Lettera aperta al sindaco di Parma, Federico Pizzarotti

Il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 14/06/2014 nel sito antoniomessina.it]
Caro Federico,
guardando a Parma dalle Marche dove vivo, ho sempre considerato la sua persona poco meno che un eroe, dotato, per farsi carico del disastro lasciato dalle precedenti giunte della sua città, di determinazione, coraggio e incoscienza in parti uguali. Quando si ha un eroe, lo si vorrebbe sempre senza macchia e senza paura e ogni ombra, anche piccola, dispiace. Convinto che si possa imparare anche dalle critiche ingiuste, così, mi permetto di indicarle piccole cose che ha detto o ha fatto e che, secondo me, non vanno nella direzione giusta.
Non mi è piaciuta la presa di posizione sull’esclusione del Parma Calcio dalle competizioni europee del prossimo anno. Non mi riferisco al merito, ma proprio al fatto che abbia preso posizione. La politica, non da oggi, usa lo sport e interferisce più o meno direttamente con la sua autonomia. Che anche lei l’abbia fatto, a me non è piaciuto.
Anche nel merito, del resto, non credo che abbia dato un buon segnale parlando di un Parma che “… si è meritato sul campo, battagliando, la qualificazione in Europa e non può essere certo un limite burocratico ad eliminarlo senza giocare.” Il “limite burocratico”, come l’ha definito, era il versamento di un’imposta allo Stato entro una scadenza stabilita. Come ogni altra regola, può anche essere considerata ingiusta, ma c’è ed era lì da prima che il Parma vincesse sul campo. Perciò sarebbe stato un buon segnale che lei, se proprio voleva pronunciarsi, invitasse al rispetto delle istituzioni e delle regole, pur nel dispiacere per la mancata partecipazione alle competizioni europee dovuta a fatti extra-sportivi. Anche perché, mi permetta di pensar male, il Parma Calcio ha versato l’imposta dopo aver acquisito il posto utile nella classifica del campionato e, dunque, l’interesse economico e sportivo a partecipare alle competizioni stesse. E se non l’avesse acquisito, avrebbe continuato a tenersi in cassa i 300mila euro di IRPEF? Le imposte si pagano solo quando fa comodo?
Non mi è piaciuto l’entusiasmo con cui ha annunciato la conclusione dei lavori per la nuova stazione di Parma. Due anni fa l’ascoltai polemizzare con chi ne aveva deciso la costruzione. La qualificò come un’opera inutile (“bastava riverniciare quella esistente“), sovradimensionata (“Parma, alla fine, è grande come un quartiere di Londra”) e inutilmente costosa. Oggi, dunque, avrei apprezzato che nell’inaugurarla avesse detto che il Comune è stato costretto a completarla ed è stato capace di farlo, ma la stazione resterà per sempre quale monumento dell’insensatezza e dello spreco oltre che, per molti anni, un peso economico sulle spalle dei cittadini. Pur ammettendo che la chiusura del cantiere riduce i disagi, parlare della nuova stazione come ha fatto lei (“Parma avrà finalmente la sua stazione”, “Per i parmigiani un’altra bella notizia” ecc.), se non si ricorda pure che cosa porta con sé e che cosa lascia quella struttura, suscita l’impressione che si identifichi con l’opera e, alla fine di tutto il percorso, la condivida.
Infine, penso che debba stare attento a un atteggiamento che, pur motivato, può diventare negativo. Mi riferisco alle sue convinzioni che si amministri per tutti, che amministrare sia difficile e che lavorare a testa bassa non concede sempre il tempo per spiegare tutto a tutti. È vero, ma si deve stare attenti. Un sindaco è di tutti ma è stato scelto per la realizzazione di un programma preciso, in contrapposizione ad altri. Un conto è il rispetto, un altro è allentare il legame con la propria base.
Quanto all’amministrare (a testa bassa riguardo all’impegno, a testa alta riguardo all’onestà e alla trasparenza), il pericolo più subdolo è quello di invertire la direzione del flusso. Lo sforzo di ogni politica veramente nuova, cioè, dovrebbe essere quello di portare i cittadini nelle istituzioni. Se le istituzioni si richiudono nella propria competenza tecnica e dicono “lasciateci fare, che stiamo agendo per il meglio”, il flusso si inverte e la politica torna subito vecchia, con le conseguenze ed i rischi del caso. Tutto questo preambolo per dire che sono assolutamente convinto del fatto che l’azione della sua Giunta in materia di rifiuti sia eccellente, la migliore possibile, ma che non ci sarebbe nulla di male, anzi, se cercasse una conferma del sostegno popolare (referendum consultivo o altro che possa ottenere un risultato analogo) rispetto a un’azione che, sulla base di informazioni che prima non si possedevano, segue un percorso (non uno scopo!) differente da quello che ci si era impegnati a seguire.
Vivo nelle Marche, ma seguo fin dall’inizio la sua attività attraverso la stampa, Twitter e Facebook. Dopo due anni, continuo a considerarla una ersona motivata, coraggiosa e, purtroppo, destinatario di attacchi portati agendo di sbieco anche da persone che si dichiarano del Movimento 5 Stelle. È per questo che mi sono sentito di segnalarle le piccole macchie del mio eroe.
Con stima,
Antonio Messina
P.S.
Beppe Grillo ha il suo numero, ma anche lei avrà quello di Grillo. E ricordate entrambi che oltre voi ci sono ormai milioni di italiani.

