I vivi e i morti

La scrittrice canadese Alice Munro, Premio Nobel 2013

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 02/01/2014 nel sito antoniomessina.it]
La più grande narratrice vivente del Nord America”. Questo lapidario giudizio di Jonathan Franzen è riportato sulla copertina di Nemico, amico, amante (Einaudi, 2003, pp. 315), raccolta di racconti della scrittrice canadese, e recente premio Nobel, Alice Munro. Lungi dal condizionare il formarsi della mia opinione (Nemico, amico, amante è il primo libro della Munro che ho letto in vita mia), le parole di Franzen mi hanno fastidiosamente solleticato. Perché ha sentito il bisogno di specificare “vivente”? Se la Munro, e sia chiaro che non glielo auguro, morisse di qui a poco, diventerebbe la più grande narratrice defunta? Oppure fra i defunti (beninteso: narratori del Nord America) c’è qualcuno più grande di lei? Purtroppo, fra i narratori (italiani) defunti dobbiamo annoverare Achille Campanile che, su domande del genere, sarebbe stato capace di scrivere pagine memorabili.
Comunque sia, Nemico, amico, amante. Si tratta di nove lunghi racconti che esprimono al meglio questa forma di narrazione che, per generare un’esperienza di lettura intensa, deve esaltare il dettaglio che racchiude l’insieme. A volte si tratta di istantanee, a volte di brevi sequenze che descrivono un momento di passaggio, una debolezza che ci impedisce di passare il guado, la rassegnazione a cui ci costringe l’occasione perduta, i dubbi a cui ci porta l’occasione che abbiamo colto. Insomma, le esperienze che possono far parte della vita di molte persone, per non dire di tutte.
Pur molto diversi fra loro, dei nove racconti ho preferito quello d’apertura (“Nemico, amico, amante”, che dà il titolo alla raccolta) e l’ultimo, “The bear came over the mountain”. Il primo è decisamente umoristico, con uno scherzo adolescenziale che ha conseguenze impreviste e a lungo termine. “The bear came over the mountain” (cioè: l’orso attraversò la montagna), invece, è il toccante, a volte duro, racconto della malattia mentale di Fiona e di come suo marito Grant si confronti con gli sviluppi impensati della situazione.
Nemico, amico, amante è senz’altro da leggere. Tuttavia, a lettura ultimata ho pensato che nessuno dei nove racconti raggiunge bellezza e intensità di quello che, ad oggi, rimane il mio racconto preferito in assoluto, cioè “I morti”, in Gente di Dublino, di James Joyce. Il più grande narratore defunto dell’arcipelago britannico.

James Joyce (1882 – 1941)
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MIchele Serra fra sdraiati e sdraio

