Capire la risata

Sophia Loren

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 17/08/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra i non addetti ai lavori, il principale motivo per leggere i libri sull’umorismo sono gli esempi, cioè le barzellette utilizzate per spiegare questo o l’altro meccanismo che innesca la risata. Qualche bel motto di spirito non manca neppure nel volumetto Psicologia dell’umorismo (di Alberto DIONIGI e Paola GREMIGNI, Roma, Carocci, 2010, pp. 125) ma non è per questo che si può consigliarne la consultazione.
In poco più di un centinaio di pagine i due autori forniscono un quadro completo, sebbene sintetico, dello stato dell’arte riguardo alle ricerche sull’umorismo. Nei quattro capitoli del libro, così, troviamo riepilogate le notizie sulla fisiologia della risata, le teorie che hanno tentato di spiegare che cosa e perché suscita il riso, di quali funzioni sociali è stato accreditato l’umorismo e, infine, le ricerche sugli effetti dell’umorismo sulla salute umana.
Il quadro che ne risulta è quello di un fenomeno non ancora definitivamente spiegato e per il quale le molte teorie proposte, a lettura ultimata, appaiono spesso tanto valide quanto parziali.
Peraltro, la situazione si presenta diversa nei differenti campi di indagine. Le numerose idee presentate nel terzo capitolo (sulle funzioni sociali dell’umorismo) si risolvono in un elenco di possibilità che potrebbe essere completo ma che, alla fin fine, si limita a enumerare, senza riuscire a spiegarle, tutte le possibili funzioni sociali dell’umorismo. Uno scavo più efficace, invece, sembra quello dovuto alle indagini riassunte nel secondo capitolo, dedicato al riepilogo delle spiegazioni via via tentate (e lo si è iniziato a fare secoli fa) per capire perché un fatto, una frase, una situazione modifichino il nostro essere al punto da originare la risata.
Fra le teorie più accreditate (accanto a quella “del sollievo” e a quella “della superiorità”) ne ho trovata una, detta “dell’incongruità”, che corrisponde a certe mie, assai empiriche, riflessioni su che cosa provochi la risata. Secondo questa teoria, la risata si scatena a seguito dello scarto fra la situazione, come si presenta in base ai nostri schemi mentali acquisiti, e la soluzione, che getta una luce improvvisa e differente sulla situazione stessa. E nel solco dei saggi sull’umorismo, non voglio privarmi di un esempio (preso da qui, anche se non mi sono trattenuto dal modificarlo) che vorrebbe convalidare questa teoria.
Su un ramo ci sono dei pipistrelli, tutti appesi a testa in giù tranne uno che sta dritto in piedi. Due pipistrelli vicini commentano: “Sai cos’ha quello lì?”. “Non lo so. Fino a due minuti fa stava bene e poi è svenuto.”
La teoria dell’incongruità è complessa più del riassunto che ne ho appena fatto. Peraltro, dalla lettura del libro ho anche scoperto che le mie personali riflessioni mi avevano portato a pensare quella teoria ma in forma ibrida, mescolata con qualche aspetto della “teoria della superiorità”. Infatti, mi sono sempre detto che un uomo che scivola su una buccia di banana crea senz’altro incongruità, tanto maggiore quanto più il soggetto è serio, impettito o assorto. Questo da solo, tuttavia, non spiega perché la caduta ci fa ridere anziché suscitare partecipazione e solidarietà. Prima ridiamo e solo dopo, rientrati in noi, pensiamo a soccorrere. Che l’umorismo non sia disgiunto dalla nostra personale dose di cattiveria?

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Scuola di giornalismo

Testata del sito di informazione locale “fanoinforma”

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 10/08/2013 nel sito antoniomessina.it]
Da qualche tempo, nei bar della città marchigiana dove abito, accade di trovare il giornale gratuito Fano Informa. Una cosina leggera, giusto un foglio stampato sulle due facciate, cinque o sei brevi articoli di cronaca locale, qualche inserzione pubblicitaria, uno staff di redazione proporzionato al tutto (sulla prima pagina del numero che ha dato spunto a questo mio modesto scritto, due articoli a firma Jacopo Frattini e un terzo firmato con la sigla J.F.).
Tuttavia, poiché pur sempre di informazione si tratta, è stato con l’occhio di persona che si vuole informare che un paio di giorni fa, gustando un gelato, ho letto il numero di Fano Informa lasciato su un tavolino a beneficio dei clienti di passaggio.
L’articolo di apertura era dedicato al dibattito interno al Partito Democratico in vista della scelta del candidato sindaco da presentare alle prossime elezioni amministrative. Devo ammetterlo: una perla di giornalismo. Cito alla lettera i passaggi essenziali (chi volesse leggerlo per intero, lo può fare qui):
“Il partito Democratico mette in ordine le voci che in questi giorni si stanno rincorrendo a proposito della volontà di Massimo Seri di non passare attraverso le primarie.

Daniele Sanchioni, consigliere comunale del Pd, sostiene che … “A proposito delle primarie, Massimo Seri è una figura che gode della fiducia di molti e per questo motivo non dovrebbe aver paura di confrontarsi con altri candidati”.

Enrico Nicolelli … spiega che “anche io ho sentito del pensiero di Massimo Seri di voler saltare le primarie. Si tratta di una persona stimata e conosciuta ma, come Partito Democratico, non possiamo essere prigionieri delle decisioni di un’ unica persona. La sua è una legittima fuga in avanti, che potrebbe anche essere presa in considerazione ma solo in un secondo momento.”

