Gente indipendente

Lo scrittore islandese Halldór Laxness (1902 – 1998), premio Nobel 1955

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 09/11/2013 nel sito antoniomessina.it]
Ci sono libri talmente ricchi di senso, di sfaccettature e di livelli di lettura da rendere difficile parlarne solo in breve. Gente indipendente (Milano, Iperborea, 2004, pp. 653), dell’islandese Halldór Laxness, premio Nobel 1955, è uno di questi libri.
Scritto fra il 1934 ed il 1935, Gente indipendente ruota attorno alla storia del contadino e allevatore Bjartur, un uomo determinato tenacemente, al limite dell’ottusità, a non avere debiti di alcun genere e con nessuno. Dopo diciotto anni a servizio di persone benestanti, un piccolo podere sperduto e qualche pecora sono la sua personale vittoria, il suo regno, la sua libertà. La sua indipendenza viene prima di tutto: delle relazioni umane, delle mogli, dei figli. I pilastri su cui la fonda sono durezza d’animo e forza fisica oltre che, vien da dire, una fiducia illimitata nelle pecore, specialmente quelle della razza introdotta nel distretto dal reverendo Gudmundur.
Lo stile di Laxness alterna momenti volutamente scarni, considerazioni di taglio quasi giornalistico, qualche pizzico di ironia e pagine di intenso lirismo. In qualche passaggio, sembra di poter trovare in Laxness l’ascendenza dell’oggi acclamatissimo Jón Kalmann Stefánsson. Assolutamente strepitosi, a parer mio, i resoconti delle conversazioni fra amici, dove uno stile quasi da verbale di riunione si rivela efficacissimo nel restituire atmosfere, personalità, momenti.
Bjartur vince molte battaglie ma finirà col perdere la sua indipendenza e praticamente tutte le sue cose materiali. La Prima Guerra Mondiale, i riflessi di questa sul prezzo della carne, il modo di ragionare delle persone che cambia rapidamente al primo accenno di benessere; sono tutti fenomeni che nascono molto lontano da Sumarhus, il podere-regno di Bjartur, ma che riusciranno a travolgerne l’apparentemente inattaccabile autonomia. Ma Bjartur non è tipo da piangere sulle proprie disgrazie. Rimane lo stesso di sempre e va in un nuovo podere a far girare ancora la sua ruota. Unica, grande, differenza, la figlia ripudiata che Bjartur, vincendo il suo orgoglio, è andato a cercare per condividere un tratto di esistenza.
Scrivendo Gente indipendente, Laxness aveva presente la sua epoca e la sua Islanda. Diversi dei temi affrontati, peraltro, superano le barriere temporali perché raccontano problemi che si ripetono nella storia umana: il conflitto fra vecchio e nuovo; la divisione in classi; i turbamenti adolescenziali; la distanza fra chi detiene il potere e chi lo subisce; il sogno di orizzonti più ampi; la lealtà e il tradimento. La vicenda di Bjartur, tuttavia, va oltre le intenzioni dell’autore quando descrive origini, responsabili e conseguenze della crisi economica che finirà per travolgere tutto e tutti. Laxness, cioè, non poteva immaginare che, ottant’anni dopo la stesura di Gente indipendente, buona parte del cosiddetto Occidente si sarebbe trovata a discutere sul ruolo che banche, potere finanziario e manager che lo gestiscono hanno avuto nella crisi economica e sociale di questi anni. Una crisi della quale, non diversamente da quanto accade nel racconto di Laxness, le maggiori conseguenze ricadono su tutti tranne che su coloro che l’hanno provocata.
Gente indipendente si chiude con una frase resa splendida dal racconto che l’ha preceduta: “Poi proseguirono il loro cammino”. Lungo la strada, Bjartur è rimasto lo stesso ma forse è spuntato qualche germoglio di cambiamento. A noi, chiuso il libro, rimane da riflettere sul protagonista, certo, ma anche su di noi, su come viviamo, su come leggiamo il nostro tempo, su come ne affrontiamo le difficoltà. Dobbiamo farlo anche perché, come forse direbbe Einar di Undhirlíd, una storia è una storia, e la realtà è la realtà.

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Il negazionismo, Ruby ed Eluana