Michele Serra

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 27/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra i libri che ho ricevuto per Natale era in qualche modo inevitabile che ci fosse Gli sdraiati di Michele Serra (Feltrinelli, 2013, pp. 108). Inevitabile perché l’autore ha deciso di dedicare il suo ultimo libro al rapporto genitori-figli visto a partire dalla sua esperienza che, in effetti, ha più di un punto di contatto con la mia: essere un padre di oltre cinquant’anni (in effetti, Serra ne compirà 60 il prossimo anno, dunque sei più di me), con un figlio di meno di 20 (mia figlia ne compirà 18 fra non molti mesi) caratterizzato in modo non singolare (nel senso che a quei comportamenti è attribuita valenza “generazionale”) dall’essere disordinato, pigro, trascurato e incapace di cogliere la differenza fra un un gesto concluso e un gesto incompleto (tipicamente: che la cosa è fatta non quando si è finito di mangiare ma quando il piatto è tolto dalla tavola, pulito delle eventuali scorie più grosse e riposto nella lavastoviglie). Le somiglianze fra me e Serra, però, temo che si esauriscano in questi dati superficiali.
Partendo dall’osservazione stralunata dei comportamenti del figlio (e di una sua amica che finisce nel campo di osservazione) Serra li registra alternando ironia e preoccupazione. Una camminata in montagna, in un luogo della memoria, diventa l’occasione proposta insistentemente al figlio per ricercare una condivisione di esperienze e, di conseguenza, un nuovo legame che permetta poi di passare il testimone. Quando la camminata avviene, col figlio poco allenato e che la affronta con le scarpe sbagliate, dopo un po’ Serra si accorge di essere rimasto indietro. Il figlio lo ha staccato per scollinare da solo, perso alla vista del padre che, da questo, conclude di poter finalmente diventare vecchio.
L’idea di Serra, sembra, è che noi genitori critichiamo i figli perché non sono giovani nello stesso modo in cui lo siamo stati noi, ma che loro sapranno cavarsela bene lo stesso. Personalmente, parlando da padre, ritengo questa tesi tanto consolatoria quanto auto-assolutoria. Consolatoria perché, nella mia pur modesta esperienza, ciò che noto è che le nuove abilità di cui sono provvisti oggi i giovani, alla fin fine, si riducono all’uso delle nuove tecnologie. In questo non rilevo passi avanti per due motivi: quando noi genitori avevamo l’età dei nostri figli, quelle tecnologie, semplicemente, non c’erano e perciò è stupido fare confronti; in secondo luogo, le stesse abilità non si stanno aggiungendo alle nostre ma le rimpiazzano, anche se quelle “vecchie” rimangono necessarie. Il risultato è che, se per qualche motivo va via la corrente elettrica, nessuno o pochissimi giovani sarebbero in grado di svolgere una ricerca, risolvere un problema, reperire un’informazione.
L’auto-assoluzione risiede nel dire che sì, magari non siamo riusciti a trasmettere (o, almeno, a raccontare) la nostra esperienza, però poco male: sono giovani e forti e sapranno percorrere la loro strada, perciò noi padri possiamo rimanere sulle sdraio a leggere e prendere il sole ammirando il panorama.
Io sono affezionato al significato letterale della parola educare. Viene dal latino ex ducere, condurre fuori. È una parola bellissima che comprende tutto: il senso del viaggio, l’aiuto a crescere, il rispetto dei tempi di ciascuno (“si accompagna” e non “si trascina”), il fatto che “fuori” il mondo è grande e ciascuno sceglierà poi dove andare. Ma non ci si può sottrarre al ruolo: il genitore è colui che, fin quando è necessario, come minimo racconta che c’è un “fuori” formato dalle nostre attitudini, dalla relazione con gli altri, dal nostro essere sociali nel modo che più ci è congeniale.
Checché ne dica Serra, insomma, sono convinto che una prossima edizione degli Sdraiati, dopo il finale attuale avrebbe una pagina in più, quella dove si racconta che il figlio si è ritrovato con le vesciche ai piedi e che il padre è dovuto andare in farmacia.

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Un Natale kaizen

Il marchio della Banca del Cibo per la città di New York

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 23/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel mio articolo del 20 dicembre sostenevo che l’inefficienza è dannosa quanto la corruzione dei funzionari e la voracità dei partiti. Subito dopo aver scritto quell’articolo, il caso ha voluto che m’imbattessi in una notizia che parla proprio di efficienza e che, visto il periodo, mi ha toccato come una commovente storia di Natale. Forse ci vuole un po’ di fantasia, dato che al posto di slitta, renne e anziano corpulento con barba bianca e giubba rossa che parte dal Polo, abbiamo una multinazionale giapponese dell’automobile che agisce a New York. Inoltre, la notizia è di qualche mese fa. Tuttavia, è davvero più bello immaginare il tutto mentre la neve fiocca, anziché sotto il sole estivo che c’era quando fu riportata dal New York Times.
La Food Bank for New York City è il più grande ente benefico degli Stati Uniti a occuparsi dell’assistenza alimentare ai poveri; eroga circa un milione e mezzo di pasti all’anno; è sostenuto da una serie di finanziatori: dalla Bank of America alla squadra di baseball dei New York Yankees, fino alla Toyota. Tutti staccano assegni più o meno generosi ma, un bel giorno, alla Toyota viene in mente il kaizen, cioè il metodo organizzativo il cui nome viene normalmente tradotto con l’espressione “miglioramento continuo”. Così Toyota propone alla Food Bank una donazione diversa dal solito: anziché soldi, un po’ di tempo dei loro ingegneri.
Dopo qualche perplessità, Food Bank accetta e gli ingegneri si mettono al lavoro. Il punto di partenza è un’attesa media di un’ora e mezza per ricevere il pasto. Il punto a cui si arriva è un’attesa di 18 minuti grazie a tre accorgimenti:
anziché far entrare le persone a gruppi di dieci, le si fanno entrare via via che si libera un posto in mensa;
la zona dove si attende il proprio turno è spostata più vicino alla linea di distribuzione dei pasti;
nelle ore di distribuzione dei pasti, un incaricato di Food Bank ha il compito esclusivo di verificare via via la disponibilità di posti, segnalandola subito alle persone in attesa.
Piccole cose, come si vede, ma che hanno prodotto una conseguenza positiva sproporzionata, in meglio, rispetto alla dimensione apparente delle decisioni: ogni persona aspetta un quinto del tempo che impiegava prima, Food Bank riesce a erogare molti più pasti.
Non si deve mai pensare alla strada tutta in una volta, tutta intera, capisci? Si deve soltanto pensare al prossimo passo, al prossimo respiro, al prossimo colpo di scopa. Sempre soltanto al gesto che viene dopo … Allora c’è soddisfazione; questo è importante, perché allora si fa bene il lavoro. Così deve essere.” (ENDE, Michael, Momo, Milano, Longanesi, 1984).

