Intervista a Giulio Cristoffanini

Emergency nasce nel 1994 per curare le vittime civili dei conflitti armati. Io venni a sapere della sua esistenza circa quattro anni dopo (in un modo non particolarmente nobile, cioè attraverso il sito della squadra di calcio per cui simpatizzo, l’Inter). E dunque è dal 1998 che mi ronza nella testa una domanda: perché Emergency? Ci sono già la Croce Rossa, Medici Senza Frontiere e tante altre. Perché una nuova organizzazione?

Emergency agisce in completa indipendenza, con criteri suoi non sempre sovrapponibili a quelli di altre organizzazioni. La decisione di fondare l’associazione è progressivamente maturata in Gino Strada, effettivo fondatore, proprio durante la sua collaborazione con altre ONG, sollecitata soprattutto da due aspetti. Il primo riguarda l’impiego del denaro raccolto. Molte ONG (parlo di quelle “buone”, non di quelle truffaldine, che pure esistono) impiegano una percentuale spropositata del denaro raccolto per le proprie spese generali: sedi, stipendi, servizi e così via. Spesso più del 50% del loro budget complessivo. Ne deriva che il donatore finisce per finanziare inconsapevolmente più le organizzazioni stesse che le loro missioni umanitarie. Emergency è nata con la dichiarata intenzione di non impiegare a quei fini più del 10% delle somme raccolte e finora l’impegno è stato ampiamente assolto: dalla fondazione ad oggi le spese generali non hanno mai raggiunto il 6% del totale delle uscite, per precipitare sotto il 4% nel 2001, a causa del forte incremento delle offerte.
Il secondo aspetto ha a che fare direttamente con l’attività dei medici di guerra. Quando la necessità di aiuto è resa più acuta dalla guerra in atto, di norma le ONG ritirano il proprio personale internazionale dal teatro delle “operazioni”. Emergency cerca di rimanere, senza rinunciare a rigidi protocolli di sicurezza che regolano i comportamenti del personale. Proprio un frustrante episodio di questo tipo, vissuto da Gino – lautamente retribuito e completamente inattivo, in missione con la Croce Rossa Internazionale a Sarajevo,- ha determinato l’attuazione del progetto Emergency.

Specialmente negli ultimi mesi, è divenuto riconoscibile il volto di Gino Strada, il fondatore di Emergency e, a giudicare dalla televisione, suo unico componente. In realtà, qual è la vostra attuale consistenza numerica?

Attualmente Emergency impiega 35 collaboratori retribuiti presso la sede di Milano. Il personale internazionale che ruota sulle missioni oscilla tra le 25 e le 30 persone (medici, paramedici, amministratori, logisti). I collaboratori retribuiti reclutati (e addestrati, se del caso) tra la popolazione locale superano le 1600 persone. I volontari, che sono la vera forza di Emergency, sono sicuramente oltre il migliaio, organizzati in più di 100 Gruppi Territoriali disseminati in tutto il Paese.

Meno di un anno fa, se ben ricordo, fece scalpore la decisione di Emergency di rifiutare sovvenzioni dal Governo italiano in quanto quest’ultimo si era reso corresponsabile dei bombardamenti in Afghanistan. Questa decisione è tuttora operativa?

La decisione di rinunciare al contributo statale nel momento in cui il nostro Parlamento votava la partecipazione alla guerra suscitò effettivamente scalpore, ma fu del tutto automatica. Nel suo statuto Emergency dichiara il suo impegno contro ogni guerra e per la promozione di una cultura di pace e solidarietà. Ciò per noi rende incompatibile accettare qualsiasi forma di collaborazione da chi ammette il ricorso alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti e obbligatoria la netta divisione delle responsabilità. Capita, con meno clamore, anche con i privati, quando accompagnano le loro offerte con dichiarazioni che riteniamo non condivisibili.

Chiedo perdono per il cinismo, ma la sensazione è che chi lavora per Emergency non rischia di rimanere disoccupato in tempi brevi. Attualmente in quanti progetti siete impegnati?

Al momento abbiamo attività molteplici in 4 Paesi: Iraq, Cambogia, Afghanistan e Sierra Leone. Gestiamo 6 ospedali e numerose strutture di altro tipo, sanitarie e non. Ma sosteniamo anche programmi sociali, a favore delle vedove di guerra, degli orfani, dei prigionieri. Abbiamo appena firmato (16 dicembre) un protocollo di cooperazione con l’amministrazione sanitaria della città di Medea, in Algeria e progettiamo o abbiamo avviato forti incrementi delle missioni in corso, specialmente in Afghanistan e Sierra Leone. In Iraq, dove finora eravamo presenti solo nel nord, sottratto al controllo dell’amministrazione centrale, dovrebbe finalmente partire un vecchio progetto sanitario a Baghdad o a Bassora.

Come viene selezionato e retribuito il personale di Emergency?

I criteri di selezione sono ovviamente numerosi. Tra i principali citerei la comprensione e la condivisione del programma e della “filosofia” di Emergency, richieste anche al personale reclutato nei paesi di missione. Per il personale internazionale è richiesta una disponibilità ampia (la durata media della missione è di 5 mesi) e la conoscenza dell’inglese, oltre alla specifica e provata competenza, specialmente per il personale sanitario. La retribuzione è assolutamente decorosa e proporzionata alla esperienza internazionale, ma probabilmente un po’ sotto la media di mercato. Il quadro normativo è quello del Contratto di Collaborazione Coordinata e Continuativa.

La questione dei finanziamenti, alla quale si accennava prima, mi suggerisce un’altra domanda. Pur ammettendo che un intervento transitorio è meglio di nessun intervento, la possibilità di dare continuità a un progetto è un criterio adottato per decidere se avviare o meno il progetto stesso?

Dipende dal tipo di progetto. Abbiamo sostenuto anche progetti brevi e circoscritti (es. in Etiopia, team chirurgico per 3 mesi in collaborazione con la Cooperazione Italiana), e tuttora abbiamo in corso progetti di cui è già previsto un termine temporale (es. Cambogia, dove il paese è pacificato e prevedibilmente in grado di sostenere autonomamente un progetto ben avviato).

Ho avuto l’impressione che da alcuni mesi a questa parte Emergency, oltre al camice del chirurgo, abbia indossato i panni del “politico” (in senso buono, naturalmente). Dalla campagna “uno straccio di pace” alla partecipazione di Gino Strada alla manifestazione di piazza San Giovanni del 14 settembre (coi cosiddetti “girotondisti”), all’appello contro la guerra in Iraq. E’ un’impressione esatta? E se sì, a che cosa è dovuto questo maggior impegno nella società civile italiana?

In realtà Emergency ha sempre rivendicato un ruolo politico: ha fatto e fa attività umanitaria rifiutando di farlo in silenzio, si oppone alla guerra in linea di principio, ma anche alle specifiche guerre che vengono effettivamente combattute, difende concretamente quello che è fondamentale tra i diritti, il diritto alla vita, però allarga “naturalmente” il proprio impegno alla difesa di tutti i diritti. Ma ammette unicamente quella politica che mantiene al centro dei propri valori l’uomo e la sua dignità. L’uomo come fine ultimo, mai subordinabile ad altri fini che si pretendono e non possono essere “superiori”. Poco o nulla a che fare con la politica come viene comunemente intesa, quella degli schieramenti e dei partiti. Quello che è venuto modificandosi nel tempo credo sia solo la visibilità dell’associazione e con essa l’efficacia del messaggio.

A proposito dell’appello contro la guerra. Tempo fa, un mio amico cattolico praticante mi ha spedito la copia di un appello di Pax Christi che, salvo alcuni riferimenti “interni” alla chiesa, nella sostanza è simile a quello di Emergency: condanna della violenza sui civili, denuncia delle vere ragioni della eventuale guerra contro l’Iraq, richiesta di rispettare l’art. 11 della Costituzione italiana. Non esistono canali di comunicazione? Possibile che ogni associazione debba farsi il suo appello privato?

Sarebbe certamente stato meglio unificare gli appelli, tanto più che il nostro era promosso anche da Lilliput, Libera e Tavola della Pace, di cui Pax Christi fa parte. Nessuna polemica però, credo proprio che si sia trattato di un problema di comunicazione.

Gino Strada è anche l’autore di un libro, “Pappagalli verdi”, che mi ha colpito sia per ciò che vi è narrato sia per il tono, sempre partecipe e sempre misurato. Gli episodi importanti non si contano. In uno, due ex rivali nella guerra civile a Gibuti, entrambi curati da Emergency, superano l’odio e diventano amici. Questo tipo di “successi” quanto è frequente? E, se è possibile stabilirlo, quanti dopo le cure riprendono magari a combattere?

Episodi come quello cui alludi non sono frequentissimi, ma accadono e più volte ne siamo stati testimoni. Il programma di sostegno ai prigionieri che conduciamo in Afghanistan è realizzabile solo con la collaborazione dei carcerieri e certamente è orientato a promuovere il rispetto tra le parti in conflitto e la difficile ricostruzione dei rapporti tra le persone, che la guerra inevitabilmente distrugge.