Da parte sua, il segretario Stefano Marchegiani smentisce la presunta volontà dell’attuale assessore provinciale di voler saltare le primarie. “Massimo Seri a me ha sempre detto di non aver nessun problema a passare attraverso le primarie. Siamo in estate e di voci di fantapolitica se ne sentono tante”.
A questo punto, ormai definitivamente incuriosito, il lettore provvisto di livelli ordinari di intelligenza e propensione al pettegolezzo si rivolge, inevitabilmente, la domanda: e Massimo Seri, che cosa avrà da dire di tutto quello che dicono di lui? Invece, niente. Fine dell’articolo nonostante il fatto che Massimo Seri abiti a Fano e sia assessore a Pesaro, cioè a dodici chilometri da casa sua e, per dirla tutta, anche dalla sede di Fano Informa. Possiamo poi immaginare che abbia un telefono fisso e un cellulare privati, mentre è certa l’esistenza di un recapito telefonico nella sua sede di lavoro. Allora dico, senza pretesa di dar lezioni: non lo si poteva chiedere a lui se ‘ste primarie le vuol fare o no?
Ecco, a volte si accusa certa stampa di non informare adeguatamente il pubblico dei lettori. Fano Informa sceglie un’altra strada: la fuga dalla notizia.

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La penna di Jonathan Swift per Bartolomeo Giachino

Bartolomeo Giachino

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 07/08/2013 nel sito antoniomessina.it]
Il 1° agosto scorso la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale. La data, a leggere le cronache, sarebbe di quelle da considerare storiche al pari del 2 giugno o del 25 aprile. Sarà. Sta di fatto che, fra mille considerazioni possibili, a me è venuta in mente sempre la solita: l’attenzione dei media è come il faro che a teatro viene detto “occhio di bue”; la luce si concentra su un punto e tutto il resto rimane in ombra. Eppure il resto c’è, concreto, vero e rilevante come l’unico oggetto illuminato.
È per questo che a volte sogno di avere la penna di Jonathan Swift, la sua impressionante capacità di mettere a nudo anche le pieghe del vivere sociale e dei personaggi che brulicano al suo interno. Già, perché sono dispostissimo ad ammettere che Berlusconi non è un cittadino come gli altri per risorse economiche, ruolo pubblico, relazioni personali, e che la sua condanna ha conseguenze che vanno al di là della pena che gli è stata inflitta e tuttavia, io credo, l’attenzione spasmodica su uno non deve farci dimenticare tutti gli altri. Mentre gli occhi sono posati su Silvio Berlusconi, infatti, centinaia di figure di secondo piano proseguono (va da sé: a spese nostre) il loro paziente e indefesso lavorio nelle pieghe del nostro apparato pubblico. Nei giorni scorsi, così, sono stato colpito dalla figura di Bartolomeo Giachino.
Dopo aver ricoperto diversi incarichi privati, che qui non interessano, Bartolomeo Giachino esordì in quelli pubblici il 31 marzo del 2005 diventando (su designazione di un’associazione di categoria dell’autotrasporto) uno dei 64 consiglieri nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL). In quello stesso giorno negli Stati Uniti d’America, fra mille polemiche di risonanza mondiale, Terri Schiavo muore dopo 15 anni trascorsi in stato di coma vegetativo, a seguito dell’interruzione, autorizzata dal Tribunale, dell’alimentazione forzata. Quattro settimane prima, in Iraq, il funzionario del SISMI Nicola Calipari era stato ucciso dal “fuoco amico” durante le operazioni di liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, vittima di sequestro.
Nel 2008 Giachino diventa Sottosegretario di Stato del Ministero dei Trasporti (quarto governo Berlusconi). È l’anno in cui il petrolio supera il prezzo di 100 dollari al barile, il Ministro Clemente Mastella si dimette dopo che sua moglie è stata arrestata, oltre cento Stati approvano il trattato contro le bombe “a grappolo”, la banca americana Lehman Brothers fallisce, la crisi delle borse brucia 450 miliardi di euro, il senatore afroamericano Barack Obama è eletto presidente degli Stati Uniti.
Nel 2009 Giachino viene nominato Presidente della Consulta Generale per l’autotrasporto e per la logistica (CGAL). La Consulta (un centinaio di persone a comporla) svolgeva più o meno le stesse funzioni del CNEL (cioè, di fatto, niente o quasi) però limitandosi al settore dell’autotrasporto e logistica. Nel resto del mondo, la Norvegia e la Svezia legalizzano i matrimoni omosessuali, un aereo francese precipita nell’oceano Atlantico con 228 persone a bordo, in Germania crolla il palazzo dell’archivio storico di Colonia, in Afghanistan muoiono 16 italiani in un attentato. In Italia, nei dintorni di Messina, 35 persone muoiono a seguito di una frana che travolge due paesi, a l’Aquila c’è il terremoto e il Governo decide di svolgere lì il G8.
Nel 2012 il governo Monti trasferisce le funzioni della CGAL al Ministero dei Trasporti e Giachino rimane senza un ufficio presso cui essere consultato. Per sua fortuna, a febbraio 2013 ci sono le elezioni ed i casi politici italiani fanno sì che lo schieramento al quale aderisce Giachino sia di nuovo al Governo. Siccome la Consulta non c’è più, e far presiedere a Giachino il nulla darebbe nell’occhio, a metà del maggio scorso il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi nomina Giachino suo consigliere personale. Incarico vago, ma pur sempre un incarico. Anche in questa veste, da un paio di mesi Giachino si sta adoperando per far assegnare alla città di Torino la sede della nuova Autorità dei Trasporti.
Ecco, tutto qui. Niente di particolarmente scandaloso, né illegale. A colpirmi è semplicemente il costante lavorio di Giachino per intercettare una poltrona di seconda fila. Nel mondo e in Italia succede di tutto, ma lui non dimentica quel posto nel Consiglio, la presidenza della Consulta, la casella da Sottosegretario o, almeno, l’incarico personale del Ministro. Il debito pubblico italiano stabilisce nuovi record praticamente di mese in mese ma Giachino scrive a tutti: ministro, giornali e colleghi di partito per dare alla sua città un ente pubblico in più.
“Un giorno l’imperatore volle intrattenermi con parecchi dei loro giochi nazionali, nei quali eccellono su tutti i paesi che ho conosciuto, sia nella abilità che nel fasto. Nessuno mi divertì quanto quello dei funamboli che ballavano su di un sottile filo bianco, lungo un mezzo metro e alto da terra un trenta centimetri. Su questo gioco chiedo al paziente lettore di potermi dilungare un po’.
A praticare questo esercizio sono solo quelle persone candidate a ricoprire cariche elevate o alte onorificenze della corte. Fin da giovani vengono addestrate a questa arte e non tutte sono di sangue nobile o di cultura liberale. Quando una carica di primo piano è vacante, perché il titolare è morto o è caduto in disgrazia, cinque o sei candidati alla successione presentano all’imperatore la richiesta di potere intrattenere Sua Maestà e la corte esibendosi sulla corda.
Colui che fa più salti senza cadere, ha diritto a subentrare in quella carica. Molto spesso gli stessi ministri sono obbligati a dare prova della loro bravura, per convincere l’imperatore che sono sempre in possesso della loro abilità.” (SWIFT, Jonathan, I viaggi di Gulliver).