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Se moltiplicando

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 20/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
L’ultimo dato fornito dalla Banca d’Italia riferisce del nuovo massimo storico raggiunto dal debito pubblico dello Stato italiano: a ottobre 2013 siamo arrivati a 2.085.321.000.000,00 euro, una cifra che, scommetto, avrete perfino difficoltà a leggere. Per riportarla a un livello comprensibile, diciamo che ogni italiano si trova sul groppone 35mila euro di passivo sul suo conto personale di cittadino. Di fronte a tali cifre, una delle domande più spontanee è: come si è potuti arrivare a tanto?
Come per molti fenomeni di ampia portata, penso che l’approccio corretto sia quello che evita risposte semplicistiche e, più ancora, risposte univoche. Una sola causa, difficilmente avrebbe potuto scatenare effetti tanto disastrosi e duraturi nel tempo come quelli concretizzati dall’enorme debito dello Stato italiano.
Un’opinione diffusa colloca l’origine di quel debito nella corruzione e negli appetiti dei gestori della cosa pubblica, prima di tutto i partiti. Esperienze comuni, vox populi e vicende giudiziarie conferiscono fondatezza a quell’opinione ma trascurano, a parer mio, altri due fattori di uguale se non maggiore importanza. Mi riferisco alla solidità morale e alla robustezza professionale dei decisori. Ci si potrebbe scrivere sopra un saggio, provo a cavarmela con l’esempio di una vicenda che ho dovuto seguire direttamente, dato che ha accompagnato la mia vita professionale.
Alludo alla gestione dell’Albo degli autotrasportatori. Questa gestione, fino al 2001 era affidata alla Motorizzazione Civile. Nel 2002, uno fra i topolini partoriti dalla montagna del federalismo all’italiana fu il passaggio di quella gestione alle Province. In questi giorni, la Legge di stabilità per il 2014 la sta restituendo alla Motorizzazione.
Premesso che ogni scelta può essere argomentata e legittima, mi limito a constatare che questo palleggio significò nel 2001 un mare di circolari, decisioni, trasferimenti (di personale, documenti, risorse finanziarie) e predisposizione di strumenti di lavoro (informatici e non) senza contare l’istituzione di uffici, posti dirigenziali e incarichi vari. Nel prossimo futuro, nonostante la Legge di stabilità 2014 affermi “coraggiosamente” che la restituzione dell’Albo alla Motorizzazione avverrà senza oneri per lo Stato, si verificheranno esattamente gli stessi fenomeni, ma nella direzione inversa a quella del 2002. E tutto ciò, si badi bene, per dare agli autotrasportatori sempre esattamente lo stesso servizio.
Ecco, secondo me, una fetta della cifra che abbiamo visto all’inizio viene anche da vicende come questa dell’Albo. Una vicenda minuscola rispetto al mare del debito pubblico e tuttavia, parafrasando Mina, se moltiplicando io potessi calcolare le risorse sprecate con le migliaia di decisioni irrazionali e costose, ho l’impressione che avrei individuato una causa di quel debito che, con gni probabilità, può stare al pari della corruzione e della affermata voracità dei partiti.
P.S.
Per semplificarvi la vita: il debito pubblico ha superato i duemilaottantacinque miliardi di euro.

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Mio caro Jonathan, è stato bello ma …