Un camera a gas

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 31/10/2013 nel sito antoniomessina.it]
Oscurata dalle polemiche sulle conseguenze della condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale, in queste settimane prosegue in Parlamento la discussione sulle nuove norme che puniranno col carcere (fino a oltre sette anni) la persona che negherà lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. A leggere i giornali, l’esito della futura votazione appare scontato nel senso dell’approvazione. Una vasta maggioranza delle forze presenti in Parlamento, infatti, si dichiara favorevole all’introduzione di questa nuova fattispecie di reato.
La “vasta maggioranza” può essere una bella cosa ma m’insospettisce sempre un poco. Inoltre, mi piacerebbe sapere quanti degli attuali parlamentari che si dispongono a incarcerare chi nega lo sterminio degli ebrei fossero alla Camera dei Deputati il 3 febbraio del 2011 per votare sulla domanda di “autorizzazione a eseguire perquisizioni nei confronti del deputato Berlusconi”. Depurando la questione dagli aspetti tecnico-procedurali, con quella votazione si doveva sostanzialmente riconoscere, o meno, che Silvio Berlusconi aveva telefonato alla Questura di Milano nell’esercizio del suo ruolo di Presidente del Consiglio al solo fine di scongiurare una crisi diplomatica con l’Egitto, crisi che si sarebbe certamente verificata se l’allora presidente egiziano Mubarak avesse saputo che sua nipote Ruby Rubacuori era in stato di fermo presso la Questura. Per la cronaca e la storia: 315 voti pro-Berlusconi, 298 contro, un astenuto. Per la maggioranza dei parlamentari, dunque, compreso quel Renato Schifani che oggi definisce “di grande civiltà” il disegno di legge sul reato di negazionismo, Ruby poteva effettivamente essere ritenuta la nipote di Mubarak.
Ma mettiamo da parte l’autorevolezza di chi ci vuole imporre che cosa pensare e veniamo senz’altro al cuore del problema. Che è, evidentemente, quello delicatissimo della libertà di opinione.
In questo mio blog, indirettamente o recensendo un libro, il tema del nazismo è affiorato già in quattro occasioni (per conferma, cercare il tag “nazismo”). Come la penso, spero che emerga chiaramente. Quanto al cosiddetto negazionismo, lo considero un triste esempio di feroce stupidità. E non mi riferisco tanto all’esito (“L’olocausto è un’invenzione dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale e degli ebrei”) quanto alle argomentazioni (se così le vogliamo definire) secondo le quali farebbe differenza che i morti siano stati tre, quattro o sei milioni; o che il contesto di guerra giustificava comunque l’esecuzione di quegli ordini. Ancora più balorde sono certe argomentazione “tecniche”, come quella secondo la quale le camere a gas dei campi di concentramento, per come erano costruite, non sarebbero state degli strumenti idonei a sopprimere i milioni di ebrei di cui si parla, e dunque lo sterminio è un’invenzione. Argomentazioni balorde perché, a prescindere dalle “perizie tecniche” sulle camere a gas, si sa benissimo che quelle furono uno solo dei molti modi usati per uccidere (o lasciar morire, che è lo stesso) gli ebrei. Del resto, è tipico del negazionismo dire che quella macchia sul tappeto è d’inchiostro e non di sangue (la qual cosa magari è anche vera) per sostenere che quello che si vede steso sul pavimento non è il cadavere di un uomo accoltellato.
Fatto sta che c’è chi pensa che lo sterminio degli ebrei sia un’invenzione della propaganda. È giusto che vada in carcere? È giusto che ci vada chi nega l’Olocausto e non chi nega l’esistenza o la gravità di altri eccidi o sostenga convinzioni più o meno strampalate?
Per qualificare precisamente le azioni umane, il diritto distingue fra il pensare di uccidere, l’istigare ad uccidere e l’uccidere davvero. E, dopo aver distinto, anche il nostro ordinamento punisce le azioni e non il pensiero. Stravolgere questa architettura, sia pure dietro il paravento dell’orrore nazista, spezza una diga di civiltà, rischiando di travolgere la libertà di espressione affidando a maggioranze politiche la decisione di che cosa è corretto pensare ad alta voce.
È per questo che la proposta di legge sul negazionismo mi ha riportato alla mente il caso di Eluana Englaro, la donna vissuta per 17 anni in stato vegetativo, morta il 9 febbraio 2009 a seguito dell’interruzione dell’alimentazione artificiale. Più esattamente, ho ricordato il Consiglio dei Ministri che il 6 febbraio del 2009 approvò (dopo una prima infruttuosa forzatura tramite un decreto legge, poi non controfirmato dal Presidente della Repubblica) un disegno di legge sul divieto di sospendere l’alimentazione e l’idratazione dei pazienti. Ebbene, anche in quel caso, oltre il richiamo accorato al valore superiore della vita, c’era il tentativo di stravolgere la complessa architettura istituzionale travasata nella Costituzione mettendo ogni peso solo sul piatto del potere esecutivo che, a colpi di maggioranza, avrebbe potuto decidere valori morali e addirittura pratiche sanitarie.
Come suol dirsi: viviamo in tempi difficili.

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Ulrich Mühe (1953 – 2007)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/10/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nell’ultimo film di Gianni Amelio, L’intrepido, presentato al Festival di Venezia di quest’anno, il pur bravo Antonio Albanese interpreta il personaggio di Antonio Pane in un modo che mi è apparso monocorde. Quale che fosse la situazione, stesso sorriso dolce, stesso tono, quasi lo stesso volume di voce.
Si può rimanere col dubbio su quanto questa modalità interpretativa sia o no il frutto di scelta consapevole, o su quanto abbiano pesato certe precedenti esperienze di Albanese che però, almeno nel caso del suo indimenticabile Epifanio, ricorrevano a un’essenzialità che aveva altre giustificazioni, altro contesto e, a mio parere, esiti ben più felici.
Fatto sta che vedendo (per la quarta volta) Le vite degli altri, il film di Florian Henckel von Donnersmarck premio Oscar nel 2006, mi è risultato impietoso il confronto fra l’interpretazione di Albanese e la strabiliante prova d’attore fornita da Ulrich Mühe (1953-2007) dando vita al capitano Gerd Wiesler.
Wiesler è uno dei tanti uomini della Stasi, l’apparato spionistico della Germania Est. Una figura grigia e senza slanci come il palazzo in cui vive, un alveare anonimo, contenitore di tristezze e paure. Paradossalmente, a generare un impulso di ribellione è proprio la fede sincera nel regime spietato che sta servendo. Wiesler ha giurato di essere “scudo e spada del partito” e un superiore, invece, lo esorta a trovare qualcosa (qualsiasi cosa) di compromettente su un commediografo a cui un ministro vuole portar via la compagna.
Mühe è meraviglioso e perfetto. Pur se il suo Wiesler non ha mai scatti ed è sempre efficiente e concentrato prima sul suo lavoro e, poi, sulla sua solitaria attività clandestina, ogni momento, ogni passaggio della storia trova il proprio gesto: un sopracciglio che si solleva appena, l’accensione di un interruttore, la mano che spreme un tubetto di concentrato di pomodoro su un piatto di riso bianco, l’indimenticabile sguardo rivolto al cassiere della libreria con il quale si chiude il film …
Mühe è bravissimo. Come accade ai bravissimi, riesce rendere indimenticabili anche occasioni che, in mano ad altri, sarebbero irrimediabilmente perdute. In un film che non considero particolarmente riuscito, Mein Führer – La veramente vera verità su Adolf Hitler, si guardi la scena in cui Adolf Grünbaum, il maestro di recitazione ebreo interpretato da Mühe, si trova sotto una doccia da cui, dopo qualche secondo di attesa, scende effettivamente dell’acqua.