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L’imbarazzo che procura William Stoner

John Edward Williams (1922 – 1994). Fonte immagine: The Guardian

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 26/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Per quel che mi riguarda, nove volte su dieci l’espressione “passaparola dei lettori” si risolve in un nome e un cognome precisi, precisamente quelli di mia sorella Angela. Devo ancora a lei il consiglio di lettura che mi ha portato a Stoner (Roma, Fazi Editore, 2013, pp. 332), romanzo di John Williams pubblicato per la prima volta nel 1965 e che oggi sta conoscendo una seconda rigogliosa vita.
La storia racconta un’esistenza di quelle che passano abbastanza inosservate, il protagonista non è né più coraggioso né più vile di tanti altri. Eppure, la scrittura di Williams avvolge questa medietà in una luce profondamente umana. Anche chi non si riconosce (o teme di farlo) nel protagonista, così, neppure si sente superiore a lui.
Il registro dei commenti al libro (fra i quali la recensione, scritta da mia sorella, alla quale rimando volentieri) varia dal positivo all’entusiasta, con qualche punta che reclama la qualifica di capolavoro. Appare divertente, peraltro, notare come in numerosi di quei commenti ricorra spesso una sorta di imbarazzato bisogno di giustificare (anche a se stessi) perché una vicenda così invariabilmente priva di climax e apogei narrativi sia riuscita a intrigare fino a far leggere il libro, come si dice, tutto d’un fiato. E non pretenderò di essere io a risolvere l’interrogativo.

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La nostra coscienza è più vicina del Kazakistan