Jonathan Coe

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 11/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Lo straordinario credito acquisito ai miei occhi da Jonathan Coe con La famiglia Winshaw mi ha poi spinto a leggere via via, con insistenza da innamorato, Questa notte mi ha aperto gli occhi, La casa del sonno, La banda dei brocchi, Circolo chiuso, La pioggia prima che cada, I terribili segreti di Maxwell Sim e finalmente (lettura conclusa pochi giorni fa) il recente Expo 58 (Milano, Feltrinelli, 2013, pp. 280). Quest’ultimo libro passerà alla mia storia di “lettore forte” come la classica goccia che fa traboccare il vaso. Infatti, se nessuno dei sei romanzi pubblicati da Coe dopo La famiglia Winshaw ne raggiungeva le vette stilistiche e di contenuto, Expo 58 è quello che più di tutti meriterebbe la qualifica di bidone.
La storia è insulsa, alcuni movimenti della trama sono di una banalità sconcertante. Per dire: il protagonista inglese vive un matrimonio privo di slanci e passione. Inviato in missione a Bruxelles per l’Esposizione Universale, viene accolto da un’avvenente hostess belga. Ebbene, tenetevi forte perché Coe risolve la situazione in modo geniale: i due finiscono per diventare amanti. Ma il protagonista è insulso come il libro che lo ospita e, dopo aver ondeggiato fra la belga e un’americana, ritorna al focolare domestico. Dopo alcuni decenni, vedovo, torna in Belgio e da un’amica comune viene a sapere che dall’unica appassionata notte d’amore con la belga è nata una figlia. L’intrigante vicenda si svolge intrecciando i suoi eventi con quelli legati alla gestione del pub Britannia, un locale che ricrea, all’interno del padiglione inglese ell’Expo, una tipica birreria britannica che, come il protagonista sarà costretto a scoprire, diventa il teatro di una lotta sotterranea fra i servizi segreti inglese e americano contrapposti a quello russo. Sotto i profili dell’originalità e della capacità di avvincere il lettore, la vicenda spionistica si colloca giusto mezzo gradino sopra quella sentimentale.
Così, dopo aver preso ben sette batoste in cambio di un unico capolavoro, penso proprio che lascerò Coe al suo destino. Devo anche dire che non amo e non ho intenzione di dedicarmi alle stroncature. Così, questo breve articolo non è altro che una lunga premessa all’invito a leggere (o rileggere) La famiglia Winshaw, il romanzo in cui l’innegabile talento narrativo di Coe si salda con una varietà di registri, una coerenza delle parti e, oserei dire, un valore civile mai ripetuti nei successivi romanzi.

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6 dicembre 2013

Su Nelson Mandela ho già scritto in un paio di occasioni, l’ultima proprio nel post precedente a questo. Nel giorno della sua morte, non mi sento di aggiungere altro. L’immagine qui sotto è uno dei suoi ritratti che preferisco. Fu scattata nel 1960.

Nelson Mandela (1918 – 2013). La fotografia, scattata nel 1960, lo ritrae mentre brucia il passaporto interno imposto ai sudafricani di colore.
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Twitting Mandela

Nelson Mandela (1918 – 2013)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 17/11/2013 nel sito antoniomessina.it]
Su Twitter, il servizio di cosiddetto microblogging (possibilità di pubblicare via web testi di non più di 140 caratteri), si è già scritto molto, né pretenderò di far concorrenza a sociologi, filosofi e analisti vari aggiungendo considerazioni profonde e originali sull’argomento. Mi limiterò a esporre l’esito di una mia piccola esperienza personale.
L’interesse e l’ammirazione che nutro verso Nelson Mandela si sono tradotti, fra l’altro, nella lettura di tre libri: l’autobiografia Lungo cammino verso la libertà; la raccolta di materiale preparatorio per l’autobiografia intitolata Io, Nelson Mandela; il saggio Nelson Mandela and the Game that made a Nation, di John Carlin, dal quale è stato tratto il film Invictus, regia di Clint Eastwood, con Morgan Freeman nei panni del grande leader sudafricano. Ho visto anche il film, tre volte.
Da circa un anno sono anche un follower, appunto su Twitter, della Nelson Mandela Foundation. I tweet (cioè i micromessaggi pubblicati) della Fondazione sono sostanzialmente di due tipi. Il primo tipo contiene il ricordo di piccoli anniversari nella vita di Mandela. Cose del tipo: 15 novembre 1993 Nelson Mandela ritorna a Howick, nel KwaZulu-Natal, nel luogo dove fu arrestato nel 1962. Oppure: 13 novembre 1989 Nelson Mandela annota la sua pressione sanguigna sul calendario della sua prigione. 150/80 alle 7 di mattina, 140/80 alle 10.30 e 150/80 alle 15.30. Per chi conosce un po’ il personaggio, si tratta di cose estremamente minute ma che confermano l’idea che ci si può essere fatti di lui.
Il secondo tipo di tweet è composto da citazioni di Mandela stesso. Frasi come: “Io non ho, mai e sotto alcun riguardo, considerato le donne meno competenti degli uomini.” Oppure: “È stato detto mille e una volta che il problema non è quel che accade a una persona ma come quella persona vive quel problema.”
Ecco, il primo tipo di tweet arricchisce chi già conosce la storia di Mandela grazie ai dettagli che danno la dimensione quotidiana di una battaglia epocale. I tweet del secondo tipo, invece, finiscono per essere controproducenti, specialmente per chi dovesse farne la sua fonte primaria di informazione sulla vita e il pensiero di Mandela. Certe frasi, infatti, estratte dal contesto complesso della vita del leader sudafricano e degli anni che ha attraversato, diventano banali e, in qualche caso, rasentano addirittura il ridicolo (come: “Essere poveri è una cosa terribile.”).
È per questo che Twitter va bene, e anch’io ne faccio uso, ma se si vuole conoscere Mandela è molto meglio sobbarcarsi la piacevole fatica di leggere Lungo cammino verso la libertà, 579 pagine per raccontare una fantastica avventura umana.

