Un Natale kaizen

Il marchio della Banca del Cibo per la città di New York

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 23/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel mio articolo del 20 dicembre sostenevo che l’inefficienza è dannosa quanto la corruzione dei funzionari e la voracità dei partiti. Subito dopo aver scritto quell’articolo, il caso ha voluto che m’imbattessi in una notizia che parla proprio di efficienza e che, visto il periodo, mi ha toccato come una commovente storia di Natale. Forse ci vuole un po’ di fantasia, dato che al posto di slitta, renne e anziano corpulento con barba bianca e giubba rossa che parte dal Polo, abbiamo una multinazionale giapponese dell’automobile che agisce a New York. Inoltre, la notizia è di qualche mese fa. Tuttavia, è davvero più bello immaginare il tutto mentre la neve fiocca, anziché sotto il sole estivo che c’era quando fu riportata dal New York Times.
La Food Bank for New York City è il più grande ente benefico degli Stati Uniti a occuparsi dell’assistenza alimentare ai poveri; eroga circa un milione e mezzo di pasti all’anno; è sostenuto da una serie di finanziatori: dalla Bank of America alla squadra di baseball dei New York Yankees, fino alla Toyota. Tutti staccano assegni più o meno generosi ma, un bel giorno, alla Toyota viene in mente il kaizen, cioè il metodo organizzativo il cui nome viene normalmente tradotto con l’espressione “miglioramento continuo”. Così Toyota propone alla Food Bank una donazione diversa dal solito: anziché soldi, un po’ di tempo dei loro ingegneri.
Dopo qualche perplessità, Food Bank accetta e gli ingegneri si mettono al lavoro. Il punto di partenza è un’attesa media di un’ora e mezza per ricevere il pasto. Il punto a cui si arriva è un’attesa di 18 minuti grazie a tre accorgimenti:
anziché far entrare le persone a gruppi di dieci, le si fanno entrare via via che si libera un posto in mensa;
la zona dove si attende il proprio turno è spostata più vicino alla linea di distribuzione dei pasti;
nelle ore di distribuzione dei pasti, un incaricato di Food Bank ha il compito esclusivo di verificare via via la disponibilità di posti, segnalandola subito alle persone in attesa.
Piccole cose, come si vede, ma che hanno prodotto una conseguenza positiva sproporzionata, in meglio, rispetto alla dimensione apparente delle decisioni: ogni persona aspetta un quinto del tempo che impiegava prima, Food Bank riesce a erogare molti più pasti.
Non si deve mai pensare alla strada tutta in una volta, tutta intera, capisci? Si deve soltanto pensare al prossimo passo, al prossimo respiro, al prossimo colpo di scopa. Sempre soltanto al gesto che viene dopo … Allora c’è soddisfazione; questo è importante, perché allora si fa bene il lavoro. Così deve essere.” (ENDE, Michael, Momo, Milano, Longanesi, 1984).

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Se moltiplicando

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 20/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
L’ultimo dato fornito dalla Banca d’Italia riferisce del nuovo massimo storico raggiunto dal debito pubblico dello Stato italiano: a ottobre 2013 siamo arrivati a 2.085.321.000.000,00 euro, una cifra che, scommetto, avrete perfino difficoltà a leggere. Per riportarla a un livello comprensibile, diciamo che ogni italiano si trova sul groppone 35mila euro di passivo sul suo conto personale di cittadino. Di fronte a tali cifre, una delle domande più spontanee è: come si è potuti arrivare a tanto?
Come per molti fenomeni di ampia portata, penso che l’approccio corretto sia quello che evita risposte semplicistiche e, più ancora, risposte univoche. Una sola causa, difficilmente avrebbe potuto scatenare effetti tanto disastrosi e duraturi nel tempo come quelli concretizzati dall’enorme debito dello Stato italiano.
Un’opinione diffusa colloca l’origine di quel debito nella corruzione e negli appetiti dei gestori della cosa pubblica, prima di tutto i partiti. Esperienze comuni, vox populi e vicende giudiziarie conferiscono fondatezza a quell’opinione ma trascurano, a parer mio, altri due fattori di uguale se non maggiore importanza. Mi riferisco alla solidità morale e alla robustezza professionale dei decisori. Ci si potrebbe scrivere sopra un saggio, provo a cavarmela con l’esempio di una vicenda che ho dovuto seguire direttamente, dato che ha accompagnato la mia vita professionale.
Alludo alla gestione dell’Albo degli autotrasportatori. Questa gestione, fino al 2001 era affidata alla Motorizzazione Civile. Nel 2002, uno fra i topolini partoriti dalla montagna del federalismo all’italiana fu il passaggio di quella gestione alle Province. In questi giorni, la Legge di stabilità per il 2014 la sta restituendo alla Motorizzazione.
Premesso che ogni scelta può essere argomentata e legittima, mi limito a constatare che questo palleggio significò nel 2001 un mare di circolari, decisioni, trasferimenti (di personale, documenti, risorse finanziarie) e predisposizione di strumenti di lavoro (informatici e non) senza contare l’istituzione di uffici, posti dirigenziali e incarichi vari. Nel prossimo futuro, nonostante la Legge di stabilità 2014 affermi “coraggiosamente” che la restituzione dell’Albo alla Motorizzazione avverrà senza oneri per lo Stato, si verificheranno esattamente gli stessi fenomeni, ma nella direzione inversa a quella del 2002. E tutto ciò, si badi bene, per dare agli autotrasportatori sempre esattamente lo stesso servizio.
Ecco, secondo me, una fetta della cifra che abbiamo visto all’inizio viene anche da vicende come questa dell’Albo. Una vicenda minuscola rispetto al mare del debito pubblico e tuttavia, parafrasando Mina, se moltiplicando io potessi calcolare le risorse sprecate con le migliaia di decisioni irrazionali e costose, ho l’impressione che avrei individuato una causa di quel debito che, con gni probabilità, può stare al pari della corruzione e della affermata voracità dei partiti.
P.S.
Per semplificarvi la vita: il debito pubblico ha superato i duemilaottantacinque miliardi di euro.