Un altro conflitto che ha occupato tutto lo spazio dell’informazione è stato quello nella ex Jugoslavia. In “Pappagalli verdi” si racconta di una cecchina che giustifica l’uccisione di un bambino di 6 anni dicendo che fra venti ne avrebbe avuti ventisei. Emergency è ancora presente nella ex Jugoslavia?

Gino ha lavorato in Jugoslavia prima della nascita di Emergency. Durante quella guerra una nostra offerta di intervento in Bosnia è stata cortesemente declinata: ci hanno detto che trovavano incongruo accettare un aiuto proveniente dallo stesso paese che li stava bombardando.

Dopo la cacciata dei talebani, il governo italiano ha dichiarato che avrebbe aiutato l’Afghanistan ad allestire la nuova rete televisiva. Emergency intravede altre priorità?

Certo! Prima di una rete televisiva sarebbe necessario organizzare la concessionaria per la pubblicità. Triste ironia a parte, l’Afghanistan è un paese poverissimo, devastato da 25 anni di guerra: se provassimo a esportarvi reali possibilità di sviluppo, magari trascurando il nostro diretto e immediato interesse?

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 25/12/2012]

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Intervista a Antonella Schiavon

Quando nasce Agronomi Senza Frontiere?

Ufficialmente Agronomi Senza Frontiere (ASF) nasce nel novembre del 2000. Prima, però, c’è stato un lungo lavoro di stesura del manifesto e dello statuto.

Chi ha preso l’iniziativa di questo lavoro?

Un gruppo di persone che, in anni differenti, ha condiviso l’esperienza del “Corso di perfezionamento in Sviluppo rurale nei Paesi del terzo mondo”, proposto dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Padova. Nonostante la differenza nelle esperienze, titoli di studio e attività lavorative, nonostante le diverse provenienze (dall’Italia, ma anche dall’estero), l’interesse comune per i Paesi del Sud del Mondo si è mantenuto ben oltre il termine del corso universitario e ci ha spinto a voler operare per la crescita ed il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni rurali di quei paesi, una volta definiti “Paesi in via di sviluppo” (PVS).

L’espressione “paesi in via di sviluppo” è solo apparentemente intuitiva. Che cosa s’intende esattamente con questa definizione?

Fino a qualche tempo fa si parlava di Terzo Mondo per indicare quei Paesi che non appartenevano al mondo occidentale ed al blocco comunista. In seguito alla scomparsa di quest’ultimo, il concetto è stato sostituito da quello di aree sviluppate ed aree non sviluppate, mentre ancora più appropriata risulta l’espressione Paesi del Sud del Mondo, entrata ultimamente in uso.

Rimanendo alla definizione meno recente: rispetto a quali parametri si consideravano certe aree sviluppate o meno?

Lo sviluppo di un Paese è stato spesso misurato utilizzando degli indicatori di tipo economico (il reddito, il prodotto interno lordo, ecc.) senza considerare però altri fattori più legati alla sfera spirituale dell’uomo. Negli anni ’80 si inizia invece a parlare di “sviluppo che deve sviluppare l’uomo, non le cose”. In seguito, questo concetto viene arricchito anche dall’aggettivo “sostenibile”, che richiama le problematiche ambientali, soprattutto la conservazione delle risorse naturali, ed implica in tal modo il processo di recupero delle conoscenze “tradizionali”, oltre alla tutela di condizioni di equità sociale. Da tutto questo deriva che una popolazione non necessariamente deve tendere a raggiungere un modello preconfezionato di sviluppo, ad esempio quello occidentale. Ogni società dovrebbe elaborare un proprio sistema specifico nell’ambito del quale ogni suo individuo veda soddisfatti non solo i bisogni più concreti (cibo, salute, educazione) ma anche le proprie aspirazioni spirituali, in sintonia con la propria cultura ed il proprio ambiente.

L’idea di sviluppo che hai esposto è quella attualmente accettata dagli organismi internazionali o quella per che cercate di affermare?

Sì, questo concetto di sviluppo è fermamente radicato soprattutto nel mondo delle Organizzazioni Non Governative (ONG), e sta alla base del modo di realizzare programmi.

Per stabilire delle priorità di intervento occorre che ogni idea sia, in qualche modo, misurabile. ASF si è posta questo problema?

Per la definizione delle priorità, proprio nel mondo delle ONG è stata elaborata, negli anni ’80, una metodologia di analisi definita “Approccio rurale partecipativo”. È una metodologia nata dall’esperienza sul campo, e dalla constatazione che molto spesso venivano realizzati interventi con obiettivi non condivisi dalle popolazioni beneficiarie. Ciò determinava sprechi di risorse, incapacità di risolvere i problemi e la non sostenibilità dell’intervento. In pratica: alla chiusura del progetto, le popolazioni non erano interessate a continuare le attività in maniera autonoma.
Con questo nuovo approccio “partecipativo”, la progettazione parte dall’analisi dei bisogni delle popolazioni fatta nell’ambito di riunioni informali alle quali partecipano i destinatari dell’iniziativa, le autorità locali (che se direttamente coinvolte possono appoggiare l’iniziativa) ed i tecnici, locali e/o stranieri. È importante il ruolo di “mediatori” che questi ultimi assumono. La loro funzione non è più quella di imporre soluzioni, ma è quella di facilitare la discussione e l’analisi, anche utilizzando delle tecniche estremamente semplici: disegni sul terreno, una passeggiata attraverso il territorio del villaggio per prendere visione della situazione, coinvolgimento di gruppi “privilegiati” (donne, vecchi, bambini, sciamani …), non disdegnando anche momenti “conviviali”.

Quasi sempre gli accordi migliori sono presi a tavola.

L’idea è quella di fare in modo che la popolazione interessata si senta a proprio agio, libera di esprimersi, senza limitazioni derivanti dall’imposizione di tecniche complicate o di un linguaggio troppo tecnico ed esclusivo. In questo modo risulta più semplice individuare i problemi e decidere delle strategie di intervento che mirino alla risoluzione di quelli più sentiti dalla popolazione. Ovviamente si tratta di ricercare una coincidenza tra le richieste dei beneficiari e le possibili proposte dell’organismo proponente l’iniziativa, oppure di giungere a un compromesso accettabile per entrambe le parti. E’ auspicabile, infine, lavorare in sintonia anche con le autorità locali.

Fra le cose che hai appena detto, mi sembra molto importante l’attitudine all’ascolto. In effetti, un possibile vizio degli interventi umanitari è quello di portare un aiuto di cui non c’è bisogno o che, comunque, non è quello sentito come più urgente dagli interessati.

Spesso dalla popolazione possono venire richieste anche molto semplici, e per questo a volte non considerate. Ad esempio: le donne di una comunità del Chiapas hanno fatto presente ad una ONG la necessità di disporre di macchine per cucire manuali. Il loro utilizzo è semplice, la riparazione di eventuali guasti è alla portata delle tecniche disponibili nella comunità e il loro uso permette di produrre tele e prodotti che possono facilmente essere venduti al mercato locale, consentendo un guadagno sufficiente al mantenimento della famiglia. Un cosidetto “micro-progetto”, che però interviene a soddisfare una richiesta concreta e, soprattutto, fornisce uno strumento per rendere le donne della comunità in grado di autosostenersi. E’ un’iniziativa “sostenibile”, che non sarà abbandonata alla conclusione del progetto. Il vantaggio di operare in tal modo risulta evidente: la popolazione non è più un soggetto passivo che subisce i progetti o che viene utilizzato per la semplice fornitura di manodopera, ma è coinvolta attivamente sin dalla fase di progettazione. Ciò garantisce anche il mantenimento dei benefici derivanti dalle attività di progetto anche dopo che esso è formalmente terminato ed i tecnici stranieri hanno concluso il loro intervento.

Dopo “sviluppo” e “sostenibilità”, vorrei che ci spiegassi come Agronomi Senza Frontiere intende il concetto di “cooperazione”?

ASF nasce anche dalla consapevolezza che fare cooperazione non significa operare a senso unico, ma significa cercare e sviluppare sinergie e complementarietà tra le richieste e i bisogni manifestati dai PVS e le opportunità offerte dal nostro sistema. Altro aspetto importante è la proposta di un approccio multidisciplinare alla questione dello sviluppo rurale. La maggior parte dei soci sono tecnici del settore agro-forestale, ma ci sono anche biologi, biotecnologi, operatori del settore sociale, economico, eccetera.
Aggiungerei che negli ultimi anni il concetto di cooperazione è comunque andato modificandosi. Fare cooperazione non significa operare esclusivamente all’estero; fare cooperazione significa anche cercare di modificare il nostro sistema culturale, renderci conto che comunque viviamo in un sistema globalizzato e che ogni nostra scelta (anche la spesa al mercato!) può avere delle ripercussioni in molti Paesi del Sud del mondo.

Come ha scritto Michele Serra: oggi si fa politica non con gli scontri ma con gli scontrini.

