficoltà sociale ed economica, lo Stato versa in condizioni gravi. Tutto ciò non nasce dal nulla e, soprattutto, è dovuto (anche) alle persone che negli anni fino a qui hanno concretamente gestito le nostre istituzioni politiche e amministrative. Quelle stesse persone ci parlano oggi di futuro e di programmi in otto, dieci e quanti mai altri punti. Il passato per loro sembra non esistere e non è ancora accaduto, perlomeno a me, di ascoltare un’ammissione piena delle proprie responsabilità. Se l’ascoltassimo potremmo, forse e con prudenza, concedere nuova fiducia ai vecchi politici e ai loro partiti. Invece, ciò non è ancora accaduto e, per quel che posso ritenere ascoltando i discorsi di questi giorni, non accadrà. E poco mi incoraggiano a essere meno pessimista le iniziative oggi spacciate per azione incisiva contro gli sprechi della politica. In assenza di un’ammissione leale delle proprie responsabilità, infatti, mi sento autorizzato a non vedere un’azione coerente e convinta là dove c’è uso del bilancino del farmacista per dimensionare al minimo indispensabile le misure da concedere al cosiddetto Paese reale per permettere di rimanere in sella a coloro che hanno fatto impantanare il cavallo.

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