Il passaporto di Alma Shalabayeva

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 21/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
So a malapena dove è il Kazakistan e non ho idea se il signor Ablyazov sia una brava persona o un farabutto, ma è degli italiani che hanno agito che ora voglio dire.
La polemica politica nata in seguito all’operazione di rimpatrio in Kazakistan della moglie di Mukhtar Ablyazov, Alma Shalabayeva, e di sua figlia Alua, e poi i commenti giornalistici che ne hanno dato conto, hanno finito per concentrarsi su quanto fossero opportune o doverose le dimissioni del Ministro dell’Interno. Fra i commenti che ho letto, tuttavia, pochissimi hanno sfiorato un aspetto che per me, invece, conta più di qualcosa.
A leggere i resoconti, nell’operazione che fra il 28 e il 29 maggio scorsi si è conclusa con il rimpatrio forzoso di una donna e di una bambina di sei anni sono stati coinvolti almeno due prefetti, sei alti funzionari e fra i 35 e i 50 (i resoconti non concordano sul numero) agenti della polizia italiana. Contando anche gli operatori di polizia e degli aeroporti meno direttamente coinvolti, si arriva facilmente a poco meno di un centinaio di persone che hanno cooperato in qualche modo ad un rimpatrio che in pochi giorni si è rivelato privo di ogni necessaria base giuridica, tanto che il Governo italiano ha revocato il provvedimento di espulsione e informato le autorità del Kazakistan che Alma Shalabayeva potrà rientrare in Italia.
Cento persone sono tante, eppure, di fronte a un’operazione che faceva acqua da molte parti, nessuna si è non dico opposta, ma neppure posta la domanda su quanto fosse corretto quello che stava facendo. Per dire: ti mandano a cercare un pericoloso latitante, trovi una bambina di sei anni, e non ti viene in mente di capire meglio quello che sta accadendo?
Io per qualche anno sono stato un “esaminatore” agli esami per la patente di guida. Il primo giorno in cui ho cominciato a svolgere questa attività, nella carta d’identità del primo candidato che esaminavo in vita mia c’erano centomila lire. Cento euro di oggi o giù di lì, nel documento di un ragazzino di diciotto anni. Quando dissi che quei soldi non mi servivano per riconoscere il candidato, la banconota fu ritirata dall’istruttore di guida che affiancava il ragazzo. Tempo dopo, al momento di rientrare in ufficio dopo un esame concluso con la bocciatura, il padre di un candidato provò a allungarmi furtivamente un po’ di soldi. Non essendoci altre persone presenti che potessero testimoniare la tentata corruzione, mi limitai a non prenderli e a alzare un po’ la voce. A un esame di revisione della patente una signora elegante si presentò accompagnata da un personaggio di quelli che “contavano”. Costui ebbe la premura di dirmi che aveva “già parlato” con un mio superiore. La signora non spiccicò parola e la bocciai. Non sono poi state pane quotidiano, ma neppure infrequenti, le richieste di far passare avanti qualche pratica. Nel modo più gentile, ho sempre rifutato.
In trent’anni e passa di lavoro per la pubblica amministrazione, insomma, qualche no l’ho detto. E pensando al caso Shalabayeva mi viene in mente che i miei piccoli no non hanno richiesto coraggio fisico né un rigore morale fuori della portata di ogni persona comune. Sì, a volte ho scontato un po’ di isolamento, altre ho dovuto perdere tempo per argomentare cose che dovrebbero essere ovvie, altre ancora può avermi infastidito che persone che dovrebbero rappresentare e garantire tutti si preoccupassero soltanto di ottenere un “favore” all’amico di turno; e tuttavia, detto francamente, quasi sempre è bastato dire no e far capire il tipo che avevano davanti.
Ammetto che, nei casi che ho citato, gli interessi in gioco non erano paragonabili alle commesse petrolifere per miliardi che legano l’Italia al Kazakistan, ma mi ostino a pensare che sarebbe bastato che una delle cento persone coinvolte sollevasse un dubbio, ponesse una domanda, addirittura obbedisse ai propri superiori e non, come pare sia accaduto, all’ambasciatore di uno Stato straniero, perché le cose andassero diversamente.
Alla fine, così, le domande che mi frullano in capo sono sempre le stesse. Che cosa fa sì che per molti sia così facile assentarsi dalle proprie responsabilità? Come è possibile che si attivino ingranaggi che coinvolgono cinque, dieci, cento o migliaia di persone senza che nessuna di queste si confronti anche con la propria coscienza?

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Nelle maglie del mio sito c’è un foro (stenopeico)

Rappresentazione del funzionamento del foro stenopeico

[Articolo pubblicato, con lievi differenze, per la prima volta il giorno 16/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Seguendo i consigli dei miei tre “angeli custodi” informatici, cioè Antonio Bonacchi, Alberto Balducci e Michele Catozzi, dall’inizio di questo mese di luglio 2013 sono tornato a avventurarmi nella rilevazione statistica degli accessi al sito www.antoniomessina.it.
La prima curiosità che mi son voluto togliere è stata quella relativa al totale giornaliero dei visitatori “unici”, cioè quante persone hanno visualizzato, di giorno in giorno, una o più pagine del mio sito.
Non mi aspettavo di sicuro grandi cifre, tuttavia la decina di persone che (in media!) passano ogni giorno da antoniomessina.it mi pare che possa giustificare la facilità con la quale ho tenuto a freno grida di gioia, salti ed altre consimili manifestazioni di esultanza.
Superata la lieve delusione, ignaro di quel che mi preparava l’avvenire, mi sono voluto togliere un’altra curiosità: quale pagina del sito aveva attirato di più l’attenzione? Un articolo del blog? Un racconto? La presentazione dell’ultima stesura del mio romanzo Un anno a Mussulmano?
Ebbene: grazie al sofisticato programma che elabora le statistiche degli accessi al sito posso rendere noto che oltre il 49% dei visitatori ci è finito cercando notizie sulla macchina fotografica a foro stenopeico. Dunque non per un mio racconto, non per un mio romanzo, non per una mia poesia e neppure per i racconti, i romanzi e le poesie scritti da altri autori che ho, con piacere, ospitato nel mio sito. No, la metà dei visitatori finora registrati è finita nel sito per errore e cercando tutt’altro che letteratura o opinioni di argomento cultural-politico. Cercava, trovandole, informazioni sulla macchina fotografica a foro stenopeico. Grazie alla pagina redatta dal mio amico Pasquale Aiello (la trovi cliccando qui) si può perfino sapere come costruirsene una da soli, usando materiali che ci si può procurare facilmente e sostenendo costi prossimi allo zero.
Smaltita la delusione e concluso l’esame delle mie statistiche, la domanda che più mi è ronzata in capo è stata questa: chi avrebbe mai detto che ogni giorno cinque o sei persone cercano informazioni sul foro stenopeico? E soprattutto: cosa mai vorrà dire “stenopeico”?