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Mio caro Jonathan, è stato bello ma …

Jonathan Coe

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 11/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Lo straordinario credito acquisito ai miei occhi da Jonathan Coe con La famiglia Winshaw mi ha poi spinto a leggere via via, con insistenza da innamorato, Questa notte mi ha aperto gli occhi, La casa del sonno, La banda dei brocchi, Circolo chiuso, La pioggia prima che cada, I terribili segreti di Maxwell Sim e finalmente (lettura conclusa pochi giorni fa) il recente Expo 58 (Milano, Feltrinelli, 2013, pp. 280). Quest’ultimo libro passerà alla mia storia di “lettore forte” come la classica goccia che fa traboccare il vaso. Infatti, se nessuno dei sei romanzi pubblicati da Coe dopo La famiglia Winshaw ne raggiungeva le vette stilistiche e di contenuto, Expo 58 è quello che più di tutti meriterebbe la qualifica di bidone.
La storia è insulsa, alcuni movimenti della trama sono di una banalità sconcertante. Per dire: il protagonista inglese vive un matrimonio privo di slanci e passione. Inviato in missione a Bruxelles per l’Esposizione Universale, viene accolto da un’avvenente hostess belga. Ebbene, tenetevi forte perché Coe risolve la situazione in modo geniale: i due finiscono per diventare amanti. Ma il protagonista è insulso come il libro che lo ospita e, dopo aver ondeggiato fra la belga e un’americana, ritorna al focolare domestico. Dopo alcuni decenni, vedovo, torna in Belgio e da un’amica comune viene a sapere che dall’unica appassionata notte d’amore con la belga è nata una figlia. L’intrigante vicenda si svolge intrecciando i suoi eventi con quelli legati alla gestione del pub Britannia, un locale che ricrea, all’interno del padiglione inglese ell’Expo, una tipica birreria britannica che, come il protagonista sarà costretto a scoprire, diventa il teatro di una lotta sotterranea fra i servizi segreti inglese e americano contrapposti a quello russo. Sotto i profili dell’originalità e della capacità di avvincere il lettore, la vicenda spionistica si colloca giusto mezzo gradino sopra quella sentimentale.
Così, dopo aver preso ben sette batoste in cambio di un unico capolavoro, penso proprio che lascerò Coe al suo destino. Devo anche dire che non amo e non ho intenzione di dedicarmi alle stroncature. Così, questo breve articolo non è altro che una lunga premessa all’invito a leggere (o rileggere) La famiglia Winshaw, il romanzo in cui l’innegabile talento narrativo di Coe si salda con una varietà di registri, una coerenza delle parti e, oserei dire, un valore civile mai ripetuti nei successivi romanzi.

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6 dicembre 2013

Su Nelson Mandela ho già scritto in un paio di occasioni, l’ultima proprio nel post precedente a questo. Nel giorno della sua morte, non mi sento di aggiungere altro. L’immagine qui sotto è uno dei suoi ritratti che preferisco. Fu scattata nel 1960.