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Gente indipendente

Lo scrittore islandese Halldór Laxness (1902 – 1998), premio Nobel 1955

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 09/11/2013 nel sito antoniomessina.it]
Ci sono libri talmente ricchi di senso, di sfaccettature e di livelli di lettura da rendere difficile parlarne solo in breve. Gente indipendente (Milano, Iperborea, 2004, pp. 653), dell’islandese Halldór Laxness, premio Nobel 1955, è uno di questi libri.
Scritto fra il 1934 ed il 1935, Gente indipendente ruota attorno alla storia del contadino e allevatore Bjartur, un uomo determinato tenacemente, al limite dell’ottusità, a non avere debiti di alcun genere e con nessuno. Dopo diciotto anni a servizio di persone benestanti, un piccolo podere sperduto e qualche pecora sono la sua personale vittoria, il suo regno, la sua libertà. La sua indipendenza viene prima di tutto: delle relazioni umane, delle mogli, dei figli. I pilastri su cui la fonda sono durezza d’animo e forza fisica oltre che, vien da dire, una fiducia illimitata nelle pecore, specialmente quelle della razza introdotta nel distretto dal reverendo Gudmundur.
Lo stile di Laxness alterna momenti volutamente scarni, considerazioni di taglio quasi giornalistico, qualche pizzico di ironia e pagine di intenso lirismo. In qualche passaggio, sembra di poter trovare in Laxness l’ascendenza dell’oggi acclamatissimo Jón Kalmann Stefánsson. Assolutamente strepitosi, a parer mio, i resoconti delle conversazioni fra amici, dove uno stile quasi da verbale di riunione si rivela efficacissimo nel restituire atmosfere, personalità, momenti.
Bjartur vince molte battaglie ma finirà col perdere la sua indipendenza e praticamente tutte le sue cose materiali. La Prima Guerra Mondiale, i riflessi di questa sul prezzo della carne, il modo di ragionare delle persone che cambia rapidamente al primo accenno di benessere; sono tutti fenomeni che nascono molto lontano da Sumarhus, il podere-regno di Bjartur, ma che riusciranno a travolgerne l’apparentemente inattaccabile autonomia. Ma Bjartur non è tipo da piangere sulle proprie disgrazie. Rimane lo stesso di sempre e va in un nuovo podere a far girare ancora la sua ruota. Unica, grande, differenza, la figlia ripudiata che Bjartur, vincendo il suo orgoglio, è andato a cercare per condividere un tratto di esistenza.
Scrivendo Gente indipendente, Laxness aveva presente la sua epoca e la sua Islanda. Diversi dei temi affrontati, peraltro, superano le barriere temporali perché raccontano problemi che si ripetono nella storia umana: il conflitto fra vecchio e nuovo; la divisione in classi; i turbamenti adolescenziali; la distanza fra chi detiene il potere e chi lo subisce; il sogno di orizzonti più ampi; la lealtà e il tradimento. La vicenda di Bjartur, tuttavia, va oltre le intenzioni dell’autore quando descrive origini, responsabili e conseguenze della crisi economica che finirà per travolgere tutto e tutti. Laxness, cioè, non poteva immaginare che, ottant’anni dopo la stesura di Gente indipendente, buona parte del cosiddetto Occidente si sarebbe trovata a discutere sul ruolo che banche, potere finanziario e manager che lo gestiscono hanno avuto nella crisi economica e sociale di questi anni. Una crisi della quale, non diversamente da quanto accade nel racconto di Laxness, le maggiori conseguenze ricadono su tutti tranne che su coloro che l’hanno provocata.
Gente indipendente si chiude con una frase resa splendida dal racconto che l’ha preceduta: “Poi proseguirono il loro cammino”. Lungo la strada, Bjartur è rimasto lo stesso ma forse è spuntato qualche germoglio di cambiamento. A noi, chiuso il libro, rimane da riflettere sul protagonista, certo, ma anche su di noi, su come viviamo, su come leggiamo il nostro tempo, su come ne affrontiamo le difficoltà. Dobbiamo farlo anche perché, come forse direbbe Einar di Undhirlíd, una storia è una storia, e la realtà è la realtà.