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Dal Sud Sudan agli USA. Il “romanzo vita” di Valentino e Dave.

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 13/06/2014 nel sito antoniomessina.it]
Ci sono volte in cui vorrei essere famoso, avere contatti Twitter e Facebook a milioni per poter condividere e promuovere nel modo che meritano certe cose che vedo, ascolto, leggo. È questo il caso di Erano solo ragazzi in cammino. Autobiografia di Valentino Achak Deng (Mondadori, Milano, 2007, pp. 568) scritta da Dave Eggers. Valentino è uno delle migliaia di profughi del Sud Sudan, ennesima terra martoriata da conflitti perenni che dissanguano popoli e economie. I morti si contano a migliaia, i profughi a centinaia di migliaia. Valentino è uno di questi. Dopo una marcia biblica, durante la quale vede tanti suoi amici spegnersi come candele bruciate interamente, il campo profughi di Kakuma, in Kenya, diventa per anni la sua casa. Per dare un’idea: Kakuma esiste ancora oggi, ospita 164.000 persone, 36.000 delle quali sono sudanesi. Poi, un giorno, il visto per gli Stati Uniti, cioè la nuova vita, il sogno. Valentino trova occasioni, amicizie, anche un amore. La realtà, tuttavia, è fatta anche di persone che, semplicemente, non possono capire, non possono neppure immaginare, né hanno bisogno o intenzione di farlo.
La storia di Valentino finisce nelle mani giuste, cioè quelle dello scrittore americano Dave Eggers. Il libro che scrive partendo dalle ore di conversazione con Valentino è esemplare per l’assenza di enfasi o pietismo, per la capacità di restituirci intatte le sensazioni, i pensieri, la lotta per sopravvivere e le speranze del protagonista. Ed è esemplare anche per l’onestà con cui riferisce la realtà dell’esperienza americana di Valentino, un’esperienza fatta di aiuti generosi e di indifferenza, di slanci e delle contraddizioni che trovi negli Stati Uniti. Prima di raccontarne l’infanzia, così, il libro si apre su una rapina con sequestro di persona che Valentino subisce nell’appartamento in cui vive, ad opera di una banda un po’ goffa che lascia un ragazzino a controllare che Valentino non si liberi dai lacci. Da quel momento, il libro è un’alternanza di ricordi e presente, gioie e dolori, sofferenze enormi e istinto di sopravvivenza. Sta soprattutto in questa alternanza la ricchezza del libro, che riesce a raccontare la vita, tutta la vita, così com’è.
A volte, grazie ai libri ci si sente vicini a persone lontane, nello spazio o nel tempo. Come provo a rendere evidente nella pagina di apertura del mio sito Internet, credo nella narrazione come attività connaturata all’essere umano. Perciò, dopo aver letto di tante disavventure, non potevo rimanere indifferente a queste frasi: “Io sono vivo e tu pure, e per questo dobbiamo riempire l’aria delle nostre parole.

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La banda degli onesti

Locandina del film “La banda degli onesti” (1956, regia di Camillo Mastrocinque)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 10/06/2014 nel sito antoniomessina.it]
Facciamo il caso di un concorso pubblico, magari uno di quelli per un posto da vigile urbano a cui partecipano mille concorrenti. L’interesse generale è che fra quei mille si scelga il più bravo, preparato e adatto per quel lavoro. Possiamo anche supporre che, effettivamente, soltanto uno di quei mille sia più bravo, preparato e adatto. Con un piccolo sforzo, siamo poi liberi di immaginare che ciascuno di quei mille pretenda innanzi tutto che il concorso si svolga con modalità tali da assicurare, senza alcun ragionevole dubbio, che il prescelto sia esattamente quell’unico concorrente più bravo, preparato e adatto degli altri 999.
Già a questo punto, però, la costruzione mostra le prime crepe. Per almeno 999 persone, cioè, lo scopo della partecipazione al concorso dovrebbe diventare il riconoscimento che qualcun altro è migliore di loro e, dunque, si assicurerà per tutta la vita lavorativa un impiego stabile e decorosamente retribuito.
Tralasciando quelle tre o quattro persone provviste di un’autostima a prova di bomba, le altre novecentonovanta formano terreno fertile per comportamenti scorretti in grado e forma variabili: dall’appunto nascosto e letto in bagno al suggerimento sussurrato dal vicino; dalla ricerca di notizie che assicurino un vantaggio al momento della prova fino alla corruzione vera e propria. Il tutto, magari, condito da una convinzione analoga a quella di certi ciclisti che hanno dichiarato di doparsi perché, dato che gli altri lo facevano, assumere sostanze illecite serviva soltanto a colmare un handicap e, paradossalmente, ripristinare la lealtà della competizione.
Nell’agire umano poche cose sono automatiche, valide sempre e per tutti. Tuttavia non posso fare a meno di pensare che un movimento che ha fra i suoi motti “l’onestà andrà di moda” debba mettere in conto in questa Italia dove, per dirne solo una, in milioni hanno usufruito dei condoni edilizi, cioè della sanatoria di una condotta illecita, il cammino non sarà facile né breve.