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La storia di un sogno chiamato Giro

Alfonsina Strada (1851 – 1959)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 25/09/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel cuore degli appassionati, il ciclismo professionistico vive da diversi anni una sorta di sindrome dissociativa. Da un lato conserva intatti il suo fascino e la sua popolarità, dall’altro è ormai oggetto di pubblico e diffuso dileggio a causa dell’accertato ricorso, da parte di molti atleti, a sostanze di vario genere ma tutte finalizzate ad alterare i parametri fisici naturali.
L’uso di sostanze dopanti, tuttavia, non è un problema degli ultimi due decenni. Uno dei miei primi ricordi di appassionato delle due ruote è la morte di Tommy Simpson durante il Tour de France del 1967, causata anche dalle anfetamine assunte (e di sicuro non era l’unico) per migliorare la propria prestazione.
Il doping, a ben vedere, negli ultimi decenni è soltanto divenuto più scientifico, con tanto di studi per trovare sia sostanze che accrescano forza e resistenza, sia i modi per occultarle ai controlli. Ciò non toglie che la piaga sia antica e, chissà, nata assieme alle gare.
Nel cuore degli appassionati, tuttavia, il sogno vince sempre sull’evidenza ed è questo, forse, l’unico limite del prezioso saggio di Mimmo Franzinelli Il Giro d’Italia – Dai pionieri agli anni d’oro (Feltrinelli, 2013, pp. 342). Prezioso perché Franzinelli ricorre al suo riconosciuto valore di studioso per raccontare la storia del Giro d’Italia con vivacità e rigore. Una storia fittamente intrecciata con quella più grande dell’Italia, del suo sviluppo economico (interessanti i dati sul numero di biciclette circolanti in Italia nei primi decenni di diffusione di questo veicolo) e delle sue vicende politiche (dalla preferenza che il regime fascista riservò al calcio, alla celebre vicenda del Tour vinto da Bartali dopo l’attentato a Togliatti).
Il libro di Franzinelli è completamente, e gradevolmente, lontano da ogni celebrazione retorica delle gesta dei corridori. Peraltro, è proprio la narrazione asciutta degli eventi sportivi a lasciare briglia sciolta alla fantasia del lettore, libero di entusiasmarsi per le imprese di Binda, Bartali e Coppi, così come per la singolare vicenda della campionessa Alfonsina Strada.
Il doping c’era anche prima di Lance Armstrong (vincitore di sette Tour de France fra il 1999 e il 2005). Al tempo dei pionieri, forse, tutto si risolveva in qualche caffè ma sarebbe rischioso sostenere che il fenomeno sia esploso negli anni ’80. Sembra più probabile, invece, che la pratica del doping sia risultata più evidente non appena si è intensificata l’azione di controllo. Forse pensando a questo, dopo aver raccontato l’epoca del grande entusiasmo dei primi decenni del Giro, Franzinelli preferisce dedicare l’ultima parte del libro alla figura di Vincenzo Torriani, il dinamico organizzatore di decine di edizioni della prestigiosa corsa a tappe che, da manager dietro le quinte, finì col diventare un personaggio popolare quasi quanto i corridori.

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Prigionieri di Paasilinna

Lo scrittore finlandese Arto Paasilinna (1942 – 2018)