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Il negazionismo, Ruby ed Eluana

Un camera a gas

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 31/10/2013 nel sito antoniomessina.it]
Oscurata dalle polemiche sulle conseguenze della condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale, in queste settimane prosegue in Parlamento la discussione sulle nuove norme che puniranno col carcere (fino a oltre sette anni) la persona che negherà lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. A leggere i giornali, l’esito della futura votazione appare scontato nel senso dell’approvazione. Una vasta maggioranza delle forze presenti in Parlamento, infatti, si dichiara favorevole all’introduzione di questa nuova fattispecie di reato.
La “vasta maggioranza” può essere una bella cosa ma m’insospettisce sempre un poco. Inoltre, mi piacerebbe sapere quanti degli attuali parlamentari che si dispongono a incarcerare chi nega lo sterminio degli ebrei fossero alla Camera dei Deputati il 3 febbraio del 2011 per votare sulla domanda di “autorizzazione a eseguire perquisizioni nei confronti del deputato Berlusconi”. Depurando la questione dagli aspetti tecnico-procedurali, con quella votazione si doveva sostanzialmente riconoscere, o meno, che Silvio Berlusconi aveva telefonato alla Questura di Milano nell’esercizio del suo ruolo di Presidente del Consiglio al solo fine di scongiurare una crisi diplomatica con l’Egitto, crisi che si sarebbe certamente verificata se l’allora presidente egiziano Mubarak avesse saputo che sua nipote Ruby Rubacuori era in stato di fermo presso la Questura. Per la cronaca e la storia: 315 voti pro-Berlusconi, 298 contro, un astenuto. Per la maggioranza dei parlamentari, dunque, compreso quel Renato Schifani che oggi definisce “di grande civiltà” il disegno di legge sul reato di negazionismo, Ruby poteva effettivamente essere ritenuta la nipote di Mubarak.
Ma mettiamo da parte l’autorevolezza di chi ci vuole imporre che cosa pensare e veniamo senz’altro al cuore del problema. Che è, evidentemente, quello delicatissimo della libertà di opinione.
In questo mio blog, indirettamente o recensendo un libro, il tema del nazismo è affiorato già in quattro occasioni (per conferma, cercare il tag “nazismo”). Come la penso, spero che emerga chiaramente. Quanto al cosiddetto negazionismo, lo considero un triste esempio di feroce stupidità. E non mi riferisco tanto all’esito (“L’olocausto è un’invenzione dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale e degli ebrei”) quanto alle argomentazioni (se così le vogliamo definire) secondo le quali farebbe differenza che i morti siano stati tre, quattro o sei milioni; o che il contesto di guerra giustificava comunque l’esecuzione di quegli ordini. Ancora più balorde sono certe argomentazione “tecniche”, come quella secondo la quale le camere a gas dei campi di concentramento, per come erano costruite, non sarebbero state degli strumenti idonei a sopprimere i milioni di ebrei di cui si parla, e dunque lo sterminio è un’invenzione. Argomentazioni balorde perché, a prescindere dalle “perizie tecniche” sulle camere a gas, si sa benissimo che quelle furono uno solo dei molti modi usati per uccidere (o lasciar morire, che è lo stesso) gli ebrei. Del resto, è tipico del negazionismo dire che quella macchia sul tappeto è d’inchiostro e non di sangue (la qual cosa magari è anche vera) per sostenere che quello che si vede steso sul pavimento non è il cadavere di un uomo accoltellato.
Fatto sta che c’è chi pensa che lo sterminio degli ebrei sia un’invenzione della propaganda. È giusto che vada in carcere? È giusto che ci vada chi nega l’Olocausto e non chi nega l’esistenza o la gravità di altri eccidi o sostenga convinzioni più o meno strampalate?
Per qualificare precisamente le azioni umane, il diritto distingue fra il pensare di uccidere, l’istigare ad uccidere e l’uccidere davvero. E, dopo aver distinto, anche il nostro ordinamento punisce le azioni e non il pensiero. Stravolgere questa architettura, sia pure dietro il paravento dell’orrore nazista, spezza una diga di civiltà, rischiando di travolgere la libertà di espressione affidando a maggioranze politiche la decisione di che cosa è corretto pensare ad alta voce.
È per questo che la proposta di legge sul negazionismo mi ha riportato alla mente il caso di Eluana Englaro, la donna vissuta per 17 anni in stato vegetativo, morta il 9 febbraio 2009 a seguito dell’interruzione dell’alimentazione artificiale. Più esattamente, ho ricordato il Consiglio dei Ministri che il 6 febbraio del 2009 approvò (dopo una prima infruttuosa forzatura tramite un decreto legge, poi non controfirmato dal Presidente della Repubblica) un disegno di legge sul divieto di sospendere l’alimentazione e l’idratazione dei pazienti. Ebbene, anche in quel caso, oltre il richiamo accorato al valore superiore della vita, c’era il tentativo di stravolgere la complessa architettura istituzionale travasata nella Costituzione mettendo ogni peso solo sul piatto del potere esecutivo che, a colpi di maggioranza, avrebbe potuto decidere valori morali e addirittura pratiche sanitarie.
Come suol dirsi: viviamo in tempi difficili.