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Votare per chi, votare per cosa

Locandina del film “Un’arida stagione bianca” (1989, regia di Euzhan Palcy)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 29/05/2014 nel sito antoniomessina.it]
Cominciamo da novembre 2011. Silvio Berlusconi conclude la sua esperienza di Presidente del Consiglio lasciando al governo di Mario Monti un debito pubblico di 1.905 miliardi di euro. Monti cede a sua volta il passo ad aprile del 2013, quando il debito pubblico ha raggiunto i 2.042 miliardi. Il successivo governo presieduto da Enrico Letta rimane in carica meno di un anno. Nel momento in cui passa le consegne, a febbraio di questo 2014, il debito pubblico ha comunque stabilito il nuovo record: 2.107 miliardi. Secondo l’ultimo dato diffuso dalla Banca d’Italia, nei due mesi trascorsi dall’insediamento del governo di Matteo Renzi, euro più, euro meno, il debito pubblico, è arrivato a 2.119 miliardi. Però Grillo suda, urla e dice parolacce.
Nelle democrazie di massa, per una quota variabile ma normalmente significativa di persone, la scelta dei decisori è condizionata da un approccio non sempre razionale ai problemi. Si tratta di un fenomeno provvisto di forza propria, che avviene anche quando si dispone di informazioni complete e corrette sebbene, come è ovvio, risulti amplificato quando l’informazione è imprecisa o carente. Inoltre, la sensazione che producono aspetto e voce di una persona è acquisita e elaborata in modo pressoché immediato e, comunque, infinitamente più rapido e efficace del paziente lavoro che occorre, per dirne una, per prendere posizione sul fiscal compact, o per ricordarsi chi ha votato l’adesione dell’Italia ai vincoli posti dal fiscal compact stesso.
Le motivazioni dell’agire umano sono tante quante gli individui. In un bellissimo film, Un’arida stagione bianca, un bianco benestante sudafricano viene condotto dagli eventi a prendere coscienza di quanto sfruttamento, e violenza, caratterizzino il sistema sociale in cui ha finora vissuto in serenità ed agiatezza, ignaro dei drammi che avvengono al di là del suo giardino. Questa nuova consapevolezza lo porta a scontrarsi con le istituzioni e la polizia, sconvolgendo anche la quiete familiare. Così, nel pieno della lotta, la figlia Suzette lo tradisce. Al poliziotto che si congratula con lei per aver fatto la scelta giusta, Suzette replica: “Io voglio solo che tutto torni come prima”.
Distogliere lo sguardo dalla realtà è, ovviamente, più facile che guardarla. Eppure è necessario essere diversi. Così, mentre il debito pubblico italiano continua a crescere, ascolto con la stessa emozione della prima volta l’esortazione dei Pink Floyd a “non voltarsi dall’altra parte”, condita da uno dei più begli assolo di chitarra della storia della musica.

L’assolo di chitarra finale comincia a 3’26”
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Rospo a primavera

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 26/05/2014 nel sito antoniomessina.it]
Prima delle rondini, prima delle giunchiglie e non molto più tardi del bucaneve, il rospo saluta l’arrivo della primavera a modo suo, cioè uscendo da un buco del terreno, dove è rimasto sepolto dal precedente autunno, e striscia, il più rapidamente che può, verso la più vicina e conveniente pozzanghera.” Comincia così un saggio tanto breve (sei pagine scarse) quanto prezioso di George Orwell, pubblicato per la prima volta nel 1946 e raccolto insieme ad altri in un volume, Nel ventre della balena e altri saggi (Bompiani, 2011, pp. 346), comprato in una libreria che smercia rimanenze, ultima tappa prima del macero e riciclaggio della carta.
Che cos’ha di prezioso? Ai miei occhi, la precisione con cui Orwell denuncia uno dei mali peggiori di tanta politica e, soprattutto, di tanta “sinistra”. Dopo tre pagine di descrizione delle piccole meraviglie primaverili, Orwell arriva al cuore del problema con una domanda che mescola buon senso, ironia, ferocia e passione. Si chiede: è un peccato rallegrarsi per la primavera o, “… per essere più precisi, è politicamente riprovevole, mentre tutti soffriamo, o a ogni modo dovremmo soffrire, sotto il giogo del sistema capitalista, far presente che la vita sovente merita meglio d’essere vissuta per il canto di un merlo … o qualche altro fenomeno naturale che non costa un soldo e non possiede ciò che i direttori dei giornali di sinistra definirebbero una visuale classista?
Orwell polemizza con la sinistra del suo tempo, ma una questione di fondo non è esclusiva di quella parte politica né di quell’epoca. Intendo dire che, a mio parere, era, è e rimarrà sempre sbagliato impegnarsi per un obiettivo futuro mortificando il nostro presente. Citando ancora Orwell: “… se distruggiamo ogni piacere nel corso della vita, quale specie di futuro ci prepareremo?
È per questo che amo allo stesso modo impegnarmi, spendermi per gli altri, ma anche passeggiare con mia moglie, godermi un libro o un giro in bicicletta, scrivere le mie piccole storie e dire battute sceme insieme ai miei fratelli. Questi due lati delle mie giornate non si escludono fra loro. Al contrario, penso che si alimentino l’un l’altro. Perciò vado avanti così, con buona pace delle vocazioni univoche e brucianti (che sono cosa diversa dalla dedizione e dallo spirito di sacrificio).
A ogni modo, la primavera è arrivata anche a Londra … e nessuno può impedirvi di goderne. Questo è un pensiero rassicurante.