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Un fotogramma dal film The Van (1996, regia di Stephen Frears), tratto dall’omonimo romanzo, del 1991, di Roddy Doyle

[Articolo pubblicato, con lievi differenze, per la prima volta il giorno 10/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Alle elezioni politiche dello scorso febbraio un quarto degli aventi diritto ha scelto di non votare. Se esistesse un partito degli astensionisti, perciò, attualmente sarebbe la forza più consistente nel panorama politico italiano. Naturalmente è impossibile ricondurre la decisione di non votare di quasi dodici milioni di persone ad un unico denominatore. Ognuno avrà avuto le sue ragioni.
A ridosso delle elezioni mi venne da pensare che l’astensione dal voto (scelta legittima e anche da me lungamente praticata) ha una valenza positiva quando non è astensione dalla partecipazione alla vita della comunità. Non credere a partiti e istituzioni fino a decidere di non partecipare al rito stanco del seggio elettorale, cioè, ha valore culturale e sociale se si contribuisce in altra forma, e poco importa quale, alla “conversazione” e al soddisfacimento dei bisogni presenti nel piccolo o grande ambiente in cui viviamo. Altrimenti si tratta di cose diverse ma tutte ugualmente negative: indifferenza, inerzia, ignoranza.
La modesta riflessione post-elettorale mi è tornata in mente e ha trovato, secondo me, conferme dopo aver partecipato a due eventi culturali in quel di Pesaro, di assai diverse portata e partecipazione: il festival Popsophia e la sesta “Maratona di lettura” organizzata dalla Biblioteca San Giovanni.
Popsophia è un festival che nei cinque giorni della sua durata ha proposto in serie una sorta di talk show filosofico. Nella sua modalità di svolgimento tutto richiamava la televisione e i suoi programmi: le poltrone e il divano collocati sul palco; il megaschermo che ripropone le immagini di chi davanti a te ti sta parlando; il pubblico in posizione di spettatore passivo, separato, chiuso in sé stesso e nella sua isolante attività di ascolto. Stando alla mia esperienza diretta, è perfettamente credibile la notizia che Popsophia abbia richiamato in media circa quattromila persone al giorno.
Popsophia 2013 si è svolta dal 3 al 7 luglio. Il 9 seguente, invece, la Biblioteca San Giovanni di Pesaro organizzava la sua sesta maratona di lettura. La piccola condizione posta ai lettori era che il brano scelto fosse da un libro che avesse avuto una versione cinematografica. Io ho letto da Due sulla strada, di Roddy Doyle. Gli altri undici hanno variato molto: da Susanna Tamaro a Luciano Bianciardi, da Alessandro Manzoni a Dacia Maraini, da Umberto Eco a Michail Bulgakov e così via. Un’occasione piacevole, ma rimane il fatto che abbiamo letto in dodici, e poco più ad ascoltare e basta.
Ovviamente, pur trattandosi di due eventi entrambi di carattere culturale, non è neppure immaginabile una realtà rovesciata, con mille persone a leggere e una dozzina ad ascoltare Marc Augé. Tuttavia rimangono significativi lo straordinario scarto numerico ed il fatto che le persone accorrano in massa dove sono soltanto spettatrici, lasciando a un’esigua pattuglia di appassionati il luogo pubblico della partecipazione.
Insomma, sono tempi difficili e non soltanto per la crisi economica che ci attanaglia. Anzi, proprio questa crisi sta evidenziando come il cosiddetto tessuto sociale sia intriso di passività, all’apparenza privo della capacità di reagire a circostanze alle quali sembra assistere come se non lo riguardassero, seduto sul divano davanti all’ennesimo programma, sempre interrotto dalla pubblicità.
Alle elezioni politiche di febbraio 2013, insomma, si astennero undici milioni di persone, alla maratona di lettura si è astenuta una città. Le due cose non c’entrano fra loro? Per me sì o, quanto meno, sono un segnale leggibile dello stato attuale delle cose. Stato che non è bello ed io, per consolarmi, ricorro ancora alle storie dei miei libri che qualche volta provo a condividere. Della mia prima maratona di lettura alla Biblioteca San Giovanni ci sono tracce in Rete. Non sono quel che si definisce un fine dicitore, ma il testo supera i miei inciampi.
Buon ascolto, e buon futuro.

Antonio Messina legge, non bene ma con sincera riconoscenza per l’autore del romanzo, l’incipit de Il profumo, di Patrick Süskind
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Enrico Letta nel furgone