Quindi fare cooperazione significa anche porre grande attenzione alle attività di sensibilizzazione, formazione ed educazione allo sviluppo da realizzare proprio nelle nostre realtà.

Torniamo ad occuparci di ASF. Perché costituire una nuova associazione?

Le associazioni esistenti in Italia e all’estero sono effettivamente molte, soprattutto quelle operanti nel settore agricolo, strategico nell’ambito dello sviluppo di un Paese e quindi nella cooperazione. Uno degli obiettivi che ci siamo posti è quello di creare un punto di incontro, di riferimento e di consulenza per tutte quelle realtà associative che operano nell’ambito dello sviluppo rurale. Non vogliamo quindi sovrapporci a soggetti che già sono attivi in questo campo operando con grande efficienza ed esperienza, ma vorremmo creare delle sinergie tra gli operatori del settore.

Il nome dell’associazione sembra ispirarsi a quello di Medici Senza Frontiere. Avete anche la stessa filosofia di intervento?

Ci accomuna la consapevolezza che la solidarietà, la difesa e la promozione dei diritti umani non possano e non debbano conoscere frontiere. La nostra è però un’associazione molto più “giovane”, con una base associativa e di sostegno molto più ridotta, e quindi operiamo anche su una scala decisamente molto più limitata!

Fino ad oggi, che iniziative siete riusciti a realizzare?

Innanzitutto è da sottolineare il fatto significativo che tutti i soci di ASF sono volontari e dedicano all’associazione il loro tempo libero ed il loro grande entusiasmo, quindi anche le attività realizzate dipendono dal fatto che nessuno di noi opera nell’associazione a tempo pieno. Abbiamo operato molto nell’ambito della formazione, grazie anche alla collaborazione con l’Università di Padova; sono state realizzate alcune esercitazioni nell’ambito di corsi di perfezionamento universitari e abbiamo contribuito ad attuare iniziative di sensibilizzazione presso la Facoltà di Agraria e nella città di Padova. Tra queste ultime, nell’ambito della Rete di Lilliput di cui siamo soci, è stata organizzata una serata di presentazione del vertice mondiale FAO sull’alimentazione.

Per chi ha pochi mezzi, in alcuni casi Internet rappresenta un’opportunità in più per agire e comunicare.

Alcuni soci hanno lavorato alla redazione di un metarchivio, una raccolta aggiornata di informazioni ed indirizzi utili per chi voglia introdursi nel mondo della cooperazione. Il lavoro sarà pubblicato dall’Università di Padova nell’ambito di un corso di laurea triennale, e spero sarà presto disponibile nella nostra pagina WEB.

Altre iniziative?

Insieme ad altre associazioni italiane, è stata costituita la sezione italiana del “Forest Stewardship Council”, organismo internazionale con sede a Oaxaca (Messico) ed operante nell’ambito della certificazione sostenibile del settore forestale.
Un altro ambito di operatività è rappresentato dall’attività di progettazione: in questo caso è stata molto fruttuosa la collaborazione con l’ONG “Associazione Cooperazione Sviluppo” e con Etimos, il consorzio per il microcredito con i Sud del mondo, entrambi con sede a Padova. Abbiamo infatti partecipato alla stesura di un progetto di cooperazione attualmente in fase di approvazione presso il Ministero Affari Esteri italiano, progetto che sarà realizzato in Palestina. Con gli stessi partner abbiamo partecipato ad un bando della Regione Veneto con un progetto molto particolare nell’ambito dell’immigrazione nel Veneto.

Di recente sollevò scalpore la decisione di Emergency, l’associazione per la cura delle vittime di guerra, di non accettare finanziamenti dal governo italiano che, in Afghanistan, appoggiava l’intervento militare. Vi siete già posti il problema di se e come discriminare gli eventuali finanziamenti ai vostri progetti?

Personalmente ho apprezzato molto la decisione di Emergency (e di Medici Senza Frontiere) di non accettare finanziamenti da governi coinvolti nell’intervento militare. Come ASF non ci siamo ancora trovati nella situazione di dover fare una scelta di questo tipo.
Nel nostro piccolo, una scelta etica l’abbiamo però fatta: il conto corrente dell’associazione è stato aperto presso Banca Popolare Etica, convinti che anche scelte di questo tipo siano un piccolo segnale per costruire una società più solidale ed etica.

Come si descrive un ipotetico progetto di ASF?

È nostra intenzione coordinare, appoggiare e promuovere microrealizzazioni all’interno di progetti che risultino in sintonia coi principi ispiratori dell’Associazione. Tali progetti devono partire da iniziative locali o essere concertati tra l’Associazione e le controparti sul posto, nell’ottica di un approccio partecipativo. Ciò significa che vogliamo rispondere a delle esigenze espresse direttamente dalle popolazioni beneficiarie e che queste devono essere coinvolte attivamente non solo nella fase realizzativa, ma anche nella fase decisionale. Questo è avvenuto, per esempio, per il progetto Palestina.

Puoi dire brevemente in che cosa è consistito questo progetto. E soprattutto, dopo i fatti recenti, ne è rimasto qualcosa?

L’idea del progetto è nata da una sollecitazione all’Associazione Cooperazione e Sviluppo e ad Etimos da parte dei Palestinian Agriculture Relief Commitees (PARC), una ONG palestinese operante nella promozione dello sviluppo sostenibile nelle aree rurali della Palestina. Il progetto è stato elaborato seguendo il metodo dell’approccio rurale partecipativo e vede coinvolti l’ONG “Overseas”, l’Associazione Italiana Agricoltura Biologica e l’Associazione Trans Fair Italia. L’obiettivo generale è quello di migliorare in modo sostenibile e permanente le condizioni di vita e di reddito di un gruppo di famiglie palestinesi attraverso l’avvio, da parte delle famiglie stesse, di microprogetti generatori di reddito. L’intervento locale sarà affiancato da attività di coordinamento e dalla promozione di istituzioni a livello nazionale palestinese.

Più in dettaglio?

Il progetto sarà centrato sul ruolo delle donne contadine, che con il loro lavoro sono in grado di sostenere il reddito familiare soprattutto in periodi di chiusura delle frontiere e di scarsa disponibilità di posti di lavoro (ricordo che la maggior parte degli uomini lavora in territorio israeliano). Ci si propone di lavorare in tre aree: quella delle produzioni agricole vegetali ed animali, con particolare attenzione al metodo di coltivazione biologico attraverso l’introduzione dei disciplinari e la costituzione di un ente palestinese di certificazione biologica riconosciuto sulla base della normativa internazionale; l’area della commercializzazione a livello locale ed internazionale, attraverso il commercio equo e solidale; ed infine il settore del risparmio e del credito.

A che punto siete?

Il progetto è attualmente in fase di valutazione presso il Ministero degli Affari Esteri. Nonostante la delicata situazione politica in cui versano i territori palestinesi, la richiesta di attivazione del progetto da parte della controparte locale è molto forte. Soprattutto in questi momenti, infatti, la chiusura della frontiere provoca altissimi livelli di disoccupazione, sia per l’impossibilità di raggiungere Israele, sia per il blocco delle attività nei territori palestinesi a causa della mancanza di comunicazioni. Molte famiglie sono prive di qualsiasi fonte di reddito. E’ quindi importante proporre e promuovere delle attività che garantiscano l’autosufficienza in situazioni di isolamento dall’esterno. Inoltre è di rilievo la costituzione di istituzioni di supporto e di enti di intermediazione finanziaria a sostegno dell’economia rurale, attualmente assenti.

Un sincero, caloroso augurio di buon lavoro.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 28/07/2002]

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Intervista a Mauro Casanova

Quando sei stato in barca a vela per la prima volta?

Nell’estate del 1999.

A chi ti sei rivolto per imparare?

All’Assonautica di Livorno. Il mio istruttore è Giorgio Majoli.

Quante volte sei andato a vela fino ad ora?

Sei o sette, più o meno.

Che tipo di barca usi?

Un 2.4.

Tradotto in italiano?

Il 2.4 è un’imbarcazione lunga appunto 2 metri e 40 centimetri. È un “singolo” (cioé è destinata a una sola persona d’equipaggio) e dispone di un albero, due vele (il fiocco e la randa), timone, scotte, strozzascotte e tutto il resto. La caratteristica costruttiva più tipica, però, è la deriva, che è fissa e zavorrata. Per l’esattezza, sotto la barca sono “appesi” sotto forma di deriva 280 chili di piombo. In questo modo il rovesciamento…

La famosa “scuffia” …

Esatto. Con la deriva zavorrata, la scuffia, nelle giuste condizioni di mare, è praticamente impossibile.

Il che contribuisce a rendere il 2.4 un’imbarcazione adatta anche a chi ha problemi motori. Nel tuo caso, che è quello di una persona affetta da distrofia muscolare, quali difficoltà hai incontrato nel governare l’imbarcazione?