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In nome mio, di Grillo e di Pizzarotti

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 18/05/2014 nel sito antoniomessina.it]
Ieri, a margine di un incontro sui finanziamenti europei organizzato dal gruppo di Fano del Movimento 5 Stelle, ho avuto modo di ripensare al problema della rappresentanza.
Nel corso dell’incontro hanno preso la parola Hadar Omiccioli, candidato sindaco per il comune di Fano del M5S, e Marina Adele Pallotto, candidata al Parlamento europeo per lo stesso M5S. Tipi diversi. Omiccioli tranquillo, disposto all’ascolto, voce pacata; Pallotto grintosa, debordante, toni alti da tribuno che hanno indotto qualcuno a ricordarle, e la cosa è risultata vagamente comica, che lo scarso uditorio (una quindicina di persone) era composto quasi per intero da aderenti o simpatizzanti del M5S, perciò non c’era bisogno di scaldarsi tanto.
Fatto sta che Omiccioli, per chi abita a Fano, è una presenza discreta ma di lungo corso, impegnato da tanti anni, un mandato come consigliere comunale, partecipe di altre esperienze civili come ad esempio il Gruppo di Acquisto Solidale di Fano. La Pallotto, invece, non la conosceva nessuno. Ed è per questo, in vista delle elezioni europee, che mi è tornata in mente la diversa visione della rappresentanza che hanno espresso Beppe Grillo e il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti.
In breve: Pizzarotti lamentava che tramite le consultazioni online fossero finite nelle liste del Movimento 5 Stelle (anche) persone sconosciute agli attivisti; Grillo replicava che quelle persone erano state selezionate dall’espressione volontaria (telematica) delle preferenze da parte degli iscritti registrati al M5S. Dunque: per Pizzarotti conta di più l’essersi spesi per il proprio territorio, per Grillo è più importante il metodo di scelta. Di conseguenza, per Pizzarotti è buono un candidato conosciuto dagli aderenti al movimento, per Grillo è sufficiente che il candidato sia valido e abbia la possibilità di svolgere bene il suo lavoro.
Evidentemente sono vere entrambe le cose: una persona che si è impegnata molto (magari ad allestire banchetti) non garantisce affatto che sarà un buon parlamentare; un perfetto sconosciuto potrà avere capacità e formazione elevate ma, anche, deviare facilmente rispetto al programma della formazione che lo ha candidato.
Come accade spesso, nessun sistema è perfetto perché è difficile che molteplici esigenze siano tutte soddisfatte da una sola scelta che, per definizione, spazza via dal campo tutte le altre che si sarebbero potute prendere. Ciò premesso, bisogna pur scegliere chi ci rappresenti.
A me piacerebbe che la scelta tenesse conto di quel che nel passato ha realizzato una persona, più che di quello che ha detto. Chi ha saputo gestire bene un condominio, per dire, probabilmente è anche capace di gestire relazioni articolate e conflittuali; chi ha saputo lavorare bene per una cooperativa, forse sa anche come motivare un gruppo.
Detto questo, pur potendo continuare con gli esempi, preferisco concludere con l’ennesimo invito a scegliere, sì, ma con buon senso. Perciò ricordo l’immortale “principio di Peter” secondo il quale, in una organizzazione “meritocratica”, ognuno viene promosso fino a raggiungere il suo livello di incompetenza, cioè si sale nella scala gerarchica fino a occupare un posto per il quale non si è adatti. L’edizione italiana dell’opera di Laurence J. Peter e Raymond Hull è, purtroppo, fuori commercio. Per fortuna esistono le biblioteche pubbliche. Se volete dare una sbirciata dunque, potete cercare qui dove si trova il libro.

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La farina del sacco di Farinetti