Nelson Mandela (1918 – 2013). La fotografia, scattata nel 1960, lo ritrae mentre brucia il passaporto interno imposto ai sudafricani di colore.
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Twitting Mandela

Nelson Mandela (1918 – 2013)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 17/11/2013 nel sito antoniomessina.it]
Su Twitter, il servizio di cosiddetto microblogging (possibilità di pubblicare via web testi di non più di 140 caratteri), si è già scritto molto, né pretenderò di far concorrenza a sociologi, filosofi e analisti vari aggiungendo considerazioni profonde e originali sull’argomento. Mi limiterò a esporre l’esito di una mia piccola esperienza personale.
L’interesse e l’ammirazione che nutro verso Nelson Mandela si sono tradotti, fra l’altro, nella lettura di tre libri: l’autobiografia Lungo cammino verso la libertà; la raccolta di materiale preparatorio per l’autobiografia intitolata Io, Nelson Mandela; il saggio Nelson Mandela and the Game that made a Nation, di John Carlin, dal quale è stato tratto il film Invictus, regia di Clint Eastwood, con Morgan Freeman nei panni del grande leader sudafricano. Ho visto anche il film, tre volte.
Da circa un anno sono anche un follower, appunto su Twitter, della Nelson Mandela Foundation. I tweet (cioè i micromessaggi pubblicati) della Fondazione sono sostanzialmente di due tipi. Il primo tipo contiene il ricordo di piccoli anniversari nella vita di Mandela. Cose del tipo: 15 novembre 1993 Nelson Mandela ritorna a Howick, nel KwaZulu-Natal, nel luogo dove fu arrestato nel 1962. Oppure: 13 novembre 1989 Nelson Mandela annota la sua pressione sanguigna sul calendario della sua prigione. 150/80 alle 7 di mattina, 140/80 alle 10.30 e 150/80 alle 15.30. Per chi conosce un po’ il personaggio, si tratta di cose estremamente minute ma che confermano l’idea che ci si può essere fatti di lui.
Il secondo tipo di tweet è composto da citazioni di Mandela stesso. Frasi come: “Io non ho, mai e sotto alcun riguardo, considerato le donne meno competenti degli uomini.” Oppure: “È stato detto mille e una volta che il problema non è quel che accade a una persona ma come quella persona vive quel problema.”
Ecco, il primo tipo di tweet arricchisce chi già conosce la storia di Mandela grazie ai dettagli che danno la dimensione quotidiana di una battaglia epocale. I tweet del secondo tipo, invece, finiscono per essere controproducenti, specialmente per chi dovesse farne la sua fonte primaria di informazione sulla vita e il pensiero di Mandela. Certe frasi, infatti, estratte dal contesto complesso della vita del leader sudafricano e degli anni che ha attraversato, diventano banali e, in qualche caso, rasentano addirittura il ridicolo (come: “Essere poveri è una cosa terribile.”).
È per questo che Twitter va bene, e anch’io ne faccio uso, ma se si vuole conoscere Mandela è molto meglio sobbarcarsi la piacevole fatica di leggere Lungo cammino verso la libertà, 579 pagine per raccontare una fantastica avventura umana.