[Articolo pubblicato con leggere differenze per la prima volta il giorno 09/09/2013 nel sito antoniomessina.it]
Il naufragio, la scoperta del luogo in cui la sorte ha deciso di scaraventare il protagonista, la risoluzione del problema della sopravvivenza e, se il naufragio è collettivo, l’organizzazione del vivere sociale. Lo scrittore finlandese Arto Paasilinna non trema di fronte a un tema affrontato da decine di opere letterarie e lo rivisita a modo suo, con quella miscela di ironia, distacco, divertita curiosità e rassegnata compassione che costituisce la lente attraverso la quale racconta il mondo degli uomini anche in Prigionieri del paradiso (Milano, Iperborea, 2009, pp. 199).
Stavolta il naufragio è in effetti un ammaraggio di fortuna di un aereo noleggiato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. A bordo dell’aereo viaggia del personale ingaggiato per la realizzazione di progetti umanitari in Asia. La mano dell’Autore è riconoscibile fin dall’elenco dei passeggeri sopravvissuti al disastro: 14 infermiere svedesi, 10 ostetriche finlandesi, 10 tagliaboschi finlandesi più un giornalista, medici, piloti, tecnici forestali ecc. Una miscela paradossale costretta a inventarsi un’esistenza comune con gli esiti prevedibilmente imprevedibili dei personaggi di Paasilinna.
Sul tema del naufragio e di quel che segue, però, Paasilinna innesta alcune varianti di non poco conto. Per esempio, l’isola deserta è in realtà una zona disabitata e lussureggiante nonché, si scopre, ai margini di una zona di guerra (fra governativi e ribelli). Il mondo e i suoi problemi, dunque, non sono poi così distanti e la vita della piccola comunità, fatta di capanne, liquore di cocco, pesca e scimmiette addomesticate, somiglia molto al “voltarsi dall’altra parte” di tante persone ben inserite nel mondo civilizzato.
Il fatto che i naufraghi siano tutti professionisti impegnati nella cooperazione internazionale, così, denota la vena più sarcastica, qualche volta addirittura feroce, con la quale Paasilinna racconta le cose umane. Un esempio efficace di questa vena è senz’altro rappresentato dalla descrizione del progetto internazionale che coinvolgeva le ostetriche finlandesi ed al quale, senza l’incidente aereo, esse si sarebbero dedicate: la diffusione in Bangla Desh dei metodi di controllo delle nascite. “Per questo nella stiva dell’aereo c’era qualche milione di spirali intrauterine in rame prodotte dalla Outokumpu e altrettante pillole anticoncezionali, riservate alle donne che avessero accettato di prenderle e fossero in grado di contare fino a trenta.” Sulla cooperazione internazionale si è scritto molto, Paasilinna dice parecchie cose in poche righe.
Come in tutti i libri di Paasilinna, tuttavia, il sarcasmo è spruzzato qua e là, insieme al divertimento e, a ben vedere, anche all’invito a non prendersi troppo sul serio così come, all’occorrenza, a cercare un po’ d’allegria in qualche superalcolico distillato artigianalmente.

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Capire la risata

Sophia Loren

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 17/08/2013 nel sito antoniomessina.it]
Fra i non addetti ai lavori, il principale motivo per leggere i libri sull’umorismo sono gli esempi, cioè le barzellette utilizzate per spiegare questo o l’altro meccanismo che innesca la risata. Qualche bel motto di spirito non manca neppure nel volumetto Psicologia dell’umorismo (di Alberto DIONIGI e Paola GREMIGNI, Roma, Carocci, 2010, pp. 125) ma non è per questo che si può consigliarne la consultazione.
In poco più di un centinaio di pagine i due autori forniscono un quadro completo, sebbene sintetico, dello stato dell’arte riguardo alle ricerche sull’umorismo. Nei quattro capitoli del libro, così, troviamo riepilogate le notizie sulla fisiologia della risata, le teorie che hanno tentato di spiegare che cosa e perché suscita il riso, di quali funzioni sociali è stato accreditato l’umorismo e, infine, le ricerche sugli effetti dell’umorismo sulla salute umana.
Il quadro che ne risulta è quello di un fenomeno non ancora definitivamente spiegato e per il quale le molte teorie proposte, a lettura ultimata, appaiono spesso tanto valide quanto parziali.
Peraltro, la situazione si presenta diversa nei differenti campi di indagine. Le numerose idee presentate nel terzo capitolo (sulle funzioni sociali dell’umorismo) si risolvono in un elenco di possibilità che potrebbe essere completo ma che, alla fin fine, si limita a enumerare, senza riuscire a spiegarle, tutte le possibili funzioni sociali dell’umorismo. Uno scavo più efficace, invece, sembra quello dovuto alle indagini riassunte nel secondo capitolo, dedicato al riepilogo delle spiegazioni via via tentate (e lo si è iniziato a fare secoli fa) per capire perché un fatto, una frase, una situazione modifichino il nostro essere al punto da originare la risata.
Fra le teorie più accreditate (accanto a quella “del sollievo” e a quella “della superiorità”) ne ho trovata una, detta “dell’incongruità”, che corrisponde a certe mie, assai empiriche, riflessioni su che cosa provochi la risata. Secondo questa teoria, la risata si scatena a seguito dello scarto fra la situazione, come si presenta in base ai nostri schemi mentali acquisiti, e la soluzione, che getta una luce improvvisa e differente sulla situazione stessa. E nel solco dei saggi sull’umorismo, non voglio privarmi di un esempio (preso da qui, anche se non mi sono trattenuto dal modificarlo) che vorrebbe convalidare questa teoria.
Su un ramo ci sono dei pipistrelli, tutti appesi a testa in giù tranne uno che sta dritto in piedi. Due pipistrelli vicini commentano: “Sai cos’ha quello lì?”. “Non lo so. Fino a due minuti fa stava bene e poi è svenuto.”
La teoria dell’incongruità è complessa più del riassunto che ne ho appena fatto. Peraltro, dalla lettura del libro ho anche scoperto che le mie personali riflessioni mi avevano portato a pensare quella teoria ma in forma ibrida, mescolata con qualche aspetto della “teoria della superiorità”. Infatti, mi sono sempre detto che un uomo che scivola su una buccia di banana crea senz’altro incongruità, tanto maggiore quanto più il soggetto è serio, impettito o assorto. Questo da solo, tuttavia, non spiega perché la caduta ci fa ridere anziché suscitare partecipazione e solidarietà. Prima ridiamo e solo dopo, rientrati in noi, pensiamo a soccorrere. Che l’umorismo non sia disgiunto dalla nostra personale dose di cattiveria?