Oscar Farinetti

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 25/03/2014 nel sito antoniomessina.it]
Da qualche tempo, sulla stampa cartacea o telematica, accade sempre più spesso di incontrare il nome di Oscar Farinetti. Mi dicono che il titolare del nome è presente sempre più spesso anche in televisione ma io, televisione non avendo, non posso confermare questo fatto. Quello che posso dire, invece, è che a ogni piè sospinto Farinetti è cercato, interrogato, presentato come esempio di imprenditore di successo e, soprattutto, campione dell’italianità che si afferma nel mondo. Come in Italia accade troppo spesso, insomma, Farinetti sta diventando un esempio di vita perché ha avuto un grande successo commerciale. È amico di Matteo Renzi, mangia carne di manzo con Roberto Maroni, impartisce lezioni di coraggio che, ci spiega, è l’esito di sette mosse: amicizia, dubbio, tenacia, onestà, furbizia, capacità d’analisi e originalità che ci permettono di essere felici, vincenti e meravigliosi costruttori, insomma dei fuoriclasse.
Di Farinetti non so molto di più, né è di lui, in fondo, che io sto parlando. Il problema è sempre lo stesso, invece: la costruzione artificiale di un mito anche attraverso l’attribuzione di una valenza positiva a cose e fatti che non l’hanno o, quanto meno, di cui si può discutere se l’abbiano davvero. Tre piccole annotazioni, quindi.
L’Italia è un “marchio” internazionale frutto di secoli di storia. Appropriarsi in qualche modo di quel marchio (le società della famiglia Farinetti si chiamano Eataly, che in inglese suona come Italy) è una furbata del genere che ha chiamato un partito Forza Italia, rubando l’incitamento di milioni di tifosi sportivi. Non è un reato, ma chi lo fa non mi è simpatico.
Farinetti è la copertina del libro. Nelle pagine interne troviamo (da tempo) il nome di Coop e (da poco) quelli dei Branca, Ferrero, Lunelli, Lavazza e Marzotto. La solita concentrazione di ricchezza in un concentrato di ricchi che cercano di esserlo ancora di più. Il che va bene (soprattutto a loro) ma non mi spiega perché dovrei trasformarmi in una sorta di tifoso di Farinetti, come sembra che pretenderebbero certi giornali.
Il successo commerciale non rende ammirevole qualsiasi idea espressa da chi lo ha avuto. Farinetti sta palesemente cercando di far combaciare l’immagine della propria azienda con quella dell’Italia alimentare. Il suo modello commerciale è lo stesso di Ikea nel settore dell’arredamento o di Euronics nell’elettronica di consumo. Storie di enorme successo per quelle aziende che però, attorno ai loro poli, hanno seminato deserto. E perché dovremmo essere entusiasmati da tutto questo?
E, per finire, quanto è vero, solido, questo successo imprenditoriale? La società che detiene Eataly ha ceduto il 20% delle quote azionare della stessa Eataly per 120 milioni di euro, una somma che: “… valorizza il gruppo di Farinetti 600 milioni di euro, cioè 13 volte i margini attesi per fine 2014.”  Il tutto è dichiaratamente finalizzato alla quotazione in borsa fra il 2016 e il 2017. Dunque, fra tre anni i soci metteranno sul mercato le loro azioni. Perciò facciamo così: io oggi penso che attorno a Eataly crescerà lentamente la grancassa fino alla quotazione in borsa, e che una volta incassati i soldi Eataly sarà lasciata sgonfiare su se stessa, tanto a rimetterci saranno i risparmiatori. Fra tre anni vediamo che cosa è successo davvero. Chiunque voglia investire, comunque, si legga bene i bilanci. Se non sa farlo, metta i suoi soldi altrove.
Aggiornamento del 05/08/2019
Le fosche previsioni che avanzo nell’articolo si son rivelate totalmente errate. Al 25 marzo 2017, cioè dopo i tre anni ipotizzati dai proprietari di Eataly e presi a riferimento dal mio articolo, la stessa Eataly non era ancora stata quotata in borsa. In un articolo pubblicato online il 31 ottobre 2018, il Presidente esecutivo di Eataly Andrea Guerra dichiarava che il piano per quotare la società in borsa stava andando avanti e se ne sarebbe saputo di più nei seguenti 6-12 mesi, cioè entro il marzo o entro l’ottobre del 2019. Ad aprile del 2019, il finanziere Giovanni Tamburi ha dichiarato che Eataly “si sta preparando da tempo e ha rimandato un paio di volte, perché i numeri non erano quelli previsti, tra nuove aperture e investimenti mostruosi. Il problema è che la redditività a regime è in sofferenza”. Insomma, a distanza di cinque anni siamo ancora in alto mare e nessuno rischia di rimanare scottato acquistando azioni di Eataly. Peraltro, secondo notizie diffuse di recente la quotazione in borsa è rallentata da un incremento del giro d’affari, arrivato nel 2018 a 512 milioni di euro, però accompagnato da una perdita di oltre 17 milioni e da un indebitamente nei confronti delle banche che ha superato i 96 milioni. Nel frattempo, Eataly non è più diretta da Oscar Farinetti (che ha lasciato l’incarico nel 2015, sostituito dall’Andrea Guerra di cui sopra) e continua a espandersi all’estero. Un’altra di quelle storie con la rana che si gonfia fino a scoppiare?

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La statistica degli statisti e le città metropolitane

Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia dal 2010 al 2014

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 28/02/2014 nel sito antoniomessina.it]
I numeri sono una cosa bellissima. Per esempio, danno molte certezze anche se è un vero peccato che quelle certezze, a differenza dei numeri, abbiano dei limiti. Mi spiego subito. Se un anno mangio dieci carciofi, l’anno dopo 30 e quello dopo ancora neanche uno, sono certo dei carciofi che ho mangiato nel singolo anno, in una coppia di anni e perfino nella somma dei tre anni considerati. È anche sicuro che il secondo anno ne ho mangiati il triplo dell’anno precedente e che il terzo ho smesso di mangiarne. Conoscendo il prezzo dei carciofi, posso addirittura calcolare esattamente quanto ho speso per quel gustoso alimento nel periodo di tempo che scelgo di osservare.
E qui, però, la potenza dei numeri si ferma. Perché compro dei carciofi? Perché ne ho consumate quantità così diverse? Questione di gusto? Mia moglie era ghiotta di carciofi e poi abbiamo divorziato tanto che io, in preda alla depressione, ho smesso di mangiarne perché me la ricordavano troppo? Mi hanno diagnosticato un’allergia? Per saperlo occorrerebbero ulteriori domande, nuove risposte, probabilmente altri numeri: livello di reddito, composizione del nucleo familiare, risultati delle analisi del sangue ecc.
Insomma, i numeri dicono qualcosa, a volte molto, ma raramente tutto. A quanto pare, però, di fronte ai numeri, non tutti hanno la mia stessa prudenza. Giorgio Orsoni, per esempio, cammina sul filo delle cifre come neanche un acrobata da circo.
Siccome non tutti lo conoscono, informo che Orsoni Giorgio è l’attuale sindaco di Venezia, nel viso somiglia vagamente al giornalista Eugenio Scalfari e, per quel che qui interessa, è il “delegato alle Città metropolitane” dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI).
Le cosiddette “Città metropolitane” sono, sostanzialmente, dei grandi agglomerati sovracomunali ai quali viene riconosciuta un’autonomia amministrativa, affiancandosi agli enti locali tradizionali: regioni, province, comuni. Previste per la prima volta nel 1990, poi inserite nella Costituzione nel 2001, fino ad oggi non sono state ancora effettivamente istituite.
Come accade, c’è chi le considera completamente inutili e chi invece le ritiene necessarie. Orsoni appartiene alla seconda schiera e in una conferenza stampa di qualche tempo fa ha snocciolato “alcuni numeri a sostegno della necessità di dare operatività alla riforma … ormai ferma da venti anni.” E quali sono i numeri di Orsoni? Eccoli:
– il 39% dell’occupazione è concentrata nelle grandi città;
– il 50% degli addetti alle attività terziarie lavora nelle aree dove dovranno nascere le Città metropolitane;
– il 36% degli immobili (12 milioni di unità) italiani è ubicato nei grandi centri.
Dunque, conclude Orsoni, l’istituzione delle Città metropolitane non è più rinviabile perché è su tale istituzione che “si gioca la pianificazione strategica metropolitana che, se ben attuata, potrà favorire l’integrazione di politiche e servizi nell’ottica di una programmazione a lungo termine.
A dar manforte a Orsoni è intervenuto Graziano Delrio, già Ministro per gli affari regionali e ora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Delrio, riferiscono, ha detto: “Penso che con l’istituzione delle città metropolitane si possano dematerializzare tutti gli atti burocratici nel giro di 12 mesi.
Sulle ali dell’entusiasmo di fronte al rigore logico di Orsoni e Delrio, mi sono provato anch’io a dilettarmi con dei progetti di riforma.
Riforma del campionato di calcio. Le città di Torino, Roma e Milano hanno il 30% delle squadre di serie A, perciò è necessario istituire un campionato metropolitano che, grazie alla dematerializzazione dei palloni, permetterà di disputare l’intero torneo nel giro di poche ore, con grande vantaggio per i tifosi ansiosi di conoscere il risultato delle partite.
Riforma dell’agricoltura. Il 90% delle attività agricole viene svolta su terreni agricoli e solo il 10% in serre chiuse, perciò è necessario istituire un registro delle produzioni agricole che permetta di conoscere quanti prodotti sono coltivati ricorrendo all’uso di macchine trebbiatrici.
Riforma del cinema. Il 70% dei biglietti d’ingresso viene venduto nei giorni festivi, perciò è necessario istituire dei cinema festivi dai quali, grazie alla dematerializzazione delle poltrone, gli spettatori usciranno non appena si sentiranno stanchi di stare in piedi, con beneficio per gli esercenti che potranno trovare rapidamente un posto agli spettatori in attesa.
Grazie ai numeri, progettare riforme è facile e divertente. Prova anche tu!

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L’aura delle regole

Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati dal 2013 al 2018

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 04/02/2014 nel sito antoniomessina.it]
I casi della vita mi hanno portato a svolgere un’attività professionale che ha per contenuto principale quello di pretendere, verificare e applicare le regole. Tale attività ha la sua dose di spine, specialmente quando costringe a mediare fra uomo (che magari non condivide affatto la regola) e funzionario (che quella regola non condivisa deve, però, applicare), ma tant’è e, sia pure non più di altri, anche garantire il rispetto delle regole è un lavoro difficile. Non so se riesco a svolgerlo sempre nel modo migliore, di sicuro sono più bravo di Laura Boldrini, attuale Presidente della Camera dei Deputati.
Pochi giorni fa, Laura Boldrini ha motivato la sua decisione di mettere ai voti, annullando l’ostruzionismo dei parlamentari del Movimento 5 Stelle, la conversione in legge del cosiddetto decreto “IMU-Bankitalia” con la volontà (della Boldrini, evidentemente) di “impedire che oggi le famiglie italiane dovessero preoccuparsi di tornare a pagare la seconda rata dell’Imu come sarebbe successo se non fosse stato votato per tempo un decreto legge che pure conteneva materie tra loro molto diverse”. Dunque, secondo Boldrini, le cose stanno così: in casi di necessità e urgenza, il Governo emana un decreto legge; se il decreto sta per scadere, il Presidente della Camera ne assicura la possibilità di conversione perché ritiene giusti contenuti e finalità del provvedimento. Dunque, il Presidente della Camera esprime un giudizio di merito e “fa politica”.
La decisione di Laura Boldrini non ha precedenti nella storia della Camera e già questo avrebbe dovuto suggerire qualche riflessione. Per misurare la gravità di quanto accaduto, del resto, è utile ricorrere a una sorta di esperimento mentale. In questo mese di febbraio, lamenta la stessa Boldrini, scadranno i termini per la conversione di vari decreti legge. Se tali decreti non dovessero piacere al Presidente della Camera, questi potrebbe agevolmente lasciare libero sfogo all’ostruzionismo dell’opposizione lasciando che uno o tutti tali decreti non siano convertiti in legge. Sostituzione del Parlamento, fine non dichiarata della democrazia rappresentativa.
Operare a tutela delle regole può essere difficile. A volte, molto difficile. Fra le cose da valutare prima di fare delle eccezioni, mi pare, c’è anche la quota di credibilità che si perde facendo pendere la bilancia da un lato anziché dall’altro. E comunque, ne avessi avuta l’occasione, io avrei scelto un altro modo per passare alla storia.