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Gente indipendente

Lo scrittore islandese Halldór Laxness (1902 – 1998), premio Nobel 1955

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 09/11/2013 nel sito antoniomessina.it]
Ci sono libri talmente ricchi di senso, di sfaccettature e di livelli di lettura da rendere difficile parlarne solo in breve. Gente indipendente (Milano, Iperborea, 2004, pp. 653), dell’islandese Halldór Laxness, premio Nobel 1955, è uno di questi libri.
Scritto fra il 1934 ed il 1935, Gente indipendente ruota attorno alla storia del contadino e allevatore Bjartur, un uomo determinato tenacemente, al limite dell’ottusità, a non avere debiti di alcun genere e con nessuno. Dopo diciotto anni a servizio di persone benestanti, un piccolo podere sperduto e qualche pecora sono la sua personale vittoria, il suo regno, la sua libertà. La sua indipendenza viene prima di tutto: delle relazioni umane, delle mogli, dei figli. I pilastri su cui la fonda sono durezza d’animo e forza fisica oltre che, vien da dire, una fiducia illimitata nelle pecore, specialmente quelle della razza introdotta nel distretto dal reverendo Gudmundur.
Lo stile di Laxness alterna momenti volutamente scarni, considerazioni di taglio quasi giornalistico, qualche pizzico di ironia e pagine di intenso lirismo. In qualche passaggio, sembra di poter trovare in Laxness l’ascendenza dell’oggi acclamatissimo Jón Kalmann Stefánsson. Assolutamente strepitosi, a parer mio, i resoconti delle conversazioni fra amici, dove uno stile quasi da verbale di riunione si rivela efficacissimo nel restituire atmosfere, personalità, momenti.
Bjartur vince molte battaglie ma finirà col perdere la sua indipendenza e praticamente tutte le sue cose materiali. La Prima Guerra Mondiale, i riflessi di questa sul prezzo della carne, il modo di ragionare delle persone che cambia rapidamente al primo accenno di benessere; sono tutti fenomeni che nascono molto lontano da Sumarhus, il podere-regno di Bjartur, ma che riusciranno a travolgerne l’apparentemente inattaccabile autonomia. Ma Bjartur non è tipo da piangere sulle proprie disgrazie. Rimane lo stesso di sempre e va in un nuovo podere a far girare ancora la sua ruota. Unica, grande, differenza, la figlia ripudiata che Bjartur, vincendo il suo orgoglio, è andato a cercare per condividere un tratto di esistenza.
Scrivendo Gente indipendente, Laxness aveva presente la sua epoca e la sua Islanda. Diversi dei temi affrontati, peraltro, superano le barriere temporali perché raccontano problemi che si ripetono nella storia umana: il conflitto fra vecchio e nuovo; la divisione in classi; i turbamenti adolescenziali; la distanza fra chi detiene il potere e chi lo subisce; il sogno di orizzonti più ampi; la lealtà e il tradimento. La vicenda di Bjartur, tuttavia, va oltre le intenzioni dell’autore quando descrive origini, responsabili e conseguenze della crisi economica che finirà per travolgere tutto e tutti. Laxness, cioè, non poteva immaginare che, ottant’anni dopo la stesura di Gente indipendente, buona parte del cosiddetto Occidente si sarebbe trovata a discutere sul ruolo che banche, potere finanziario e manager che lo gestiscono hanno avuto nella crisi economica e sociale di questi anni. Una crisi della quale, non diversamente da quanto accade nel racconto di Laxness, le maggiori conseguenze ricadono su tutti tranne che su coloro che l’hanno provocata.
Gente indipendente si chiude con una frase resa splendida dal racconto che l’ha preceduta: “Poi proseguirono il loro cammino”. Lungo la strada, Bjartur è rimasto lo stesso ma forse è spuntato qualche germoglio di cambiamento. A noi, chiuso il libro, rimane da riflettere sul protagonista, certo, ma anche su di noi, su come viviamo, su come leggiamo il nostro tempo, su come ne affrontiamo le difficoltà. Dobbiamo farlo anche perché, come forse direbbe Einar di Undhirlíd, una storia è una storia, e la realtà è la realtà.

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Il negazionismo, Ruby ed Eluana