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Ulrich Mühe (1953 – 2007)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/10/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nell’ultimo film di Gianni Amelio, L’intrepido, presentato al Festival di Venezia di quest’anno, il pur bravo Antonio Albanese interpreta il personaggio di Antonio Pane in un modo che mi è apparso monocorde. Quale che fosse la situazione, stesso sorriso dolce, stesso tono, quasi lo stesso volume di voce.
Si può rimanere col dubbio su quanto questa modalità interpretativa sia o no il frutto di scelta consapevole, o su quanto abbiano pesato certe precedenti esperienze di Albanese che però, almeno nel caso del suo indimenticabile Epifanio, ricorrevano a un’essenzialità che aveva altre giustificazioni, altro contesto e, a mio parere, esiti ben più felici.
Fatto sta che vedendo (per la quarta volta) Le vite degli altri, il film di Florian Henckel von Donnersmarck premio Oscar nel 2006, mi è risultato impietoso il confronto fra l’interpretazione di Albanese e la strabiliante prova d’attore fornita da Ulrich Mühe (1953-2007) dando vita al capitano Gerd Wiesler.
Wiesler è uno dei tanti uomini della Stasi, l’apparato spionistico della Germania Est. Una figura grigia e senza slanci come il palazzo in cui vive, un alveare anonimo, contenitore di tristezze e paure. Paradossalmente, a generare un impulso di ribellione è proprio la fede sincera nel regime spietato che sta servendo. Wiesler ha giurato di essere “scudo e spada del partito” e un superiore, invece, lo esorta a trovare qualcosa (qualsiasi cosa) di compromettente su un commediografo a cui un ministro vuole portar via la compagna.
Mühe è meraviglioso e perfetto. Pur se il suo Wiesler non ha mai scatti ed è sempre efficiente e concentrato prima sul suo lavoro e, poi, sulla sua solitaria attività clandestina, ogni momento, ogni passaggio della storia trova il proprio gesto: un sopracciglio che si solleva appena, l’accensione di un interruttore, la mano che spreme un tubetto di concentrato di pomodoro su un piatto di riso bianco, l’indimenticabile sguardo rivolto al cassiere della libreria con il quale si chiude il film …
Mühe è bravissimo. Come accade ai bravissimi, riesce rendere indimenticabili anche occasioni che, in mano ad altri, sarebbero irrimediabilmente perdute. In un film che non considero particolarmente riuscito, Mein Führer – La veramente vera verità su Adolf Hitler, si guardi la scena in cui Adolf Grünbaum, il maestro di recitazione ebreo interpretato da Mühe, si trova sotto una doccia da cui, dopo qualche secondo di attesa, scende effettivamente dell’acqua.

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La storia di un sogno chiamato Giro

Alfonsina Strada (1851 – 1959)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 25/09/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel cuore degli appassionati, il ciclismo professionistico vive da diversi anni una sorta di sindrome dissociativa. Da un lato conserva intatti il suo fascino e la sua popolarità, dall’altro è ormai oggetto di pubblico e diffuso dileggio a causa dell’accertato ricorso, da parte di molti atleti, a sostanze di vario genere ma tutte finalizzate ad alterare i parametri fisici naturali.
L’uso di sostanze dopanti, tuttavia, non è un problema degli ultimi due decenni. Uno dei miei primi ricordi di appassionato delle due ruote è la morte di Tommy Simpson durante il Tour de France del 1967, causata anche dalle anfetamine assunte (e di sicuro non era l’unico) per migliorare la propria prestazione.
Il doping, a ben vedere, negli ultimi decenni è soltanto divenuto più scientifico, con tanto di studi per trovare sia sostanze che accrescano forza e resistenza, sia i modi per occultarle ai controlli. Ciò non toglie che la piaga sia antica e, chissà, nata assieme alle gare.
Nel cuore degli appassionati, tuttavia, il sogno vince sempre sull’evidenza ed è questo, forse, l’unico limite del prezioso saggio di Mimmo Franzinelli Il Giro d’Italia – Dai pionieri agli anni d’oro (Feltrinelli, 2013, pp. 342). Prezioso perché Franzinelli ricorre al suo riconosciuto valore di studioso per raccontare la storia del Giro d’Italia con vivacità e rigore. Una storia fittamente intrecciata con quella più grande dell’Italia, del suo sviluppo economico (interessanti i dati sul numero di biciclette circolanti in Italia nei primi decenni di diffusione di questo veicolo) e delle sue vicende politiche (dalla preferenza che il regime fascista riservò al calcio, alla celebre vicenda del Tour vinto da Bartali dopo l’attentato a Togliatti).
Il libro di Franzinelli è completamente, e gradevolmente, lontano da ogni celebrazione retorica delle gesta dei corridori. Peraltro, è proprio la narrazione asciutta degli eventi sportivi a lasciare briglia sciolta alla fantasia del lettore, libero di entusiasmarsi per le imprese di Binda, Bartali e Coppi, così come per la singolare vicenda della campionessa Alfonsina Strada.
Il doping c’era anche prima di Lance Armstrong (vincitore di sette Tour de France fra il 1999 e il 2005). Al tempo dei pionieri, forse, tutto si risolveva in qualche caffè ma sarebbe rischioso sostenere che il fenomeno sia esploso negli anni ’80. Sembra più probabile, invece, che la pratica del doping sia risultata più evidente non appena si è intensificata l’azione di controllo. Forse pensando a questo, dopo aver raccontato l’epoca del grande entusiasmo dei primi decenni del Giro, Franzinelli preferisce dedicare l’ultima parte del libro alla figura di Vincenzo Torriani, il dinamico organizzatore di decine di edizioni della prestigiosa corsa a tappe che, da manager dietro le quinte, finì col diventare un personaggio popolare quasi quanto i corridori.