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Scuola di giornalismo

Testata del sito di informazione locale “fanoinforma”

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 10/08/2013 nel sito antoniomessina.it]
Da qualche tempo, nei bar della città marchigiana dove abito, accade di trovare il giornale gratuito Fano Informa. Una cosina leggera, giusto un foglio stampato sulle due facciate, cinque o sei brevi articoli di cronaca locale, qualche inserzione pubblicitaria, uno staff di redazione proporzionato al tutto (sulla prima pagina del numero che ha dato spunto a questo mio modesto scritto, due articoli a firma Jacopo Frattini e un terzo firmato con la sigla J.F.).
Tuttavia, poiché pur sempre di informazione si tratta, è stato con l’occhio di persona che si vuole informare che un paio di giorni fa, gustando un gelato, ho letto il numero di Fano Informa lasciato su un tavolino a beneficio dei clienti di passaggio.
L’articolo di apertura era dedicato al dibattito interno al Partito Democratico in vista della scelta del candidato sindaco da presentare alle prossime elezioni amministrative. Devo ammetterlo: una perla di giornalismo. Cito alla lettera i passaggi essenziali (chi volesse leggerlo per intero, lo può fare qui):
“Il partito Democratico mette in ordine le voci che in questi giorni si stanno rincorrendo a proposito della volontà di Massimo Seri di non passare attraverso le primarie.

Daniele Sanchioni, consigliere comunale del Pd, sostiene che … “A proposito delle primarie, Massimo Seri è una figura che gode della fiducia di molti e per questo motivo non dovrebbe aver paura di confrontarsi con altri candidati”.

Enrico Nicolelli … spiega che “anche io ho sentito del pensiero di Massimo Seri di voler saltare le primarie. Si tratta di una persona stimata e conosciuta ma, come Partito Democratico, non possiamo essere prigionieri delle decisioni di un’ unica persona. La sua è una legittima fuga in avanti, che potrebbe anche essere presa in considerazione ma solo in un secondo momento.”

Da parte sua, il segretario Stefano Marchegiani smentisce la presunta volontà dell’attuale assessore provinciale di voler saltare le primarie. “Massimo Seri a me ha sempre detto di non aver nessun problema a passare attraverso le primarie. Siamo in estate e di voci di fantapolitica se ne sentono tante”.
A questo punto, ormai definitivamente incuriosito, il lettore provvisto di livelli ordinari di intelligenza e propensione al pettegolezzo si rivolge, inevitabilmente, la domanda: e Massimo Seri, che cosa avrà da dire di tutto quello che dicono di lui? Invece, niente. Fine dell’articolo nonostante il fatto che Massimo Seri abiti a Fano e sia assessore a Pesaro, cioè a dodici chilometri da casa sua e, per dirla tutta, anche dalla sede di Fano Informa. Possiamo poi immaginare che abbia un telefono fisso e un cellulare privati, mentre è certa l’esistenza di un recapito telefonico nella sua sede di lavoro. Allora dico, senza pretesa di dar lezioni: non lo si poteva chiedere a lui se ‘ste primarie le vuol fare o no?
Ecco, a volte si accusa certa stampa di non informare adeguatamente il pubblico dei lettori. Fano Informa sceglie un’altra strada: la fuga dalla notizia.

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La penna di Jonathan Swift per Bartolomeo Giachino