Un camera a gas

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 31/10/2013 nel sito antoniomessina.it]
Oscurata dalle polemiche sulle conseguenze della condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale, in queste settimane prosegue in Parlamento la discussione sulle nuove norme che puniranno col carcere (fino a oltre sette anni) la persona che negherà lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. A leggere i giornali, l’esito della futura votazione appare scontato nel senso dell’approvazione. Una vasta maggioranza delle forze presenti in Parlamento, infatti, si dichiara favorevole all’introduzione di questa nuova fattispecie di reato.
La “vasta maggioranza” può essere una bella cosa ma m’insospettisce sempre un poco. Inoltre, mi piacerebbe sapere quanti degli attuali parlamentari che si dispongono a incarcerare chi nega lo sterminio degli ebrei fossero alla Camera dei Deputati il 3 febbraio del 2011 per votare sulla domanda di “autorizzazione a eseguire perquisizioni nei confronti del deputato Berlusconi”. Depurando la questione dagli aspetti tecnico-procedurali, con quella votazione si doveva sostanzialmente riconoscere, o meno, che Silvio Berlusconi aveva telefonato alla Questura di Milano nell’esercizio del suo ruolo di Presidente del Consiglio al solo fine di scongiurare una crisi diplomatica con l’Egitto, crisi che si sarebbe certamente verificata se l’allora presidente egiziano Mubarak avesse saputo che sua nipote Ruby Rubacuori era in stato di fermo presso la Questura. Per la cronaca e la storia: 315 voti pro-Berlusconi, 298 contro, un astenuto. Per la maggioranza dei parlamentari, dunque, compreso quel Renato Schifani che oggi definisce “di grande civiltà” il disegno di legge sul reato di negazionismo, Ruby poteva effettivamente essere ritenuta la nipote di Mubarak.
Ma mettiamo da parte l’autorevolezza di chi ci vuole imporre che cosa pensare e veniamo senz’altro al cuore del problema. Che è, evidentemente, quello delicatissimo della libertà di opinione.
In questo mio blog, indirettamente o recensendo un libro, il tema del nazismo è affiorato già in quattro occasioni (per conferma, cercare il tag “nazismo”). Come la penso, spero che emerga chiaramente. Quanto al cosiddetto negazionismo, lo considero un triste esempio di feroce stupidità. E non mi riferisco tanto all’esito (“L’olocausto è un’invenzione dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale e degli ebrei”) quanto alle argomentazioni (se così le vogliamo definire) secondo le quali farebbe differenza che i morti siano stati tre, quattro o sei milioni; o che il contesto di guerra giustificava comunque l’esecuzione di quegli ordini. Ancora più balorde sono certe argomentazione “tecniche”, come quella secondo la quale le camere a gas dei campi di concentramento, per come erano costruite, non sarebbero state degli strumenti idonei a sopprimere i milioni di ebrei di cui si parla, e dunque lo sterminio è un’invenzione. Argomentazioni balorde perché, a prescindere dalle “perizie tecniche” sulle camere a gas, si sa benissimo che quelle furono uno solo dei molti modi usati per uccidere (o lasciar morire, che è lo stesso) gli ebrei. Del resto, è tipico del negazionismo dire che quella macchia sul tappeto è d’inchiostro e non di sangue (la qual cosa magari è anche vera) per sostenere che quello che si vede steso sul pavimento non è il cadavere di un uomo accoltellato.
Fatto sta che c’è chi pensa che lo sterminio degli ebrei sia un’invenzione della propaganda. È giusto che vada in carcere? È giusto che ci vada chi nega l’Olocausto e non chi nega l’esistenza o la gravità di altri eccidi o sostenga convinzioni più o meno strampalate?
Per qualificare precisamente le azioni umane, il diritto distingue fra il pensare di uccidere, l’istigare ad uccidere e l’uccidere davvero. E, dopo aver distinto, anche il nostro ordinamento punisce le azioni e non il pensiero. Stravolgere questa architettura, sia pure dietro il paravento dell’orrore nazista, spezza una diga di civiltà, rischiando di travolgere la libertà di espressione affidando a maggioranze politiche la decisione di che cosa è corretto pensare ad alta voce.
È per questo che la proposta di legge sul negazionismo mi ha riportato alla mente il caso di Eluana Englaro, la donna vissuta per 17 anni in stato vegetativo, morta il 9 febbraio 2009 a seguito dell’interruzione dell’alimentazione artificiale. Più esattamente, ho ricordato il Consiglio dei Ministri che il 6 febbraio del 2009 approvò (dopo una prima infruttuosa forzatura tramite un decreto legge, poi non controfirmato dal Presidente della Repubblica) un disegno di legge sul divieto di sospendere l’alimentazione e l’idratazione dei pazienti. Ebbene, anche in quel caso, oltre il richiamo accorato al valore superiore della vita, c’era il tentativo di stravolgere la complessa architettura istituzionale travasata nella Costituzione mettendo ogni peso solo sul piatto del potere esecutivo che, a colpi di maggioranza, avrebbe potuto decidere valori morali e addirittura pratiche sanitarie.
Come suol dirsi: viviamo in tempi difficili.

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Ulrich Mühe (1953 – 2007)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/10/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nell’ultimo film di Gianni Amelio, L’intrepido, presentato al Festival di Venezia di quest’anno, il pur bravo Antonio Albanese interpreta il personaggio di Antonio Pane in un modo che mi è apparso monocorde. Quale che fosse la situazione, stesso sorriso dolce, stesso tono, quasi lo stesso volume di voce.
Si può rimanere col dubbio su quanto questa modalità interpretativa sia o no il frutto di scelta consapevole, o su quanto abbiano pesato certe precedenti esperienze di Albanese che però, almeno nel caso del suo indimenticabile Epifanio, ricorrevano a un’essenzialità che aveva altre giustificazioni, altro contesto e, a mio parere, esiti ben più felici.
Fatto sta che vedendo (per la quarta volta) Le vite degli altri, il film di Florian Henckel von Donnersmarck premio Oscar nel 2006, mi è risultato impietoso il confronto fra l’interpretazione di Albanese e la strabiliante prova d’attore fornita da Ulrich Mühe (1953-2007) dando vita al capitano Gerd Wiesler.
Wiesler è uno dei tanti uomini della Stasi, l’apparato spionistico della Germania Est. Una figura grigia e senza slanci come il palazzo in cui vive, un alveare anonimo, contenitore di tristezze e paure. Paradossalmente, a generare un impulso di ribellione è proprio la fede sincera nel regime spietato che sta servendo. Wiesler ha giurato di essere “scudo e spada del partito” e un superiore, invece, lo esorta a trovare qualcosa (qualsiasi cosa) di compromettente su un commediografo a cui un ministro vuole portar via la compagna.
Mühe è meraviglioso e perfetto. Pur se il suo Wiesler non ha mai scatti ed è sempre efficiente e concentrato prima sul suo lavoro e, poi, sulla sua solitaria attività clandestina, ogni momento, ogni passaggio della storia trova il proprio gesto: un sopracciglio che si solleva appena, l’accensione di un interruttore, la mano che spreme un tubetto di concentrato di pomodoro su un piatto di riso bianco, l’indimenticabile sguardo rivolto al cassiere della libreria con il quale si chiude il film …
Mühe è bravissimo. Come accade ai bravissimi, riesce rendere indimenticabili anche occasioni che, in mano ad altri, sarebbero irrimediabilmente perdute. In un film che non considero particolarmente riuscito, Mein Führer – La veramente vera verità su Adolf Hitler, si guardi la scena in cui Adolf Grünbaum, il maestro di recitazione ebreo interpretato da Mühe, si trova sotto una doccia da cui, dopo qualche secondo di attesa, scende effettivamente dell’acqua.