A volte il timone è un po’ troppo duro, cosa che accade se non è ben lubrificato. Poi devo ancora trovare la giusta posizione all’interno della barca. Nel 2.4 si sta un po’ sdraiati (tipo Formula 1, diciamo) e io devo riuscire a sporgere con la testa quel tanto che basta per avere una buona visuale ma, al tempo stesso, non picchiare col boma.

Chiariamo per i non velisti. Il boma è il braccio orizzontale al quale viene fissata la base della randa. È vincolato all’albero ma può ruotare attorno ad esso di circa 180 gradi. Nella rotazione, può accadere che passi sopra la testa del velista. Questo, naturalmente, quando il velista medesimo è abbastanza furbo da abbassarsi in tempo.

Esatto. Nel mio caso, stando nella posizione sdraiata di cui ti dicevo, la base del collo appoggia sul bordo posteriore dell’abitacolo e, dopo poco, in quel punto avverto un dolore fastidioso. Per evitarlo ho provato a stare meno sdraiato e quindi a sporgere di più. In questo modo non è più il collo ad appoggiare sul bordo della barca, bensì la schiena, all’altezza delle scapole. Così evito il dolore al collo ma devo oscillare ogni volta che il boma ruota, per evitare un dolore… alla testa.

Forse, se avessi un 2.4 tutto tuo, potresti adottare qualche accorgimento per “personalizzarlo” un po’ ed ovviare ad almeno qualcuno dei problemi che incontri.

Di sicuro cercherei una posizione più ergonomica delle scotte, in particolar modo di quelle del tangone che sono quelle che mi hanno sempre creato più problemi. Per il resto va piuttosto bene, a parte la posizione del corpo di cui dicevo prima.

Questa è un intervista e non un corso di vela, così lasciamo i lettori nel mistero di cosa siano scotte e tangone e invece ti domando: la prima volta ti ha forse spinto la curiosità ma, dopo, perché sei tornato in barca?

È vero, le prime volte c’erano la curiosità e lo spirito d’avventura. Poi, vedendo che qualche manovra riuscivo anche a farla bene mi sono incoraggiato, ho sentito diminuire un po’ la tensione della “prima volta” e ho cominciato a divertirmi. Adesso la barca non va proprio dove e come voglio io, c’è una specie di sfida fra me, lei e il mare.

Una sfida? Non è una parola un po’ grossa?

So che detta in questo modo sembra che io sia un vecchio lupo di mare che sfida venti e mari forza 7, ma è proprio così… con le dovute proporzioni.

Che sensazioni ti ha dato la navigazione in “solitario”?

Non so se si può parlare di navigazione in solitario dato che l’istruttore mi ha sempre seguito da vicino con il gommone. Se per solitario s’intende che da solo governo la barca, allora potrei dire d’aver provato un senso di responsabilità. Tutto dipendeva da me: se la barca andava o non andava, se l’assetto era quello giusto, se le vele erano “cazzate” bene o meno, ecc. Poi ho provato anche sensazioni di piacere, quando la barca andava dove volevo io o quando l’istruttore mi diceva che andava bene così.

E salire su una barca a vela da passeggero? Pensi che ti darebbe emozioni più forti, più belle o soltanto diverse?

Penso che mi darebbe emozioni anche più forti e più belle di quelle della navigazione in solitario. Immagino un diverso comportamento della barca (rollio, assetto, ecc.), una maggiore velocità e l’organizzazione dell’equipaggio con ogni persona che svolge il proprio compito. Probabilmente nel ruolo di passeggero sarei più attento ed avrei modo di osservare anche altre cose, sia della barca sia del mare, piuttosto che essere concentrato sulle manovre da fare. Me la godrei di più, insomma.

Perché il vero obiettivo è sempre quello di spassarsela.

Facendo un paragone con le auto, dovrebbe essere un po’ come un neopatentato che, se trasportato da qualcuno, ha modo di osservare il paesaggio e tutto il resto, mentre se è alla guida è un po’ teso e concentrato sulla strada.

Sette “uscite” sono già un piccolo bagaglio di ricordi. A quale di essi sei più legato?

Alla prima uscita in assoluto. La sensazione di essere spinti sull’acqua col solo rumore del vento, la barca che s’inclina di brutto a ogni virata (con la paura di scuffiare anche se l’istruttore mi ha spiegato che col 2.4 è praticamente impossibile), le vele che si tendono sotto la spinta del vento e qualche onda impertinente che ce la mette tutta per farti la doccia… non si dimenticano.

Molto romantico. La mia piccola esperienza di velista, però, è stata anche ricca di spunti assai più comici (o tragicomici, per essere più esatti).

Io ricordo simpaticamente quando iniziammo un’altra uscita (la seconda o la terza, non ricordo) con vento leggero. Il 2.4 procedeva lentamente con le vele a farfalla quando il poco vento che c’era decise di cessare del tutto e la barca si fermò in mezzo al mare. Giorgio, il mio istruttore, si avvicinò col gommone per trainarmi verso la darsena ma anche il motore del gommone, solidale col vento, decise di fermarsi. Restammo così per un’oretta finché qualcuno dalla sede dell’Assonautica ci vide in panne e venne a rimorchiarci.

Meno male! Ora l’ultima domanda. Il 2.4 è un singolo, e navigare da soli è una tappa dell’apprendimento della navigazione. Ti incuriosisce l’esperienza della navigazione in equipaggio?

Credo di averti già risposto, comunque ti ripeto: sì, parecchio. Mi piacerebbe anche partecipare a una regata.

Allora, come si dice, buon vento!

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[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 05/07/2001]

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Intervista a Marco Pastonesi

Iniziamo con le smentite: il rugby è uno sport violento per persone tutte muscoli e niente cervello.

Il rugby è uno sport violento giocato da gentiluomini.

Si racconta che il rugby nacque durante una partita di calcio. Un giocatore si esasperò perché il risultato non si schiodava dallo zero a zero, così prese il pallone in mano e lo depositò oltre la linea di porta. È una storia vera?

Il giocatore si chiamava William Webb Ellis, il campo era quello della Rugby School (che non era la scuola del rugby, ma la scuola della cittadina di Rugby), dove adesso una lapide ricorda l’antica trasgressione. Il resto sa un po’ di leggenda.

Vera o no, è una storia che mi piace, per tanti motivi. Ad esempio: ci sono le regole e una persona che decide di romperle, cioé il rugby nasce da una ribellione.

Tutte le novità nascono da ribellioni, trasgressioni, rotture. Poi ricomincia la codificazione, i regolamenti, le leggi. Scritte e non scritte.

Altro motivo: ci sono regole che non piacciono e, anziché eluderle, ci si colloca apertamente fuori di esse e se ne creano di nuove, cioé il rugby nasce da una assunzione di responsabilità finalizzata a rompere per costruire.

Appunto.

Uno dei motivi di fascino del rugby è l’equilibrio perfetto che c’è fra il talento individuale e la necessità del gioco di squadra.

Di talento, in giro, ce n’è sempre poco. Per fortuna il gioco di squadra, anzi, lo spirito di squadra riesce a colmare questo vuoto.

Anche a questo riguardo, puoi spiegare in poche parole il concetto di “sostegno”?

Di giocatori con il pallone in mano ce n’è uno solo. E di strada, in genere, ne fa poca. Per questo ha sempre bisogno di qualcuno che gli venga dietro, che lo aiuti quando lui verrà placcato e dovrà mettere il pallone a terra. Non solo. Siccome il pallone non si passa mai avanti, almeno con le mani (in verità neanche con i piedi, perché i compagni si trovano sempre dietro), allora il riferimento è sempre dietro. Come in guerra: gli uomini della prima linea, a contatto con i nemici, gli uomini delle linee arretrate, pronti a intervenire. O come diceva Paolo Rosi, giocatore e giornalista Rai, la fanteria e la cavalleria.

Un’altra cosa strana e bellissima del rugby è il rispetto per l’arbitro.

C’è una regola, convincente: a ogni protesta l’arbitro può dare i dieci metri, cioè sottrae dieci metri di campo (terreno, trincea…) alla squadra. E solo chi gioca a rugby sa che cosa significano dieci metri di campo conquistati corpo a corpo.

Una cosa forse ancora più strana e più bella è che a volte l’arbitro non interviene. Alludo a certi falli subiti da un giocatore che ha commesso una scorrettezza, il quale viene così “punito”, sotto gli occhi di tutti, per la sua slealtà.

È una di quelle regole non scritte, ma vigenti. Un uomo viene calpestato in mischia solo se si trova in fuorigioco, cioè al di là della linea determinata dal pallone, semplicemente perché in quel momento non si doveva trovare lì. Quindi gli avversari hanno fatto finta che lui non fosse lì.

Ce ne sono altre, di regole non scritte?

Fra le regole non scritte, quella del calpestamento è esemplare, ma puoi aggiungere quella del capitano che è sempre il primo a entrare in campo e l’ultimo a uscirne.

Il rugby lo scoprii in televisione. Si trattava di una partita del Torneo delle Cinque Nazioni, giocava il Galles di Gareth Edwards.