Bartolomeo Giachino

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 07/08/2013 nel sito antoniomessina.it]
Il 1° agosto scorso la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale. La data, a leggere le cronache, sarebbe di quelle da considerare storiche al pari del 2 giugno o del 25 aprile. Sarà. Sta di fatto che, fra mille considerazioni possibili, a me è venuta in mente sempre la solita: l’attenzione dei media è come il faro che a teatro viene detto “occhio di bue”; la luce si concentra su un punto e tutto il resto rimane in ombra. Eppure il resto c’è, concreto, vero e rilevante come l’unico oggetto illuminato.
È per questo che a volte sogno di avere la penna di Jonathan Swift, la sua impressionante capacità di mettere a nudo anche le pieghe del vivere sociale e dei personaggi che brulicano al suo interno. Già, perché sono dispostissimo ad ammettere che Berlusconi non è un cittadino come gli altri per risorse economiche, ruolo pubblico, relazioni personali, e che la sua condanna ha conseguenze che vanno al di là della pena che gli è stata inflitta e tuttavia, io credo, l’attenzione spasmodica su uno non deve farci dimenticare tutti gli altri. Mentre gli occhi sono posati su Silvio Berlusconi, infatti, centinaia di figure di secondo piano proseguono (va da sé: a spese nostre) il loro paziente e indefesso lavorio nelle pieghe del nostro apparato pubblico. Nei giorni scorsi, così, sono stato colpito dalla figura di Bartolomeo Giachino.
Dopo aver ricoperto diversi incarichi privati, che qui non interessano, Bartolomeo Giachino esordì in quelli pubblici il 31 marzo del 2005 diventando (su designazione di un’associazione di categoria dell’autotrasporto) uno dei 64 consiglieri nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL). In quello stesso giorno negli Stati Uniti d’America, fra mille polemiche di risonanza mondiale, Terri Schiavo muore dopo 15 anni trascorsi in stato di coma vegetativo, a seguito dell’interruzione, autorizzata dal Tribunale, dell’alimentazione forzata. Quattro settimane prima, in Iraq, il funzionario del SISMI Nicola Calipari era stato ucciso dal “fuoco amico” durante le operazioni di liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, vittima di sequestro.
Nel 2008 Giachino diventa Sottosegretario di Stato del Ministero dei Trasporti (quarto governo Berlusconi). È l’anno in cui il petrolio supera il prezzo di 100 dollari al barile, il Ministro Clemente Mastella si dimette dopo che sua moglie è stata arrestata, oltre cento Stati approvano il trattato contro le bombe “a grappolo”, la banca americana Lehman Brothers fallisce, la crisi delle borse brucia 450 miliardi di euro, il senatore afroamericano Barack Obama è eletto presidente degli Stati Uniti.
Nel 2009 Giachino viene nominato Presidente della Consulta Generale per l’autotrasporto e per la logistica (CGAL). La Consulta (un centinaio di persone a comporla) svolgeva più o meno le stesse funzioni del CNEL (cioè, di fatto, niente o quasi) però limitandosi al settore dell’autotrasporto e logistica. Nel resto del mondo, la Norvegia e la Svezia legalizzano i matrimoni omosessuali, un aereo francese precipita nell’oceano Atlantico con 228 persone a bordo, in Germania crolla il palazzo dell’archivio storico di Colonia, in Afghanistan muoiono 16 italiani in un attentato. In Italia, nei dintorni di Messina, 35 persone muoiono a seguito di una frana che travolge due paesi, a l’Aquila c’è il terremoto e il Governo decide di svolgere lì il G8.
Nel 2012 il governo Monti trasferisce le funzioni della CGAL al Ministero dei Trasporti e Giachino rimane senza un ufficio presso cui essere consultato. Per sua fortuna, a febbraio 2013 ci sono le elezioni ed i casi politici italiani fanno sì che lo schieramento al quale aderisce Giachino sia di nuovo al Governo. Siccome la Consulta non c’è più, e far presiedere a Giachino il nulla darebbe nell’occhio, a metà del maggio scorso il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi nomina Giachino suo consigliere personale. Incarico vago, ma pur sempre un incarico. Anche in questa veste, da un paio di mesi Giachino si sta adoperando per far assegnare alla città di Torino la sede della nuova Autorità dei Trasporti.
Ecco, tutto qui. Niente di particolarmente scandaloso, né illegale. A colpirmi è semplicemente il costante lavorio di Giachino per intercettare una poltrona di seconda fila. Nel mondo e in Italia succede di tutto, ma lui non dimentica quel posto nel Consiglio, la presidenza della Consulta, la casella da Sottosegretario o, almeno, l’incarico personale del Ministro. Il debito pubblico italiano stabilisce nuovi record praticamente di mese in mese ma Giachino scrive a tutti: ministro, giornali e colleghi di partito per dare alla sua città un ente pubblico in più.
“Un giorno l’imperatore volle intrattenermi con parecchi dei loro giochi nazionali, nei quali eccellono su tutti i paesi che ho conosciuto, sia nella abilità che nel fasto. Nessuno mi divertì quanto quello dei funamboli che ballavano su di un sottile filo bianco, lungo un mezzo metro e alto da terra un trenta centimetri. Su questo gioco chiedo al paziente lettore di potermi dilungare un po’.
A praticare questo esercizio sono solo quelle persone candidate a ricoprire cariche elevate o alte onorificenze della corte. Fin da giovani vengono addestrate a questa arte e non tutte sono di sangue nobile o di cultura liberale. Quando una carica di primo piano è vacante, perché il titolare è morto o è caduto in disgrazia, cinque o sei candidati alla successione presentano all’imperatore la richiesta di potere intrattenere Sua Maestà e la corte esibendosi sulla corda.
Colui che fa più salti senza cadere, ha diritto a subentrare in quella carica. Molto spesso gli stessi ministri sono obbligati a dare prova della loro bravura, per convincere l’imperatore che sono sempre in possesso della loro abilità.” (SWIFT, Jonathan, I viaggi di Gulliver).

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L’imbarazzo che procura William Stoner

John Edward Williams (1922 – 1994). Fonte immagine: The Guardian

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 26/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Per quel che mi riguarda, nove volte su dieci l’espressione “passaparola dei lettori” si risolve in un nome e un cognome precisi, precisamente quelli di mia sorella Angela. Devo ancora a lei il consiglio di lettura che mi ha portato a Stoner (Roma, Fazi Editore, 2013, pp. 332), romanzo di John Williams pubblicato per la prima volta nel 1965 e che oggi sta conoscendo una seconda rigogliosa vita.
La storia racconta un’esistenza di quelle che passano abbastanza inosservate, il protagonista non è né più coraggioso né più vile di tanti altri. Eppure, la scrittura di Williams avvolge questa medietà in una luce profondamente umana. Anche chi non si riconosce (o teme di farlo) nel protagonista, così, neppure si sente superiore a lui.
Il registro dei commenti al libro (fra i quali la recensione, scritta da mia sorella, alla quale rimando volentieri) varia dal positivo all’entusiasta, con qualche punta che reclama la qualifica di capolavoro. Appare divertente, peraltro, notare come in numerosi di quei commenti ricorra spesso una sorta di imbarazzato bisogno di giustificare (anche a se stessi) perché una vicenda così invariabilmente priva di climax e apogei narrativi sia riuscita a intrigare fino a far leggere il libro, come si dice, tutto d’un fiato. E non pretenderò di essere io a risolvere l’interrogativo.