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La storia di un sogno chiamato Giro

Alfonsina Strada (1851 – 1959)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 25/09/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel cuore degli appassionati, il ciclismo professionistico vive da diversi anni una sorta di sindrome dissociativa. Da un lato conserva intatti il suo fascino e la sua popolarità, dall’altro è ormai oggetto di pubblico e diffuso dileggio a causa dell’accertato ricorso, da parte di molti atleti, a sostanze di vario genere ma tutte finalizzate ad alterare i parametri fisici naturali.
L’uso di sostanze dopanti, tuttavia, non è un problema degli ultimi due decenni. Uno dei miei primi ricordi di appassionato delle due ruote è la morte di Tommy Simpson durante il Tour de France del 1967, causata anche dalle anfetamine assunte (e di sicuro non era l’unico) per migliorare la propria prestazione.
Il doping, a ben vedere, negli ultimi decenni è soltanto divenuto più scientifico, con tanto di studi per trovare sia sostanze che accrescano forza e resistenza, sia i modi per occultarle ai controlli. Ciò non toglie che la piaga sia antica e, chissà, nata assieme alle gare.
Nel cuore degli appassionati, tuttavia, il sogno vince sempre sull’evidenza ed è questo, forse, l’unico limite del prezioso saggio di Mimmo Franzinelli Il Giro d’Italia – Dai pionieri agli anni d’oro (Feltrinelli, 2013, pp. 342). Prezioso perché Franzinelli ricorre al suo riconosciuto valore di studioso per raccontare la storia del Giro d’Italia con vivacità e rigore. Una storia fittamente intrecciata con quella più grande dell’Italia, del suo sviluppo economico (interessanti i dati sul numero di biciclette circolanti in Italia nei primi decenni di diffusione di questo veicolo) e delle sue vicende politiche (dalla preferenza che il regime fascista riservò al calcio, alla celebre vicenda del Tour vinto da Bartali dopo l’attentato a Togliatti).
Il libro di Franzinelli è completamente, e gradevolmente, lontano da ogni celebrazione retorica delle gesta dei corridori. Peraltro, è proprio la narrazione asciutta degli eventi sportivi a lasciare briglia sciolta alla fantasia del lettore, libero di entusiasmarsi per le imprese di Binda, Bartali e Coppi, così come per la singolare vicenda della campionessa Alfonsina Strada.
Il doping c’era anche prima di Lance Armstrong (vincitore di sette Tour de France fra il 1999 e il 2005). Al tempo dei pionieri, forse, tutto si risolveva in qualche caffè ma sarebbe rischioso sostenere che il fenomeno sia esploso negli anni ’80. Sembra più probabile, invece, che la pratica del doping sia risultata più evidente non appena si è intensificata l’azione di controllo. Forse pensando a questo, dopo aver raccontato l’epoca del grande entusiasmo dei primi decenni del Giro, Franzinelli preferisce dedicare l’ultima parte del libro alla figura di Vincenzo Torriani, il dinamico organizzatore di decine di edizioni della prestigiosa corsa a tappe che, da manager dietro le quinte, finì col diventare un personaggio popolare quasi quanto i corridori.