Un’ottima occasione. Gareth Edwards è stato uno dei più brillanti interpreti di questo sport. Figlio di un minatore, la statua di Gareth – che è vivo e vegeto – sta nel mezzo di Cardiff.

In un tuo pezzo, lessi che fu proprio di Edwards la più bella meta che hai visto realizzare in vita tua. La puoi raccontare in poche parole?

Presente uno slalom di Alberto Tomba?

Tutti gli appassionati di rugby hanno un mito: gli All Blacks.

La nazionale della Nuova Zelanda, mito un po’ per il nome, un po’ per il gioco, un po’ per la divisa, un po’ per passione.

È anche il tuo mito?

Sì, insieme al Frascati.

Tu a che livelli hai giocato?

Quattro anni da riserva, però in serie A. E nove anni in serie B.

Complimenti! E ora, per un assaggio della scrittura di Marco Pastonesi, clicca pure qui.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 22/08/2010]

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Intervista a Maria De Rosa

Ho diciannove anni, ma è già da molto che scrivo. Potrei dire che lo faccio da sempre, fin da quando ero piccola. A scrivere poesie, però, mi spinse la gelosia. Mio nonno stava guardando la televisione. Quale programma non saprei più dirlo, ed io ero ancora poco più che una bambina. Però ricordo che a un certo punto mio nonno si voltò e disse: “Hai visto, così giovane è già diventato un poeta”. Chissà chi era, quel giovane di cui stavano parlando, ma ebbi l’impressione che mio nonno lo preferisse a me. Così presi carta e penna e provai anch’io a scrivere una poesia. Poi ho continuato.
Il nonno è stata una presenza importante. Provengo da una famiglia di origini molto umili, dove pochi hanno più della terza media e libri non se ne sono mai letti troppi. Però il nonno ci teneva alle mie poesie, mi faceva sentire che per lui erano importanti, e forse è stato l’unico che mi ha davvero incoraggiato a continuare.
Gli altri no. Certo, a casa mi vogliono bene, e quando per le feste ci riuniamo con tutti i parenti, so qual è il regalo che tutti si aspettano da me: una poesia per ciascuno, accompagnata da una foto. Ma so anche che apprezzano più l’affetto che esprime che la poesia in se stessa.
No, non c’è nessun altro. Che condivida con me questo interesse, intendo, o che lo apprezzi in modo particolare, neanche fra le mie compagne. La mia classe è tutta femminile e trovo che fra donne si crei più facilmente la competizione che la solidarietà. Ma forse un po’ dipende anche dagli insegnanti, che non seguono abbastanza gli studenti, non li stimolano. Quando a scuola affissero il bando di un concorso di poesia, il professore che avevo al ginnasio quasi mi scoraggiò. Io decisi di partecipare lo stesso, di nascosto. Volevo provare. Vinsi il primo premio, e il professore cambiò idea. Poi andai al liceo, cambiai insegnante, e a quella che trovai, delle mie poesie, non importava molto. Ma ormai avevo preso la mia strada.
I concorsi di poesia. Ho avuto molti riconoscimenti. Comunque non scrivo per ottenere quei premi. Vedo il bando, e se ho qualcosa che può andar bene, partecipo, senza ansie. Forse i concorsi mi servono semplicemente per dare uno scopo alle parole che fermo sulla carta, o forse per avere un rapporto con l’esterno, visto che intorno non ho con chi scambiare idee su questa mia passione.
Se non scrivo sto male. Ho saputo che queste stesse parole le ha dette un grande scrittore inglese contemporaneo, Jonathan Coe. Io non l’ho mai letto, ma mi ha fatto piacere condividere con lui questa sensazione. Comunque, non ho mai pensato: “Voglio diventare una scrittrice”, e la scrittura, almeno oggi, è uno dei miei interessi. Importante, ma non l’unico.
Scrivo di notte, quando finalmente riesco a isolarmi dagli altri e dalla mia vita quotidiana, che è ancora, in buona parte, fatta di compiti e interrogazioni. Il tema che forse ricorre di più è la natura, della quale amo specialmente il mare. L’amore, ancora no. Una poesia d’amore l’ho scritta, a dire il vero, ma ero così piccola … Credo che l’amore sia un’altra cosa.
La tecnica è un problema che non mi sono mai posta. Non ritocco mai i miei testi. Per ora mi va bene così.
Mi diverte farmi conoscere, specialmente andare nelle scuole. Fu buffa una volta che i bambini si aspettavano un personaggio serioso e adulto, invece sono arrivata io.
Dei grandi poeti che ho letto a scuola mi piace molto D’Annunzio, che trovo molto musicale e pieno di fascino. Negli ultimi tempi mi sono dedicata un po’ alla lettura di Wordsworth e Coleridge. In inglese. Non conosco benissimo la lingua, ma mi sforzo. Un po’ mi aiuta mia madre che ha vissuto in Inghilterra. Poi Ungaretti, per il suo ermetismo. Sì, proprio per il fatto che è così difficile da capire, anche se io, al contrario, mi sforzo di essere semplice e comprensibile.
Forse, semplicità e comprensibilità sono le uniche cose che cerco davvero, sempre. Non solo quando scrivo poesie, voglio dire. Anch’io come persona, infatti, vorrei essere semplice e comprensibile. Sono questi i due complimenti che apprezzo di più, mentre mi ferisce essere giudicata come una persona falsa, che agisce allo scopo di ingraziarsi gli altri. Ruffiana, come si dice.
Non c’è molto altro da aggiungere, almeno per ora. Ho neppure vent’anni, e tante curiosità. Mi piace scoprire quello che ho dentro, vivere momenti nuovi, provare, e un po’ mettermi alla prova. È con questo spirito che ho affrontato le esperienze più diverse. Il palcoscenico, ad esempio, recitando in un penoso allestimento della “Bottega dell’antiquario”; o la passerella, sfilando qualche volta come indossatrice. Poi nuoto, vado in palestra e suono con la banda di Monsummano. Il quartino, uno strumento piccolo piccolo che pare un giocattolo.
Naturale: oltre a quelle che cerco, ci sono le cose che mi succedono, come trovarmi a casa di chi mi ha bocciato al mio primo esame per la patente per vedere com’è il suo sito internet, sul quale fra poco sarei finita anch’io. Ma adesso, basta davvero. La mia mitica Saxo verde, temo, non era parcheggiata proprio bene, e non vorrei trovare una multa.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 23/08/1999]

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Intervista a Marina Mander

Cado necessariamente nella trappola che hai teso e, per prima cosa, ti chiedo come ti è saltato in testa di scrivere racconti intitolati “Anosmia“, “Psittacosi” e “Somatofrenia fantastica”.

Devi darmi atto che le parole appartenenti a gerghi specialistici esercitano sul profano una certa magia, evocano più che connotare… come il gioco del vocabolario… A volte mi è capitato che il titolo già contenesse un contenuto, pensa a somatofrenia fantastica, una sindrome ad alto potenziale immaginativo, in altri casi è nata prima l’idea: volevo raccontare la storia di un bambino sordo di naso, deprivazione sensoriale poco sondata, poi ho scoperto che si chiama anosmia, un invito a nozze, così per psittacosi, che fa ribrezzo solo a dirlo, volevo raccontare la storia di un fobico esistenziale, i piccioni sono odiati dalla gente che odia un sacco di cose…gli animali, i poveri, i negri, i gay… che schifo…

La misura del racconto è la tua preferita, quella che senti più congeniale alla tua scrittura o invece, come accade a me, quella che si usa quando si ha poco tempo?

Finora mi sono accaduti racconti, in fin dei conti la scrittura accade un po’ come vuole lei, come l’amore, poi c’era Carver che non aveva tempo, ma io non sono Carver, sono solo una che non ha molta pazienza e in un racconto non c’è tempo per annoiarsi, né a leggerlo, né a scriverlo…

Nonostante il tono non sia mai pesante, la maggior parte dei tuoi personaggi mi sono parsi figure un poco tristi, disorientate.

Sì, più che tristi sono afflitti più o meno consapevolmente dal male di vivere male, disturbi piuttosto rognosi che a volte degenerano in qualche nevrosi, psicosi, psittacosi…

Il racconto che ho preferito s’intitola “Anosmia”. Una bambina “zozza” fa amicizia con un bambino che non percepisce gli odori, fino a una conclusione che non voglio anticipare.

Anosmia è il racconto più dolce, i due protagonisti sono un po’ disgraziati ma simpatici, lui non sente con il naso ma con l’intelligenza, lei non si lava ma è un’anima candida, si incontrano nell’universo parallelo della ipersensibilità anche se apparentemente sono dei disadattati. Anosmia è anche, però, un racconto che non pone grossi problemi, è facile stare dalla parte dei bambini perché si presuppone in loro una grande innocenza, con gli adulti è più difficile capire, prendere posizione…

“Anosmia” e “Artrosi”, mi sembra anche, sono le storie in cui hai manifestato una maggiore tenerezza verso i protagonisti. Ho visto giusto o è un’impressione falsa?