[Articolo pubblicato con lievi differenze per la prima volta il giorno 04/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
In un gradevole libretto di Alan Bennet, da me sfogliato ormai dieci anni fa, lessi con grande divertimento questo passaggio:
“Sapevo che aveva investito dei soldi presso la Abbey National, i cui dépliant multicolori mi arrivavano periodicamente con la posta, pieni di famigliole felici che varcano la soglia della loro casa per cominciare una beata vita di mutui.” (BENNET, Alan, La signora nel furgone, Milano, Adelphi, 2003, p. 76)
La Abbey National è una banca inglese specializzata nei mutui immobiliari. Per qualche anno operò anche in Italia e, a dirla tutta, uno dei due motivi per cui il passo di Bennet mi divertì era che anch’io (prima che nascesse Banca Etica!) mi ero indebitato con la Abbey. Il secondo motivo era l’immagine evocata. Si tratti di mutui, finanziamenti o cessioni del quinto dello stipendio, infatti, le foto che appaiono nei pieghevoli pubblicitari delle società finanziarie mostrano sempre persone o addirittura famiglie intere inspiegabilmente felici, con denti bianchissimi mostrati fino ai molari, per il fatto di essersi indebitate un altro po’.
Il passo di Bennet è riaffiorato alla mia memoria dopo aver letto le reazioni entusiastiche del Presidente del Consiglio Enrico Letta alla notizia che l’Unione Europea considererà (parola di José Barroso, Presidente della Commissione Europea) “di consentire deviazioni temporanee del deficit strutturale dal suo percorso verso l’obiettivo di medio termine”. Tradotto: a certe condizioni, gli Stati potranno spendere soldi per realizzare investimenti pubblici con impatto provato sulle finanze pubbliche.
Premesso quanto sopra, sono qui a chiedere aiuto a chiunque sappia darmelo rispondendo a queste domande:
1) Enrico Letta lo sa che il debito pubblico italiano ha superato i 2.041 miliardi di euro?
2) Enrico Letta ha capito che quando si parla di “impatto provato sulle finanze pubbliche” si intendono investimenti che migliorino lo stato delle finanze pubbliche e non certo, per esempio, la spesa senza ritorno per l’acquisto di navi e bombardieri militari?
3) Enrico Letta, si tratti di comprare aerei da caccia, traforare la Val di Susa o, con inspiegabile rigurgito di buon senso, migliorare l’efficienza energetica degli edifici, è a conoscenza del fatto che per spendere soldi bisogna averne? (vedi quesito 1)
4) e soprattutto: in una situazione come quella dell’Italia, si può sapere che cosa ha da ridere Enrico Letta?
Attendo risposte, grato in anticipo a chi vorrà darmene.

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Restare umani per non morire soli


Una delle cartoline distribuite clandestinamente dai coniugi Hampel. Il testo tradotto è: “Stampa libera! Lontani dal miserabile sistema di morte di morte di Hitler! Il soldato di basso rango Hitler e la sua banda ci stanno precipitando nell’abisso! A questa banda Hitler Göring Himmler Goebbels dovrebbe essere concesso lo spazio per morire nella nostra Germania!
Nota: l’espressione “lo spazio per morire” allude all’idea nazista di “spazio vitale”, premessa della politica espansionistica tedesca degli anni Trenta e Quaranta del Noivecento

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 03/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Mentre il debito pubblico italiano stabilisce un nuovo record di mese in mese (e il record, va da sé, è negativo, con l’ultimo dato diffuso da Banca d’Italia che lo quantifica in 2.041,3 miliardi di euro) trovo ancora la forza di dedicarmi con passione alla lettura. Ed è ancora Hans Fallada a regalarmi un libro di intensità e verità commoventi.
Ognuno muore solo (Palermo, Sellerio, 2010, pp. 740), ispirandosi alla vicenda reale dei coniugi Otto ed Elise Hampel, racconta la storia di Otto Quangel e sua moglie Anna, una coppia tedesca che perde il figlio militare nella Seconda Guerra Mondiale. Il dolore innesca una presa di coscienza più umana che politica rispetto all’insensatezza della guerra, all’inutilità del sacrificio di tante vite imposto dal regime nazista. La reazione emotiva e morale dei due coniugi si incanala in una singolare, modesta, ma comunque rischiosa forma di resistenza: lasciare in vari punti della città delle cartoline postali contenenti critiche al regime e incitamenti a contrastarlo.
La semplicità, il tono e la pulizia dello stile di Fallada finiscono quasi col mascherare la grandiosità della vicenda, la grandezza dei suoi protagonisti e la ricchezza dell’affresco disegnato dallo scrittore, rischiando di non far capire che ci troviamo di fronte a un libro che, se non è un capolavoro, è molto vicino ad esserlo.
Fallada (che in questo mi ha ricordato il miglior Simenon) descrive precisamente gli stati d’animo dei personaggi, è credibile quando racconta come essi modifichino il loro abito mentale, è vero (oltre che verosimile) quando ci mostra come, alla fine di tutto, anche il cambiamento più profondo non può farci sfuggire del tutto a noi stessi, alla nostra natura più intima e radicata. Nell’epilogo tragico del racconto di Fallada, così, lo straordinario e commovente resoconto degli ultimi pensieri di Otto Quangel prima di essere decapitato mi ha ricordato uno degli sguardi cinematografici che più si sono impressi nella mia memoria: quello di Donald Sutherland (nel film: Benjamin du Toit) alla fine del film Un’arida stagione bianca, drammatica storia nel Sud Africa ai tempi della discriminazione razziale. Sia le pagine di Fallada, sia l’interpretazione di Sutherland, infatti, raccontano con efficacia emozionante la necessità interiore che alcuni esseri umani hanno di rimanere umani anche quando intorno tutto è malvagità. Ma raccontano anche, con duro realismo, come quella necessità interiore possa rendere quasi incapaci di considerare l’ipotesi che per altri esseri umani sia diverso. E questo, quando si tratta di combattere, colloca inevitabilmente in una posizione svantaggiosa.
(Nota editoriale: aigredoux.it riconosce i diritti sull’immagine a corredo di questo articolo, prelevata a questo URL: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Hampel_postcard.jpg)

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Il pubblico televisivo del Movimento 5 Stelle