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Prigionieri di Paasilinna

Lo scrittore finlandese Arto Paasilinna (1942 – 2018)

[Articolo pubblicato con leggere differenze per la prima volta il giorno 09/09/2013 nel sito antoniomessina.it]
Il naufragio, la scoperta del luogo in cui la sorte ha deciso di scaraventare il protagonista, la risoluzione del problema della sopravvivenza e, se il naufragio è collettivo, l’organizzazione del vivere sociale. Lo scrittore finlandese Arto Paasilinna non trema di fronte a un tema affrontato da decine di opere letterarie e lo rivisita a modo suo, con quella miscela di ironia, distacco, divertita curiosità e rassegnata compassione che costituisce la lente attraverso la quale racconta il mondo degli uomini anche in Prigionieri del paradiso (Milano, Iperborea, 2009, pp. 199).
Stavolta il naufragio è in effetti un ammaraggio di fortuna di un aereo noleggiato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. A bordo dell’aereo viaggia del personale ingaggiato per la realizzazione di progetti umanitari in Asia. La mano dell’Autore è riconoscibile fin dall’elenco dei passeggeri sopravvissuti al disastro: 14 infermiere svedesi, 10 ostetriche finlandesi, 10 tagliaboschi finlandesi più un giornalista, medici, piloti, tecnici forestali ecc. Una miscela paradossale costretta a inventarsi un’esistenza comune con gli esiti prevedibilmente imprevedibili dei personaggi di Paasilinna.
Sul tema del naufragio e di quel che segue, però, Paasilinna innesta alcune varianti di non poco conto. Per esempio, l’isola deserta è in realtà una zona disabitata e lussureggiante nonché, si scopre, ai margini di una zona di guerra (fra governativi e ribelli). Il mondo e i suoi problemi, dunque, non sono poi così distanti e la vita della piccola comunità, fatta di capanne, liquore di cocco, pesca e scimmiette addomesticate, somiglia molto al “voltarsi dall’altra parte” di tante persone ben inserite nel mondo civilizzato.
Il fatto che i naufraghi siano tutti professionisti impegnati nella cooperazione internazionale, così, denota la vena più sarcastica, qualche volta addirittura feroce, con la quale Paasilinna racconta le cose umane. Un esempio efficace di questa vena è senz’altro rappresentato dalla descrizione del progetto internazionale che coinvolgeva le ostetriche finlandesi ed al quale, senza l’incidente aereo, esse si sarebbero dedicate: la diffusione in Bangla Desh dei metodi di controllo delle nascite. “Per questo nella stiva dell’aereo c’era qualche milione di spirali intrauterine in rame prodotte dalla Outokumpu e altrettante pillole anticoncezionali, riservate alle donne che avessero accettato di prenderle e fossero in grado di contare fino a trenta.” Sulla cooperazione internazionale si è scritto molto, Paasilinna dice parecchie cose in poche righe.
Come in tutti i libri di Paasilinna, tuttavia, il sarcasmo è spruzzato qua e là, insieme al divertimento e, a ben vedere, anche all’invito a non prendersi troppo sul serio così come, all’occorrenza, a cercare un po’ d’allegria in qualche superalcolico distillato artigianalmente.

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Capire la risata

Sophia Loren

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 17/08/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra i non addetti ai lavori, il principale motivo per leggere i libri sull’umorismo sono gli esempi, cioè le barzellette utilizzate per spiegare questo o l’altro meccanismo che innesca la risata. Qualche bel motto di spirito non manca neppure nel volumetto Psicologia dell’umorismo (di Alberto DIONIGI e Paola GREMIGNI, Roma, Carocci, 2010, pp. 125) ma non è per questo che si può consigliarne la consultazione.
In poco più di un centinaio di pagine i due autori forniscono un quadro completo, sebbene sintetico, dello stato dell’arte riguardo alle ricerche sull’umorismo. Nei quattro capitoli del libro, così, troviamo riepilogate le notizie sulla fisiologia della risata, le teorie che hanno tentato di spiegare che cosa e perché suscita il riso, di quali funzioni sociali è stato accreditato l’umorismo e, infine, le ricerche sugli effetti dell’umorismo sulla salute umana.
Il quadro che ne risulta è quello di un fenomeno non ancora definitivamente spiegato e per il quale le molte teorie proposte, a lettura ultimata, appaiono spesso tanto valide quanto parziali.
Peraltro, la situazione si presenta diversa nei differenti campi di indagine. Le numerose idee presentate nel terzo capitolo (sulle funzioni sociali dell’umorismo) si risolvono in un elenco di possibilità che potrebbe essere completo ma che, alla fin fine, si limita a enumerare, senza riuscire a spiegarle, tutte le possibili funzioni sociali dell’umorismo. Uno scavo più efficace, invece, sembra quello dovuto alle indagini riassunte nel secondo capitolo, dedicato al riepilogo delle spiegazioni via via tentate (e lo si è iniziato a fare secoli fa) per capire perché un fatto, una frase, una situazione modifichino il nostro essere al punto da originare la risata.
Fra le teorie più accreditate (accanto a quella “del sollievo” e a quella “della superiorità”) ne ho trovata una, detta “dell’incongruità”, che corrisponde a certe mie, assai empiriche, riflessioni su che cosa provochi la risata. Secondo questa teoria, la risata si scatena a seguito dello scarto fra la situazione, come si presenta in base ai nostri schemi mentali acquisiti, e la soluzione, che getta una luce improvvisa e differente sulla situazione stessa. E nel solco dei saggi sull’umorismo, non voglio privarmi di un esempio (preso da qui, anche se non mi sono trattenuto dal modificarlo) che vorrebbe convalidare questa teoria.
Su un ramo ci sono dei pipistrelli, tutti appesi a testa in giù tranne uno che sta dritto in piedi. Due pipistrelli vicini commentano: “Sai cos’ha quello lì?”. “Non lo so. Fino a due minuti fa stava bene e poi è svenuto.”
La teoria dell’incongruità è complessa più del riassunto che ne ho appena fatto. Peraltro, dalla lettura del libro ho anche scoperto che le mie personali riflessioni mi avevano portato a pensare quella teoria ma in forma ibrida, mescolata con qualche aspetto della “teoria della superiorità”. Infatti, mi sono sempre detto che un uomo che scivola su una buccia di banana crea senz’altro incongruità, tanto maggiore quanto più il soggetto è serio, impettito o assorto. Questo da solo, tuttavia, non spiega perché la caduta ci fa ridere anziché suscitare partecipazione e solidarietà. Prima ridiamo e solo dopo, rientrati in noi, pensiamo a soccorrere. Che l’umorismo non sia disgiunto dalla nostra personale dose di cattiveria?