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Numeri da blogger

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 09/01/2014 nel sito antoniomessina.it, al quale si riferiscono le informazioni contenute nell’articolo stesso]
All’origine di questo articolo ci sono l’invariabile abitudine di essere sincero e quella, altrettanto forte, per la verifica basata sui dati statistici. Fine della premessa e andiamo subito a vedere, grazie ai fantastici rilevatori degli accessi ai siti Internet, se qualcuno ha raccolto i messaggi lanciati dalle mie pagine web.
Nel 2013 le pagine del sito sono state visualizzate complessivamente 7.664 volte. Anche considerando le visualizzazioni dovute ai motori di ricerca, il numero non sarebbe poi così basso. Peccato soltanto che non riguardi me. Delle 7.664 visualizzazioni, infatti, 4.519 (quasi il 60%) si riferiscono alle istruzioni per costruirsi una macchina fotografica a foro stenopeico, un oggettino che, fatta salva la grande amicizia con l’autore Pasquale Aiello, comincio a sentirmi in diritto di odiare cordialmente (anche perché praticamente nessuno di quelli che leggono le istruzioni poi passa a curiosare fra le altre pagine).
Superata la montagna dei numeri fotografici, si arriva a quelli che raccontano davvero del mio sito. La pagina più vista del 2013 (287 visualizzazioni) è quella del blog. Questo numero si riferisce all’indirizzo del blog stesso (antoniomessina.it/blog) ma, evidentemente, comprende le letture dei diversi articoli che si sono succeduti via via (il primo che appare nella pagina è sempre il più recente). L’articolo al quale ci si è collegati direttamente (cioè collegandosi all’indirizzo specifico) il maggior numero di volte è “Twitting Mandela”, letto (o, perlomeno, visto) per 18 volte.
Dopo il blog, la sezione più vista è quella dei racconti, con 86 visualizzazioni. Anche in questo caso, la spiegazione più probabile del buon piazzamento è legata alla maggiore varietà della sezione (che, ad oggi, contiene 16 racconti) e agli aggiornamenti che ne sono derivati. Infine, al momento può farmi piacere ma non trova spiegazioni la buona posizione (19 visualizzazioni) della pagina degli ospiti dedicata a Alessandra Buschi e Raffaella Vicario.
Insomma, siamo onesti: per ora questo blog è poco più di un diario tenuto nel cassetto e fatto leggere a pochi amici intimi o, per ricordare una bella canzone, un messaggio nella bottiglia che si affianca a quello di altri milioni di naufraghi.

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I vivi e i morti

La scrittrice canadese Alice Munro, Premio Nobel 2013

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 02/01/2014 nel sito antoniomessina.it]
La più grande narratrice vivente del Nord America”. Questo lapidario giudizio di Jonathan Franzen è riportato sulla copertina di Nemico, amico, amante (Einaudi, 2003, pp. 315), raccolta di racconti della scrittrice canadese, e recente premio Nobel, Alice Munro. Lungi dal condizionare il formarsi della mia opinione (Nemico, amico, amante è il primo libro della Munro che ho letto in vita mia), le parole di Franzen mi hanno fastidiosamente solleticato. Perché ha sentito il bisogno di specificare “vivente”? Se la Munro, e sia chiaro che non glielo auguro, morisse di qui a poco, diventerebbe la più grande narratrice defunta? Oppure fra i defunti (beninteso: narratori del Nord America) c’è qualcuno più grande di lei? Purtroppo, fra i narratori (italiani) defunti dobbiamo annoverare Achille Campanile che, su domande del genere, sarebbe stato capace di scrivere pagine memorabili.
Comunque sia, Nemico, amico, amante. Si tratta di nove lunghi racconti che esprimono al meglio questa forma di narrazione che, per generare un’esperienza di lettura intensa, deve esaltare il dettaglio che racchiude l’insieme. A volte si tratta di istantanee, a volte di brevi sequenze che descrivono un momento di passaggio, una debolezza che ci impedisce di passare il guado, la rassegnazione a cui ci costringe l’occasione perduta, i dubbi a cui ci porta l’occasione che abbiamo colto. Insomma, le esperienze che possono far parte della vita di molte persone, per non dire di tutte.
Pur molto diversi fra loro, dei nove racconti ho preferito quello d’apertura (“Nemico, amico, amante”, che dà il titolo alla raccolta) e l’ultimo, “The bear came over the mountain”. Il primo è decisamente umoristico, con uno scherzo adolescenziale che ha conseguenze impreviste e a lungo termine. “The bear came over the mountain” (cioè: l’orso attraversò la montagna), invece, è il toccante, a volte duro, racconto della malattia mentale di Fiona e di come suo marito Grant si confronti con gli sviluppi impensati della situazione.
Nemico, amico, amante è senz’altro da leggere. Tuttavia, a lettura ultimata ho pensato che nessuno dei nove racconti raggiunge bellezza e intensità di quello che, ad oggi, rimane il mio racconto preferito in assoluto, cioè “I morti”, in Gente di Dublino, di James Joyce. Il più grande narratore defunto dell’arcipelago britannico.