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La nostra coscienza è più vicina del Kazakistan

Il passaporto di Alma Shalabayeva

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 21/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
So a malapena dove è il Kazakistan e non ho idea se il signor Ablyazov sia una brava persona o un farabutto, ma è degli italiani che hanno agito che ora voglio dire.
La polemica politica nata in seguito all’operazione di rimpatrio in Kazakistan della moglie di Mukhtar Ablyazov, Alma Shalabayeva, e di sua figlia Alua, e poi i commenti giornalistici che ne hanno dato conto, hanno finito per concentrarsi su quanto fossero opportune o doverose le dimissioni del Ministro dell’Interno. Fra i commenti che ho letto, tuttavia, pochissimi hanno sfiorato un aspetto che per me, invece, conta più di qualcosa.
A leggere i resoconti, nell’operazione che fra il 28 e il 29 maggio scorsi si è conclusa con il rimpatrio forzoso di una donna e di una bambina di sei anni sono stati coinvolti almeno due prefetti, sei alti funzionari e fra i 35 e i 50 (i resoconti non concordano sul numero) agenti della polizia italiana. Contando anche gli operatori di polizia e degli aeroporti meno direttamente coinvolti, si arriva facilmente a poco meno di un centinaio di persone che hanno cooperato in qualche modo ad un rimpatrio che in pochi giorni si è rivelato privo di ogni necessaria base giuridica, tanto che il Governo italiano ha revocato il provvedimento di espulsione e informato le autorità del Kazakistan che Alma Shalabayeva potrà rientrare in Italia.
Cento persone sono tante, eppure, di fronte a un’operazione che faceva acqua da molte parti, nessuna si è non dico opposta, ma neppure posta la domanda su quanto fosse corretto quello che stava facendo. Per dire: ti mandano a cercare un pericoloso latitante, trovi una bambina di sei anni, e non ti viene in mente di capire meglio quello che sta accadendo?
Io per qualche anno sono stato un “esaminatore” agli esami per la patente di guida. Il primo giorno in cui ho cominciato a svolgere questa attività, nella carta d’identità del primo candidato che esaminavo in vita mia c’erano centomila lire. Cento euro di oggi o giù di lì, nel documento di un ragazzino di diciotto anni. Quando dissi che quei soldi non mi servivano per riconoscere il candidato, la banconota fu ritirata dall’istruttore di guida che affiancava il ragazzo. Tempo dopo, al momento di rientrare in ufficio dopo un esame concluso con la bocciatura, il padre di un candidato provò a allungarmi furtivamente un po’ di soldi. Non essendoci altre persone presenti che potessero testimoniare la tentata corruzione, mi limitai a non prenderli e a alzare un po’ la voce. A un esame di revisione della patente una signora elegante si presentò accompagnata da un personaggio di quelli che “contavano”. Costui ebbe la premura di dirmi che aveva “già parlato” con un mio superiore. La signora non spiccicò parola e la bocciai. Non sono poi state pane quotidiano, ma neppure infrequenti, le richieste di far passare avanti qualche pratica. Nel modo più gentile, ho sempre rifutato.
In trent’anni e passa di lavoro per la pubblica amministrazione, insomma, qualche no l’ho detto. E pensando al caso Shalabayeva mi viene in mente che i miei piccoli no non hanno richiesto coraggio fisico né un rigore morale fuori della portata di ogni persona comune. Sì, a volte ho scontato un po’ di isolamento, altre ho dovuto perdere tempo per argomentare cose che dovrebbero essere ovvie, altre ancora può avermi infastidito che persone che dovrebbero rappresentare e garantire tutti si preoccupassero soltanto di ottenere un “favore” all’amico di turno; e tuttavia, detto francamente, quasi sempre è bastato dire no e far capire il tipo che avevano davanti.
Ammetto che, nei casi che ho citato, gli interessi in gioco non erano paragonabili alle commesse petrolifere per miliardi che legano l’Italia al Kazakistan, ma mi ostino a pensare che sarebbe bastato che una delle cento persone coinvolte sollevasse un dubbio, ponesse una domanda, addirittura obbedisse ai propri superiori e non, come pare sia accaduto, all’ambasciatore di uno Stato straniero, perché le cose andassero diversamente.
Alla fine, così, le domande che mi frullano in capo sono sempre le stesse. Che cosa fa sì che per molti sia così facile assentarsi dalle proprie responsabilità? Come è possibile che si attivino ingranaggi che coinvolgono cinque, dieci, cento o migliaia di persone senza che nessuna di queste si confronti anche con la propria coscienza?

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Nelle maglie del mio sito c’è un foro (stenopeico)

Rappresentazione del funzionamento del foro stenopeico

[Articolo pubblicato, con lievi differenze, per la prima volta il giorno 16/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Seguendo i consigli dei miei tre “angeli custodi” informatici, cioè Antonio Bonacchi, Alberto Balducci e Michele Catozzi, dall’inizio di questo mese di luglio 2013 sono tornato a avventurarmi nella rilevazione statistica degli accessi al sito www.antoniomessina.it.
La prima curiosità che mi son voluto togliere è stata quella relativa al totale giornaliero dei visitatori “unici”, cioè quante persone hanno visualizzato, di giorno in giorno, una o più pagine del mio sito.
Non mi aspettavo di sicuro grandi cifre, tuttavia la decina di persone che (in media!) passano ogni giorno da antoniomessina.it mi pare che possa giustificare la facilità con la quale ho tenuto a freno grida di gioia, salti ed altre consimili manifestazioni di esultanza.
Superata la lieve delusione, ignaro di quel che mi preparava l’avvenire, mi sono voluto togliere un’altra curiosità: quale pagina del sito aveva attirato di più l’attenzione? Un articolo del blog? Un racconto? La presentazione dell’ultima stesura del mio romanzo Un anno a Mussulmano?
Ebbene: grazie al sofisticato programma che elabora le statistiche degli accessi al sito posso rendere noto che oltre il 49% dei visitatori ci è finito cercando notizie sulla macchina fotografica a foro stenopeico. Dunque non per un mio racconto, non per un mio romanzo, non per una mia poesia e neppure per i racconti, i romanzi e le poesie scritti da altri autori che ho, con piacere, ospitato nel mio sito. No, la metà dei visitatori finora registrati è finita nel sito per errore e cercando tutt’altro che letteratura o opinioni di argomento cultural-politico. Cercava, trovandole, informazioni sulla macchina fotografica a foro stenopeico. Grazie alla pagina redatta dal mio amico Pasquale Aiello (la trovi cliccando qui) si può perfino sapere come costruirsene una da soli, usando materiali che ci si può procurare facilmente e sostenendo costi prossimi allo zero.
Smaltita la delusione e concluso l’esame delle mie statistiche, la domanda che più mi è ronzata in capo è stata questa: chi avrebbe mai detto che ogni giorno cinque o sei persone cercano informazioni sul foro stenopeico? E soprattutto: cosa mai vorrà dire “stenopeico”?