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Scuola di giornalismo

Testata del sito di informazione locale “fanoinforma”

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 10/08/2013 nel sito antoniomessina.it]
Da qualche tempo, nei bar della città marchigiana dove abito, accade di trovare il giornale gratuito Fano Informa. Una cosina leggera, giusto un foglio stampato sulle due facciate, cinque o sei brevi articoli di cronaca locale, qualche inserzione pubblicitaria, uno staff di redazione proporzionato al tutto (sulla prima pagina del numero che ha dato spunto a questo mio modesto scritto, due articoli a firma Jacopo Frattini e un terzo firmato con la sigla J.F.).
Tuttavia, poiché pur sempre di informazione si tratta, è stato con l’occhio di persona che si vuole informare che un paio di giorni fa, gustando un gelato, ho letto il numero di Fano Informa lasciato su un tavolino a beneficio dei clienti di passaggio.
L’articolo di apertura era dedicato al dibattito interno al Partito Democratico in vista della scelta del candidato sindaco da presentare alle prossime elezioni amministrative. Devo ammetterlo: una perla di giornalismo. Cito alla lettera i passaggi essenziali (chi volesse leggerlo per intero, lo può fare qui):
“Il partito Democratico mette in ordine le voci che in questi giorni si stanno rincorrendo a proposito della volontà di Massimo Seri di non passare attraverso le primarie.

Daniele Sanchioni, consigliere comunale del Pd, sostiene che … “A proposito delle primarie, Massimo Seri è una figura che gode della fiducia di molti e per questo motivo non dovrebbe aver paura di confrontarsi con altri candidati”.

Enrico Nicolelli … spiega che “anche io ho sentito del pensiero di Massimo Seri di voler saltare le primarie. Si tratta di una persona stimata e conosciuta ma, come Partito Democratico, non possiamo essere prigionieri delle decisioni di un’ unica persona. La sua è una legittima fuga in avanti, che potrebbe anche essere presa in considerazione ma solo in un secondo momento.”

Da parte sua, il segretario Stefano Marchegiani smentisce la presunta volontà dell’attuale assessore provinciale di voler saltare le primarie. “Massimo Seri a me ha sempre detto di non aver nessun problema a passare attraverso le primarie. Siamo in estate e di voci di fantapolitica se ne sentono tante”.
A questo punto, ormai definitivamente incuriosito, il lettore provvisto di livelli ordinari di intelligenza e propensione al pettegolezzo si rivolge, inevitabilmente, la domanda: e Massimo Seri, che cosa avrà da dire di tutto quello che dicono di lui? Invece, niente. Fine dell’articolo nonostante il fatto che Massimo Seri abiti a Fano e sia assessore a Pesaro, cioè a dodici chilometri da casa sua e, per dirla tutta, anche dalla sede di Fano Informa. Possiamo poi immaginare che abbia un telefono fisso e un cellulare privati, mentre è certa l’esistenza di un recapito telefonico nella sua sede di lavoro. Allora dico, senza pretesa di dar lezioni: non lo si poteva chiedere a lui se ‘ste primarie le vuol fare o no?
Ecco, a volte si accusa certa stampa di non informare adeguatamente il pubblico dei lettori. Fano Informa sceglie un’altra strada: la fuga dalla notizia.

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