James Joyce (1882 – 1941)
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MIchele Serra fra sdraiati e sdraio

Michele Serra

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 27/12/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra i libri che ho ricevuto per Natale era in qualche modo inevitabile che ci fosse Gli sdraiati di Michele Serra (Feltrinelli, 2013, pp. 108). Inevitabile perché l’autore ha deciso di dedicare il suo ultimo libro al rapporto genitori-figli visto a partire dalla sua esperienza che, in effetti, ha più di un punto di contatto con la mia: essere un padre di oltre cinquant’anni (in effetti, Serra ne compirà 60 il prossimo anno, dunque sei più di me), con un figlio di meno di 20 (mia figlia ne compirà 18 fra non molti mesi) caratterizzato in modo non singolare (nel senso che a quei comportamenti è attribuita valenza “generazionale”) dall’essere disordinato, pigro, trascurato e incapace di cogliere la differenza fra un un gesto concluso e un gesto incompleto (tipicamente: che la cosa è fatta non quando si è finito di mangiare ma quando il piatto è tolto dalla tavola, pulito delle eventuali scorie più grosse e riposto nella lavastoviglie). Le somiglianze fra me e Serra, però, temo che si esauriscano in questi dati superficiali.
Partendo dall’osservazione stralunata dei comportamenti del figlio (e di una sua amica che finisce nel campo di osservazione) Serra li registra alternando ironia e preoccupazione. Una camminata in montagna, in un luogo della memoria, diventa l’occasione proposta insistentemente al figlio per ricercare una condivisione di esperienze e, di conseguenza, un nuovo legame che permetta poi di passare il testimone. Quando la camminata avviene, col figlio poco allenato e che la affronta con le scarpe sbagliate, dopo un po’ Serra si accorge di essere rimasto indietro. Il figlio lo ha staccato per scollinare da solo, perso alla vista del padre che, da questo, conclude di poter finalmente diventare vecchio.
L’idea di Serra, sembra, è che noi genitori critichiamo i figli perché non sono giovani nello stesso modo in cui lo siamo stati noi, ma che loro sapranno cavarsela bene lo stesso. Personalmente, parlando da padre, ritengo questa tesi tanto consolatoria quanto auto-assolutoria. Consolatoria perché, nella mia pur modesta esperienza, ciò che noto è che le nuove abilità di cui sono provvisti oggi i giovani, alla fin fine, si riducono all’uso delle nuove tecnologie. In questo non rilevo passi avanti per due motivi: quando noi genitori avevamo l’età dei nostri figli, quelle tecnologie, semplicemente, non c’erano e perciò è stupido fare confronti; in secondo luogo, le stesse abilità non si stanno aggiungendo alle nostre ma le rimpiazzano, anche se quelle “vecchie” rimangono necessarie. Il risultato è che, se per qualche motivo va via la corrente elettrica, nessuno o pochissimi giovani sarebbero in grado di svolgere una ricerca, risolvere un problema, reperire un’informazione.
L’auto-assoluzione risiede nel dire che sì, magari non siamo riusciti a trasmettere (o, almeno, a raccontare) la nostra esperienza, però poco male: sono giovani e forti e sapranno percorrere la loro strada, perciò noi padri possiamo rimanere sulle sdraio a leggere e prendere il sole ammirando il panorama.
Io sono affezionato al significato letterale della parola educare. Viene dal latino ex ducere, condurre fuori. È una parola bellissima che comprende tutto: il senso del viaggio, l’aiuto a crescere, il rispetto dei tempi di ciascuno (“si accompagna” e non “si trascina”), il fatto che “fuori” il mondo è grande e ciascuno sceglierà poi dove andare. Ma non ci si può sottrarre al ruolo: il genitore è colui che, fin quando è necessario, come minimo racconta che c’è un “fuori” formato dalle nostre attitudini, dalla relazione con gli altri, dal nostro essere sociali nel modo che più ci è congeniale.
Checché ne dica Serra, insomma, sono convinto che una prossima edizione degli Sdraiati, dopo il finale attuale avrebbe una pagina in più, quella dove si racconta che il figlio si è ritrovato con le vesciche ai piedi e che il padre è dovuto andare in farmacia.

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