Il deputato pesarese Andrea Cecconi

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 25/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
In due articoli apparsi in questo mio blog ho considerato, interrogandomi sulla loro reale efficacia, due idee (l’impignorabilità della prima casa e la cittadinanza per nascita) del Movimento 5 Stelle che si sono già tradotte in altrettante proposte di legge. Con spiegabile interesse, così, lo scorso 21 giugno a Fano, nelle Marche, ho assistito a un incontro col deputato del Movimento Andrea Cecconi.
L’incontro era stato convocato per far conoscere l’attività parlamentare del Movimento 5 Stelle senza il filtro di stampa e televisione, cioè di quei media che, fino adesso, si sono occupati poco o nulla delle sue proposte e moltissimo dei toni di Beppe Grillo, delle a volte comiche incertezze nella condotta dei neo-eletti del Movimento e delle loro divisioni interne sfociate nella fuoriuscita, spontanea o forzata, di alcuni componenti dai gruppi parlamentari del M5S di Camera e Senato.
Prima dell’incontro, a tutto il pubblico era stato distribuito un volantino che citava il dato numerico (248) delle mozioni, risoluzioni, interpellanze e interrogazioni e che elencava le 22 proposte di legge presentate dal Movimento in questi primi quattro mesi scarsi di legislatura. Le proposte di legge riguardano argomenti di importanza a volte notevole e, almeno alcuni, di grande impatto potenziale sulla vita dei cittadini: dal reddito minimo garantito all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti; dalla reintroduzione del voto di preferenza all’impignorabilità della prima casa; e così via.
Andrea Cecconi mi ha fatto una buona impressione e ha risposto con grande disponibilità alle domande del pubblico. Ma scrivo questo articolo proprio per parlare del pubblico e, a dirla tutta, anche del gruppo fanese del Movimento 5 Stelle. È stato inevitabile notare infatti, sia la grande influenza che ancora hanno sul pubblico giornali e televisioni, sia che da questa influenza non riesce a sottrarsi neppure chi critica ogni giorno questi media, la loro predilezione per il pettegolezzo, il loro modo di travisare le notizie quando non di evitare affatto di darle.
Io non ho la televisione. Prima dell’incontro, trasmessi dagli organizzatori dell’incontro mentre attendevamo l’arrivo di Andrea Cecconi, mi sono dovuto sorbire tre monologhi estratti dal programma Ballarò mentre lo stesso giorno, per dire, i capigruppo del Movimento alla Camera e al Senato avevano diffuso un video con il resoconto della loro attività nell’ultima settimana. Quando ha potuto rivolgere delle domande, poi, il pubblico è intervenuto o ha chiesto chiarimenti sui toni di Beppe Grillo, sulle a volte comiche incertezze nella condotta dei neo-eletti e sulle divisioni interne sfociate nella fuoriuscita, spontanea o forzata, di alcuni componenti dai gruppi parlamentari del M5S di Camera e Senato.
L’agenda dell’incontro, a farla breve, l’hanno dettata più Repubblica e il TG1 che gli iscritti, i simpatizzanti e i semplici curiosi del Movimento 5 Stelle. Il che conferma di nuovo, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la strada per cambiare davvero è lunga, ripida e pure un po’ sconnessa.

Nota del 19/07/2018: A conferma della fallacia di cui possono essere vittime le prime impressioni o, comunque, di quanto possano cambiare le persone, Andrea Cecconi ha poi ripercorso in proprio lo stesso itinerario seguito dai parlamentari ex Movimento 5 Stelle e “attaccati ai soldi” che criticò nell’incontro di cui parlo nell’articolo. In particolare, diversamente da come si era impegnato a fare, si scoprì che Cecconi simulava soltanto la restituzione (a cui si erano impegnati i parlamentari del Movimento 5 Stelle) di una parte dell’indennità percepita come parlamentare. Poiché la cosa emerse dopo che già erano state depositate le liste elettorali, Cecconi si impegnò a dimettersi in caso di elezioni, dimissioni che poi non ha presentato preferendo rimanere parlamentare e sparire dai radar dell’informazione, intascando l’indennità e guadagnando, in caso di legislatura di durata completa, quanto non avrebbe mai potuto col suo lavoro da infermiere.
Nel momento in cui scrivo questa nota, Andrea Cecconi è deputato, membro della XII Commissione Affari sociali della Camera, iscritto al gruppo parlamentare Misto – Movimento Associativo Italiani all’Estero.

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Prima che se ne vada

Nelson Mandela (1918 – 2013)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
È di questi giorni la notizia di un aggravarsi dello stato di salute di Nelson Mandela. Citando un amico di Mandela, un quotidiano sudafricano ha titolato: “È tempo di lasciarlo andare”. Prima che se ne vada, e prima dei fiumi d’inchiostro che saranno versati alla sua morte, vorrei scrivere io appena un paio di cose.
Mandela è l’uomo dell’uscita pacifica dagli anni bui della segregazione razziale in Sud Africa. A un tale esito, tanto mirabolante quanto non scontato, è arrivato attraverso un percorso che ha sempre preteso il riconoscimento della verità. Col nemico si può anche trattare, ma il nemico deve riconoscerti come interlocutore alla pari.
Di Mandela si ricordano sempre i ventotto anni di detenzione, ma mai che fu a capo dell’Umkhonto we Sizwe, la formazione armata di fiancheggiamento dell’African National Congress. Mai un attentato contro le persone, ma molti contro strutture e installazioni.
Di Mandela si ricorda il premio Nobel condiviso col presidente sudafricano Frederic de Klerk, ma mai che la sera, a un ricevimento con oltre 150 fra capi di stato o di governo e diplomatici, Mandela riferì i dettagli più orribili su ciò che veniva fatto ai prigionieri del carcere di Robben Island, compreso l’interramento fino al collo, con le guardie che poi urinavano sulla testa del prigioniero. E dopo aver riferito queste cose, Mandela concluse: “Ecco, qui ci sono le persone che rappresentavano quel sistema”. La mattina, ricevendo il premio, de Klerk aveva ricordato che c’erano stati “errori da entrambe le parti”.
Mandela ha saputo guardare avanti senza dimenticare. Ogni perdono è forse possibile ma, sempre, se si rinuncia a mistificare, ammettendo ciò che si è fatto e ciò che si è stati.