Hai visto giusto, perché, nonostante le malattie, i protagonisti di “Anosmia” e “Artrosi” sono portatori sani di “innocenza”, anche la prostituta malgascia di Cleptomania però è un personaggio positivo e la ragazza del tunnel carpale in fin dei conti trova il modo di uscire dal tunnel dello squallore che la circonda, persino la signora Orchidea vince la sua guerra dei poveri…

Non molto tempo fa, la mia pagina degli ospiti accolse degli scritti “erotici” di Alessandra Buschi e Raffaella Vicario. Nel tuo libro, raccontato con linguaggio divertito, il sesso è presente anzi che no, pur se non mi è mai sembrato il vero “centro” della storia.

Infatti, non lo è per niente. Mi fa piacere quando qualcuno lo sottolinea perché significa che entrambi ( io e il lettore) abbiamo centrato il centro giusto. Il sesso è un po’ un gancio, è un dato di realtà per raccontare altre fantasie, una chiave per entrare senza troppi complimenti nello scantinato dell’anima.

Come ho già detto, il linguaggio del tuo libro è quasi sempre divertito e divertente. Ciò non toglie che il protagonista di “Psittacosi” sia un personaggio orribile e che, pur da premesse differenti, finisce per agire in un modo che mi ha, in parte, ricordato il borghese piccolo piccolo del film interpretato da Alberto Sordi.

Il protagonista è orribile, è un uomo profondamente fascista travestito da persona innocua, quelli peggiori… anche lo stile del racconto è più contenuto in termini di ironia perché con tipi così non c’è tanto da scherzare.

In alcuni casi (il signor Cordini di “Psittacosi”, lo stesso Canepa Mario di “Anosmia”, ma non solo) mi è venuto in mente che potevano benissimo essere nati da una semplice notizia apparsa in un giornale. Ma in realtà, quali sono le cose che ti fanno scattare la molla che farà poi nascere un racconto?

Non sono fatti precisi, piuttosto sono ricordi, particolari di un episodio raccontato, un tema nell’aria, i miei racconti nascono da un accumulo di sensazioni intorno a un nucleo che significa qualcosa per me.

Ho già accennato alla tua scrittura come “divertente e divertita”, così mi viene in mente di chiederti un commento alla mia celebre “Seconda legge di Messina sulla scrittura”, che afferma: “Ci si siede per scrivere come si vuole, ci si alza avendo scritto come si sa”. Io scrivo come potrei scrivere una lettera, e tu?

Io penso vagamente qualcosa, poi guardo e ascolto le parole, a volte giocano animate dalla loro intrinseca possibilità di comporsi, le registro e le fotografo. Mi ritrovo con pezzi, frasi, brani, quando riesco a metterli in ordine possono diventare una storia.

Il libro di cui abbiamo parlato esiste davvero, ma so che ugualmente vuoi approfittare di questa intervista per rivolgere un appello ad amici e conoscenti.

I funzionari del marketing mix sintetizzano le variabili del successo di qualsiasi prodotto in 4 P: Prodotto, Prezzo, Pubblicità e Posto, cioè distribuzione.
Allora il Prodotto c’è anche se non si vede (qualche autorevole Pubblicazione si è Pure Presa la briga di recensirlo), il Prezzo solo Pochi 9 virgola 3 euro, la Pubblicità a Parte quella di amici e Parenti, costa troppo. Il Posto? Beh, qui bisogna affidarsi a tutti i Poveri consumatori di Portentosa volontà perché capita che uno entri nel Posto deputato alla vendita del Prodotto e il libraio gli dica “Manuale di Ipocondria Fantastica, Prego?!! L’autore??? Non Pervenuto.”
Quindi aPPello: non desistete, siate insistenti e volitivi, ordinatelo, compratelo, consigliatelo, regalatelo e godetene tutti, consideratelo un gesto di solidarietà nei confronti di tutti gli scrittori che stanno Provando a esistere senza i grandi editori.
4 P: che sintetizzano una serie di imPrecazioni riPetute oppure a scelta: Per Piacere Perlomeno Provateci.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 18/10/2001]

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Intervista a Maurizio J. Bruno

Cos’è quella lettera puntata nel tuo nome?

Il mio nome completo è Maurizio Jafet Bruno. Jafet era uno dei figli di Noè: Cam, Sem e Jafet appunto, che secondo la tradizione biblica hanno dato origine alle razze che popolano tutta la terra. Jafet era (l’unico) nome di mio nonno paterno, e a me fa molto piacere portarlo, anche perché, pur avendo avuto poco tempo per conoscere mio nonno, ho molta stima e simpatia per lui. Nonno Jafet era una persona decisamente eclettica, ed è riuscito a coltivare i suoi molteplici interessi, nonostante le difficoltà oggettive del periodo storico in cui è vissuto, attraversato da ben due guerre e due pesanti periodi di dopoguerra. E anche se quella “J.” mi ha dato qualche problema al momento della laurea (alcuni documenti delle scuole medie e del liceo erano intestati solo a Maurizio Bruno, senza J.) sono proprio contento che ci sia. Ecco tutto!

Cosa sono quelle lettere puntate nel titolo del tuo romanzo?

Oltre a Nonno Jafet, avevo altri quattro nonni: Raffaele, Andrea, Luigi e Francesco e così… Non è vero! RALF è un’acronimo, ossia un nome formato dalle quattro iniziali di altrettante parole. Non voglio dire quali sono le quattro parole, ma sappi che è il nome di un robottino, che nel mio primo romanzo la fa da padrone! Non si tratta di un robot dalle forme umane (stavo dicendo antropomorfo, ma ho avuto paura di offendere qualcuno) ma di qualcosa di più simile ad una piccola automobile radiocomandata. Eppure a qualcuno fa decisamente paura, tanto che… Per inciso, c’è anche un altro acronimo nel libro. Si tratta di HOPE, in inglese “Speranza” e nel libro una fantomatica organizzazione segreta internazionale “Hidden Organization for the Peace on the Earth” cioè “Organizzazione Segreta per la Pace sulla Terra”. Ma non credere che si tratti di missionari e filantropi: il bene non sta mai tutto da una parte!

Le vicende del tuo romanzo, per così dire, “attraversano” alcune tematiche attualmente dibattute fra gli appassionati di fantascienza, ma non solo: la cyber-etica, l’implementazione di intelligenze artificiali, l’ontologia della robotica e il piacere di viaggiare. Ecco: potresti chiarire meglio quest’ultimo concetto?

Ovviamente parli di viaggiare con la fantasia! E di certo in RALF si viaggia molto in questo senso! Ma viene spesso da chiedersi se ci si è davvero allontanati da casa, cioè dalla realtà, oppure se non si è nemmeno varcata la porta d’uscita. Ora te la faccio io una domanda. I nostri lettori sanno che questa intervista è avvenuta attraverso uno scambio di domande e risposte su internet. E se scoprissi che a rispondere alle tue domande non è stato davvero MJB, ma un programma di intelligenza artificiale? Non cominceresti a domandarti se è il caso di considerare VIVA quell’entità che ha risposto alle tue domande? E subito dopo non ti domanderesti quali sono i suoi diritti? Formattare l’hard disk che contiene quel programma non è forse un omicidio? Ecco la Cyber-etica! Credo di aver coniato io questo termine, ma se vuoi puoi usarlo tutte le volte che vuoi, pagandomi i diritti d’autore ovviamente!

Se un programma di intelligenza artificiale dà risposte sceme come le tue, certo che lo formatto. E scherzavo … dai! Comunque, per chiudere: più che questa intervista, l’intero nostro rapporto è nato via internet e, per l’esattezza, tramite “Il Rifugio degli esordienti”, il tuo sito dedicato agli aspiranti scrittori. Avrei grande piacere se tu presentassi ai miei amici questa tua iniziativa. (Come ti sono sembrato? Abbastanza spontaneo, sì? Adesso potresti togliere quella pistola dalla mia tempia?)

Tanto era scarica.

Averlo saputo!

Dovresti essere contento che ci tenga più a parlare del Rifugio degli esordienti, dove è tutto gratis, che del mio libro, edito dalla Taurus di Torino che sarà in vendita tra breve! Allora… il Rifugio aspira ad essere il punto di riferimento per tutti quelli che, come me qualche anno fa, hanno finalmente terminato di scrivere qualcosa di cui sono soddisfatti e cominciano a domandarsi: E adesso? E adesso fate un salto al Rifugio e troverete tutto ciò che vi serve per organizzarvi: l’ha fatto anche Antonio Messina! Troverete chi leggerà e commenterà gratuitamente le vostre opere, troverete spiegazioni su come proteggere i vostri lavori inediti e su come rilegarli, scoprirete una serie di consigli letterari elargiti da professionisti del mondo del libro, uno spazio nel quale esporre, sempre gratuitamente, una vostra scheda di presentazione e tanto di più! Ed in questo tanto, un bell’elenco di concorsi letterari per romanzi inediti, ed il più completo elenco di case editrici di tutto il Web. Ho lasciato per ultimo questo elenco, per potervi ricordare, se Antonio non taglierà questa parte, che tra le oltre 470 Case Editrici in elenco, troverete anche la Taurus di Torino: così se avete difficoltà a trovare il mio romanzo in libreria, lo potrete anche richiedere direttamente all’Editore! Allora, prima che Antonio mi tagli la comunicazione, vi saluto e ci vediamo al Rifu….bzzzz bzz. Bop!