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Un fotogramma dal film The Van (1996, regia di Stephen Frears), tratto dall’omonimo romanzo, del 1991, di Roddy Doyle

[Articolo pubblicato, con lievi differenze, per la prima volta il giorno 10/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Alle elezioni politiche dello scorso febbraio un quarto degli aventi diritto ha scelto di non votare. Se esistesse un partito degli astensionisti, perciò, attualmente sarebbe la forza più consistente nel panorama politico italiano. Naturalmente è impossibile ricondurre la decisione di non votare di quasi dodici milioni di persone ad un unico denominatore. Ognuno avrà avuto le sue ragioni.
A ridosso delle elezioni mi venne da pensare che l’astensione dal voto (scelta legittima e anche da me lungamente praticata) ha una valenza positiva quando non è astensione dalla partecipazione alla vita della comunità. Non credere a partiti e istituzioni fino a decidere di non partecipare al rito stanco del seggio elettorale, cioè, ha valore culturale e sociale se si contribuisce in altra forma, e poco importa quale, alla “conversazione” e al soddisfacimento dei bisogni presenti nel piccolo o grande ambiente in cui viviamo. Altrimenti si tratta di cose diverse ma tutte ugualmente negative: indifferenza, inerzia, ignoranza.
La modesta riflessione post-elettorale mi è tornata in mente e ha trovato, secondo me, conferme dopo aver partecipato a due eventi culturali in quel di Pesaro, di assai diverse portata e partecipazione: il festival Popsophia e la sesta “Maratona di lettura” organizzata dalla Biblioteca San Giovanni.
Popsophia è un festival che nei cinque giorni della sua durata ha proposto in serie una sorta di talk show filosofico. Nella sua modalità di svolgimento tutto richiamava la televisione e i suoi programmi: le poltrone e il divano collocati sul palco; il megaschermo che ripropone le immagini di chi davanti a te ti sta parlando; il pubblico in posizione di spettatore passivo, separato, chiuso in sé stesso e nella sua isolante attività di ascolto. Stando alla mia esperienza diretta, è perfettamente credibile la notizia che Popsophia abbia richiamato in media circa quattromila persone al giorno.
Popsophia 2013 si è svolta dal 3 al 7 luglio. Il 9 seguente, invece, la Biblioteca San Giovanni di Pesaro organizzava la sua sesta maratona di lettura. La piccola condizione posta ai lettori era che il brano scelto fosse da un libro che avesse avuto una versione cinematografica. Io ho letto da Due sulla strada, di Roddy Doyle. Gli altri undici hanno variato molto: da Susanna Tamaro a Luciano Bianciardi, da Alessandro Manzoni a Dacia Maraini, da Umberto Eco a Michail Bulgakov e così via. Un’occasione piacevole, ma rimane il fatto che abbiamo letto in dodici, e poco più ad ascoltare e basta.
Ovviamente, pur trattandosi di due eventi entrambi di carattere culturale, non è neppure immaginabile una realtà rovesciata, con mille persone a leggere e una dozzina ad ascoltare Marc Augé. Tuttavia rimangono significativi lo straordinario scarto numerico ed il fatto che le persone accorrano in massa dove sono soltanto spettatrici, lasciando a un’esigua pattuglia di appassionati il luogo pubblico della partecipazione.
Insomma, sono tempi difficili e non soltanto per la crisi economica che ci attanaglia. Anzi, proprio questa crisi sta evidenziando come il cosiddetto tessuto sociale sia intriso di passività, all’apparenza privo della capacità di reagire a circostanze alle quali sembra assistere come se non lo riguardassero, seduto sul divano davanti all’ennesimo programma, sempre interrotto dalla pubblicità.
Alle elezioni politiche di febbraio 2013, insomma, si astennero undici milioni di persone, alla maratona di lettura si è astenuta una città. Le due cose non c’entrano fra loro? Per me sì o, quanto meno, sono un segnale leggibile dello stato attuale delle cose. Stato che non è bello ed io, per consolarmi, ricorro ancora alle storie dei miei libri che qualche volta provo a condividere. Della mia prima maratona di lettura alla Biblioteca San Giovanni ci sono tracce in Rete. Non sono quel che si definisce un fine dicitore, ma il testo supera i miei inciampi.
Buon ascolto, e buon futuro.

Antonio Messina legge, non bene ma con sincera riconoscenza per l’autore del romanzo, l’incipit de Il profumo, di Patrick Süskind
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