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La gente comune che sterminò gli ebrei

Soldati tedeschi tagliano i capelli a un ebreo prigioniero nel campo di concentramento di Bergen-Belsen

[Articolo pubblicato, in forma quasi identica, per la prima volta il giorno 16/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
A distanza di 17 anni dalla sua prima uscita negli Stati Uniti, e di 16 dalla pubblicazione in Italia, ho letto anch’io I volonterosi carnefici di Hitler (Milano, Mondadori, 1997, pp. 636) di Daniel Jonah Goldhagen, un saggio divenuto celebre per le conclusioni, di cui dirò più avanti.
L’opera di Goldhagen esamina la vicenda dello sterminio degli ebrei fra il 1941 ed il 1945 da un’angolazione particolare. Secondo le stime più prudenti (forzatamente approssimative) in quel breve periodo i tedeschi (non sempre da soli) sterminarono oltre cinque milioni di ebrei. Un’operazione di tali dimensioni doveva necessariamente coinvolgere un numero elevatissimo di persone, direttamente o indirettamente. Dunque, posto che la teorizzazione dello sterminio e la sua organizzazione sono imputabili ai vertici dello stato e del partito nazista, la sua realizzazione pratica richiese e trovò la collaborazione attiva di migliaia di tedeschi comuni.
Dopo che molti si erano dedicati a studiare come e perché vennero dati gli ordini, così, Goldhagen prova rispondere alla domanda forse più drammatica: perché migliaia di persone ordinarie, operai, impiegati, padri di famiglia, si resero disponibili a eseguirli? Una domanda che diviene ancora più ingombrante quando si osserva, come risulta dalle ricerche di Goldhagen, la varia estrazione sociale degli esecutori materiali dell’Olocausto, il fatto che per la maggior parte non fossero neppure iscritti al Partito Nazionalsocialista, o la circostanza che le squadre incaricate degli eccidi fossero formate da volontari (una circostanza che appare più gravida di significati quando si apprende che, a quanto risulta, si poteva chiedere l’esenzione da quel tipo di missioni senza dover subire particolari conseguenze).
Le fonti per una ricerca del genere sono in buona parte rappresentate dalla documentazione deliberatamente omissiva degli organismi incaricati dello sterminio, dalle dichiarazioni degli imputati nei processi del dopoguerra (ovviamente mirate anche a limitare la portata e la consapevolezza delle proprie azioni), oltre che dalla pubblicistica dell’epoca. Goldhagen si muove su tale terreno sconnesso cercando di colmare deduttivamente le lacune informative mantenendo coerenza e igore interpretativo. Le sue conclusioni sono che nella Germania nazista si combinarono in modo unico questi elementi: l’antisemitismo eliminazionista che permeava l’opinione pubblica tedesca; la presa del potere da parte di un partito che fin dalla sua nascita aveva dichiarato la sua ferma volontà di risolvere la “questione ebraica”; la presenza della condizione materiale necessaria, cioè il controllo militare su un’area vasta dell’Europa e, conseguentemente, sui milioni di ebrei lì residenti.
Fra le molte annotazioni del libro, qui, per le riflessioni che può suscitare anche rispetto all’oggi, ricordo soltanto quella relativa alla percezione degli ebrei da parte della gente comune. Tale percezione fu il risultato di una propaganda secolare dato che la furia nazista seguì temporalmente le invettive religiose, tanto della chiesa cattolica quanto di quella protestante. Ma una “questione ebraica”, semplicemente, non esisteva. Tuttavia, sebbene in molte città e villaggi gli abitanti non avessero neppure mai visto degli ebrei, questi erano ritenuti responsabili di ogni nefandezza, portatori di minacce mortali al popolo tedesco. Questo approccio totalmente irrazionale fu la premessa di scelte altrettanto irrazionali fra le quali risaltano, per la loro insensatezza rispetto al contesto dato da una guerra ormai conclusa e perduta, le “marce della morte” con le quali migliaia di ebrei furono condotti senza meta per la Germania, al solo scopo di farli morire di fame e di stenti. L’ultima di queste marce cominciò il 7 maggio 1945, neppure 24 ore prima che il feldmaresciallo Keitel firmasse la resa incondizionata della Germania.
Ogni sintesi, naturalmente, non rende piena giustizia ad un saggio di oltre 600 pagine, nel quale l’autore si impegna ad argomentare ogni affermazione. A lettura ultimata, rimangono la certezza che il libro aiuti a capire e la sensazione che per noi, uomini comuni e di comune buon senso, l’Olocausto rimanga una realtà incomprensibile.

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