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 23/02/1999]

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C’era una volta un sito Internet

Nell’ormai lontano 1999 inaugurai il mio primo sito Internet. La cosa aveva ancora tratti pionieristici tanto che, nonostante la combinazione nome-cognome “Antonio Messina” sia assai comune, ebbi modo di acquisire il dominio antoniomessina.it.

Vent’anni dopo, molta acqua è passata sotto i ponti e anche antoniomessina.it ha mutato struttura ed intenzioni. Una delle conseguenze è la rinuncia a una serie di sezioni presenti nella struttura iniziale di quel sito. Una di queste sezioni era quella dedicata agli “Ospiti”, amici o persone che contattavo per farmi rilasciare delle brevi interviste sugli argomenti più diversi.

Mi è sembrato che sarebbe stato malinconico cancellare del tutto la memoria di quelle interviste, cosicché ho deciso di riproporre qui quel materiale. Nei prossimi giorni, dunque, via via saranno rispolverati materiali di un paio di decenni fa.

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Caro canone

Cercando come vedere un film su Internet, oggi m’è venuto da pensare al cosiddetto “canone televisivo”, cioè il pagamento dovuto da parte di chi possiede “uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive” per finanziare il funzionamento della televisione di Stato, cioè la RAI.
Si sa, il pagamento di tasse, imposte, accise e altre gabelle variamente denominate non ha mai riscosso particolari entusiasmi ma mi azzardo a dire che il pagamento del “canone RAI” è sempre stato fra i più mal sopportati tanto che, essendo piuttosto facile sottrarsi al pagamento, a sottrarsi erano in molti (e immagino che molti siano ancora adesso, sebbene oggi sia un po’ meno facile).
Nei discorsi che ascoltavo sin da piccolino l’evasione del canone era giustificata con considerazioni sulla scarsa qualità dei programmi, sulla televisione al servizio del potere e su altri argomenti che, sostanzialmente, affermavano che le trasmissioni televisive della RAI non meritavano la spesa. Non mancavano, poi, racconti di furbizie per eludere i controlli, con tanto di televisori nascosti nell’armadio come un amante da non far cogliere in flagrante.
Nel corso degli anni, ovviamente, l’importo del canone RAI è cambiato, fino ad arrivare ai 90 euro (all’anno, cioè € 7,50 al mese) dei giorni nostri. Io il canone non lo pago ma non sono un evasore. Non ho apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive. Però dispongo di una connessione Internet (che non è soggetta a canone) e tramite quella posso vedere tutti i film che voglio. Beh, non proprio tutti, dato che quello delle piattaforme di intrattenimento video è un mercato libero ed aperto, popolato da numerosi soggetti forniti ciascuno di un proprio portafoglio di film e serie nonché, naturalmente, di una propria procedura di registrazione con l’amata coppia “utente-password”. Dunque, o ci si sposa con una piattaforma così come si fa con l’automobile, oppure ci si rassegna a registrarsi a tutte quelle dove si trova il film che di volta in volta ci interessa.
C’è di bello che, essendo quel mercato libero ed aperto, la concorrenza genera il suo effetto inesorabile di livellamento dei prezzi verso il basso, con gran vantaggio del consumatore, come è evidente facendosi due conti. Netflix (abbonamento Base) costa € 7,99 al mese. L’iscrizione ad Amazon Prime costa € 3,99 al mese ai quali va aggiunto il costo del “noleggio” dei film non offerti gratuitamente, cioè, di solito, quelli che vuoi vedere. Se ti interessa lo sport, l’abbonamento a DAZN costa € 29,99 al mese. Su TIM Vision lo sport costa la stessa cifra e se vuoi vedere anche dei film devi pagare altri € 6,99. Apple TV funziona come Amazon Prime: € 4,99 al mese, più il costo dei film proposti a pagamento. Se si cercano film “diversi”, cioè prodotti in paesi che non siano USA e Gran Bretagna, si può ricorrere a MUBI (€ 9,99 al mese). Infinity costa 6,99 al mese. Rakuten TV offre contenuti gratis e altri a pagamento per il noleggio, senza canoni mensili fissi. Poi ce ne sono altri. Insomma: un po’ di sport di DAZN (o Now TV), una bella serie Netflix, un giallettino su Amazon e un Rohmer d’annata su MUBI … € 60 al mese e siamo a posto.

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A un concerto degli Iron Maiden

Biglietto d’ingresso – Concerto degli Iron Maiden – Roma, 1981

Sistemando carte vecchie e vecchissime salta fuori il mio biglietto d’ingresso a un concerto del gruppo heavy metal inglese Iron Maiden, a Roma, nel 1981, cioè quando avevo 21 anni. L’esibizione fu tutt’altro che memorabile, tuttavia quel concerto si è impresso in modo indelebile nella mia memoria a causa, in verità, del pubblico.
Fin dalla calca per entrare nel “teatro-tenda” in cui si sarebbe svolto ebbi il sospetto di non essere in tono con l’evento. La mia semplice maglietta di cotone a tinta unita risultò un unicum rispetto a quelle indossate dagli altri spettatori, tutte variamente decorate con teschi, zombie e Morti incappucciate che brandivano una falce. Non riduceva il gap un mio leggero giubbottino bianco, povero agnello fra le decine di giubbotti in pelle nera variamente zavorrati in modo da sembrare, più che un capo d’abbigliamento, il campionario d’un negozio di ferramenta. Poco male, pensai. Tutti eravamo lì per ascoltare musica. A concerto iniziato, l’attenzione sarebbe stata rivolta solo al palco e nessuno avrebbe badato al mio abbigliamento troppo sobrio.
Dunque trovai un posto e mi sedetti in attesa che iniziasse lo spettacolo. Rimasi un po’ deluso constatando che non avevano distribuito il programma di sala, una paginetta che leggo sempre con interesse e, comunque, aiuta a far passare il tempo. Mi seccò pure che le file di sedie non fossero sfalsate in modo da favorire una migliore visibilità. Tuttavia, mi consolai constatando che le sedie erano provviste di braccioli che permettevano di mettersi comodi, quindi di disporsi all’ascolto nel miglior modo possibile.
Gli Iron Maiden si presentarono in ritardo. I ritardi mi infastidiscono e, se ne fossi stato capace, avrei indirizzato ai musicisti un fischio da mandriano. Una reazione che sarebbe rimasta isolata, peraltro. Dimenticando subito l’attesa immotivata a cui era stato costretto, infatti, quasi tutto il pubblicò salutò l’ingresso degli artisti con urla e pugni levati in aria in segno d’irrefrenabile entusiasmo. Ciò non bastando, in molti, per non dire tutti, si alzarono in piedi e saltarono ripetutamente senza poi tornare a sedersi.
Va da sé che le persone in piedi impedivano a quelle sedute di vedere il palco e chi lo calcava. Ciò generò qua e là degli inviti a riposizionarsi nel modo corretto, inviti che però si persero miseramente fra le urla del pubblico e quelle del cantante, che, oltretutto, era pure amplificato.
Stante la situazione, per vedere qualcosa ci si doveva rassegnare a alzarsi in piedi come gli altri. La cosa mi sembrava irragionevole e senz’altro mi indispose, tanto che misi il broncio e decisi di rimanere seduto. Tale scelta si rivelò anche più unica del mio abbigliamento. Già al primo dei brani in scaletta, le sedie ormai servivano a ben poco e, a parte me, quasi nessuno le utilizzava più.
Lo ammetto: la musica sparata ad altissimo volume dalla casse; la gente che si agitava ed io soltanto che stavo lì seduto… Era una situazione alquanto strana. Ancora inesperto del mondo, non sapevo che stava per diventare ancor più strana.
Essendo tutti alzati, per riuscire a vedere qualcosa ci fu chi ebbe la bella idea di salire in piedi sulla sedia, guadagnando una buona visuale. Per quanto in preda all’eccitazione del concerto, non furono in pochi a notare la brillante iniziativa decidendo di imitarla.
Va da sé che le persone in piedi sulle sedie impedivano a quelle in piedi sul pavimento di vedere il palco e chi lo calcava. Rese scaltre dall’esperienza, le seconde saltarono a piè pari la fase dell’invito a scendere e salirono anch’esse senz’altro sulle sedie. Nel giro di due minuti stare in piedi sulla sedia era la regola, io l’eccezione che la confermava.
Pur ostinatamente seduto, dovetti tuttavia a considerare l’ipotesi di alzarmi. Quelli vicino a me che saltavano sulle sedie cominciavano a sembrarmi un po’ pericolosi, infatti, e temevo che prima o poi qualcuno mi sarebbe cascato addosso.
Intanto che il concerto proseguiva, essendo tutti in piedi sulla sedia, per riuscire a vedere qualcosa ci fu chi ebbe la bella idea di salire sui braccioli. Prevedibilmente progettati per dare sostenere braccia e spalle e non persone intere, tali accessori fecero del loro meglio ma ciò non gli impedì di flettersi e molleggiare, rendendo instabile l’equilibrio e costringendo chi li utilizzava ad appoggiarsi alle persone accanto senza avere il tempo di avvisarle.
Pur di fronte ai limiti evidenti dell’iniziativa, essa piacque come le precedenti e via via tutti salirono sui braccioli, restandoci il tempo permesso dall’equilibrio e dalla disponibilità dei vicini a fare da sostegno.
Definitivamente distratto dalla musica, mi alzai e cercai un posto più sicuro, trovandolo dietro l’ultima fila di sedie, vicino all’uscita. Rimasi lì fino alla fine del concerto, anche se oggi non ne so più il perché.