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Prigionieri di Paasilinna

Lo scrittore finlandese Arto Paasilinna (1942 – 2018)

[Articolo pubblicato con leggere differenze per la prima volta il giorno 09/09/2013 nel sito antoniomessina.it]
Il naufragio, la scoperta del luogo in cui la sorte ha deciso di scaraventare il protagonista, la risoluzione del problema della sopravvivenza e, se il naufragio è collettivo, l’organizzazione del vivere sociale. Lo scrittore finlandese Arto Paasilinna non trema di fronte a un tema affrontato da decine di opere letterarie e lo rivisita a modo suo, con quella miscela di ironia, distacco, divertita curiosità e rassegnata compassione che costituisce la lente attraverso la quale racconta il mondo degli uomini anche in Prigionieri del paradiso (Milano, Iperborea, 2009, pp. 199).
Stavolta il naufragio è in effetti un ammaraggio di fortuna di un aereo noleggiato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. A bordo dell’aereo viaggia del personale ingaggiato per la realizzazione di progetti umanitari in Asia. La mano dell’Autore è riconoscibile fin dall’elenco dei passeggeri sopravvissuti al disastro: 14 infermiere svedesi, 10 ostetriche finlandesi, 10 tagliaboschi finlandesi più un giornalista, medici, piloti, tecnici forestali ecc. Una miscela paradossale costretta a inventarsi un’esistenza comune con gli esiti prevedibilmente imprevedibili dei personaggi di Paasilinna.
Sul tema del naufragio e di quel che segue, però, Paasilinna innesta alcune varianti di non poco conto. Per esempio, l’isola deserta è in realtà una zona disabitata e lussureggiante nonché, si scopre, ai margini di una zona di guerra (fra governativi e ribelli). Il mondo e i suoi problemi, dunque, non sono poi così distanti e la vita della piccola comunità, fatta di capanne, liquore di cocco, pesca e scimmiette addomesticate, somiglia molto al “voltarsi dall’altra parte” di tante persone ben inserite nel mondo civilizzato.
Il fatto che i naufraghi siano tutti professionisti impegnati nella cooperazione internazionale, così, denota la vena più sarcastica, qualche volta addirittura feroce, con la quale Paasilinna racconta le cose umane. Un esempio efficace di questa vena è senz’altro rappresentato dalla descrizione del progetto internazionale che coinvolgeva le ostetriche finlandesi ed al quale, senza l’incidente aereo, esse si sarebbero dedicate: la diffusione in Bangla Desh dei metodi di controllo delle nascite. “Per questo nella stiva dell’aereo c’era qualche milione di spirali intrauterine in rame prodotte dalla Outokumpu e altrettante pillole anticoncezionali, riservate alle donne che avessero accettato di prenderle e fossero in grado di contare fino a trenta.” Sulla cooperazione internazionale si è scritto molto, Paasilinna dice parecchie cose in poche righe.
Come in tutti i libri di Paasilinna, tuttavia, il sarcasmo è spruzzato qua e là, insieme al divertimento e, a ben vedere, anche all’invito a non prendersi troppo sul serio così come, all’occorrenza, a cercare un po’ d’allegria in qualche superalcolico distillato artigianalmente.

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