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Imparare la lezione… Non è facile.

Se sbaglio, sbaglio per difetto: da quando sono nato, questi giorni di epidemia sono la terza occasione in cui sperimento una limitazione governativa della mobilità individuale od un obbligo generalizzato di cautela.
La prima fu nel 1973. A causa del cosiddetto “shock petrolifero” il Governo impose il divieto di circolazione dei veicoli privati. All’epoca vivevo a Roma e l’esperienza, per la mia età (13 anni) e le mie esigenze, fu tutt’altro che traumatica. Anzi, io, come credo molti altri, la vissi e ora ricordo con una certa gioia. Roma senza traffico… A piedi da casa fino al Colosseo senza pericoli né rumori… Le persone a spasso tranquille e sorridenti… Che sogno!
La seconda occasione fu nel 1986. A pochi chilometri da una, fino allora, sconosciuta cittadina dell’Ucraina settentrionale si sprigionò un nube radioattiva che arrivò fino in Italia e oltre. Un’ordinanza del ministro della Sanità vietò per 15 giorni la vendita di verdure fresche a foglie e la somministrazione di latte fresco ai bambini fino a 10 anni di età. Ricordo anche inviti a sigillare le finestre ma, verificando, non ne trovo traccia nel web. Magari ricordo male. Io, ormai sedicenne, ascoltavo di più i telegiornali ricavandone la sensazione che chi doveva prendere misure e informare la popolazione lo stesse facendo in ritardo, poco e male, come sperando che il problema si risolvesse da solo grazie al vento e alla pioggia.
La terza occasione è quella di questi giorni, che ormai sono tanti. Non passavo tutto questo tempo con mia moglie dai tempi del viaggio di nozze, un mese in lungo e in largo per il Peloponneso.
Il piccolo excursus m’è venuto di farlo ripensando alla domanda che molti si pongono: “Questa esperienza ci insegnerà qualcosa?” “Ci” inteso come corpo sociale, piccoli gruppi e grandi organizzazioni, Stato e istituzioni sovranazionali. Io lo spero ma così, come speravo di trovare tempo bello quando sarei andato in vacanza. Può capitare, e perciò posso sperarlo, ma niente più di questo.
Lo shock petrolifero avrebbe potuto far diventare pensiero comune il risparmio energetico, il ricorso a fonti rinnovabili e non pericolose, una movimentazione di merci e persone che eliminasse lo spreco e considerasse l’esauribilità di certe risorse. Avrebbe potuto ma non lo ha fatto.
Dall’esperienza delle conseguenze del disastro nucleare di Černobyl’ nacque a Fidenza, nel 1986, il primo Gruppo di Acquisto Solidale: relazione diretta fra produttore e consumatore; controllo sulla filiera (che, peraltro, può essere brevissima); prodotti attenti all’ambiente e alla salute di chi lavora ecc. L’idea dei GAS avrebbe potuto affermarsi come strumento diffuso di attenzione alla salute e alla relazione sociale. Avrebbe potuto ma non è accaduto, coi GAS che anche in questi giorni esistono e resistono ma sono una parte infinitesima del commercio di beni alimentari.
Dunque, spero che questi giorni insegnino qualcosa sul valore che diamo a persone e cose, sul rapporto migliore dell’uomo con l’ambiente, sulla dimensione più appropriata per i gruppi umani e per le loro fonti di sussistenza… Lo spero ma così, come speravo di trovare tempo bello quando sarei andato in vacanza.

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Tranquillo durante l’emergenza Covid-19

(Testo pubblicato per la prima volta il 31/3/2020 come post sulla mia pagina Facebook)

Mi hanno chiesto: “Ma tu come fai a essere così tranquillo in una situazione del genere?” La risposta è abbastanza semplice: penso che ogni marinaio affronti la tempesta con la barca e l’esperienza di cui dispone, non con quelle migliori ma di cui non dispone né di quelle che avrebbe potuto avere, ma che appunto non ha, se avesse considerato l’ipotesi di una tempesta.
Non credo che le circostanze determinino i nostri comportamenti; sono convinto che ogni circostanza sia l’occasione per manifestare le attitudini, le qualità, i difetti, le pulsioni più o meno razionali che proprio oggi fanno di noi quel che siamo. L’elaborazione e il cambiamento, se e quando avvengono, sono cosa che avviene “dopo”, con fatica e neanche sempre.In altre parole, nelle circostanze correnti, penso che ognuno stia reagendo alla situazione nel modo consueto che gli è proprio: chi è credente prega il suo Dio; chi non lo è esprime sue convinzioni d’altro genere; chi non si è mai posto questioni di questo tipo non lo farà neanche adesso.
Penso che tutti trovino nella stessa nuova situazione oggi condivisa la conferma delle convinzioni che già avevano: è colpa dei cambiamenti climatici; i cambiamenti climatici non c’entrano col virus; è colpa delle migrazioni; è colpa della troppa igiene che ci rende più vulnerabili; è colpa della poca igiene che ci espone più facilmente ad attacchi e così via.
Penso che tutti siano d’accordo o in disaccordo con gli stessi politici, imprenditori, opinionisti, organi d’informazione e simili ai quali davano retta prima dell’epidemia: occorrono più Stato, oppure più privato; più severità; meno severità; bisognava chiudere tutto subito; bisogna lasciar uscire di casa; il Governo ha deciso tardi; bisogna riaprire presto; ci vuole più agricoltura; ci vogliono grandi opere…
Penso che tutti attribuiscano priorità alle stesse cose alle quali l’attribuivano prima che scoppiasse la pandemia: occorrono più regole; più sussidiarietà; bisogna controllare i movimenti delle persone; bisogna responsabilizzare le persone; ci vuole la polizia; che noia l’autocertificazione…
Penso che dei fatti veri prima dell’epidemia non possano che manifestarsi nella loro verità mentre l’epidemia è in corso. Una sanità ferita, un sistema di istruzione impoverito, una macchina amministrativa inefficiente non si trasformano nel giro di una notte. Un particolare, questo, ignorato soprattutto da chi critica questo Governo e, infatti, non dice che cosa avrebbe fatto al suo posto ma, soprattutto, come lo avrebbe fatto disponendo esattamente degli stessi ospedali, scuole, apparato amministrativo.
Penso che alcune questioni che io ritenevo e ritengo “fondanti” continueranno a essere ritenute inutili e noiose. Se un qualunque partito mettesse al primo punto del suo programma l’efficientamento della pubblica Amministrazione, alle elezioni prenderebbe gli stessi voti che ho preso io che non mi sono presentato.
Non critico nessuno, nel “tutti” includo anche me stesso che non mi appello a un qualsiasi Dio in cui non credo; che ritengo che i cambiamenti climatici abbiano anche cause “umane” ed effetti sull’ambiente che ci avvolge e permea; che non mi sentivo rappresentato da alcun politico già prima, figuriamoci adesso che, sempre a mio avviso, per la gran parte mostrano il consueto atteggiamento: sia splendore o catastrofe, il fatto è che a comandare ci sono (o: vorrei esserci) io, ora e domani.
Quel che dico e penso, cioè quel che mi fa essere tranquillo, è che il mondo sta andando come sempre, con persone splendidamente solidali ed altre che pensano a come guadagnare dalla crisi, con chi dimostra sguardo lungo e senso pratico e chi si agita solo leggendo il titolo di qualche sito informativo online, con chi fa ammenda dei propri errori e chi non ha proprio nelle corde il mettersi in discussione né il capire che, per esempio, si può essere adatti a certe situazioni e totalmente inadeguati in altre.
Anche domani come ieri e oggi, così, farò quel che ho sempre fatto: cercare il bene, gettare qualche seme sperando che germogli, scegliere ogni giorno di seguire con coerenza le idee grandi e piccole che popolano le mie giornate. Di diverso c’è soltanto che sto facendo di tutto per non ammalarmi.
Lo so, l’ho fatta lunga ma era per spiegare una volta per tutte perché da domani tornerò a scrivere le mie sciocchezze, a condividere dolori e sorrisi coi miei amici, a proporre qualche idea, ricordo o riflessione. Quando leggo quelle dei miei amici, me ne nutro e sto meglio.

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