Tutto quel che ho da dire è già stato detto

Una scena del film “Brian di Nazareth” (1979, regia di Terry Jones)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 15/06/2015 nel sito antoniomessina.it]
Non ho un libro (o un film) “che mi ha cambiato la vita”, però ci sono libri e film che rappresentano opinioni che sento mie e lo fanno in un modo che ritengo, per dir così, “definitivo”. È per questo, per esempio, che in un post di alcuni mesi fa mi riferii al saggio di George Orwell Elogio del rospo come ad un testo che “… che dice tutto quel che c’è da dire sulle ragioni e il senso dell’impegno politico e sociale. Perlomeno, dice tutto quel che io avrei da dire sull’argomento.”
Altri esempi? Credo che Decalogo 5, del regista polacco Krzysztof Kieślowski, abbia reso inutile ogni ulteriore riflessione sulla pena di morte, spiegando orrore e insensatezza a tutti e per sempre.
Poi c’è la fulminante descrizione di un tipo umano contenuta nei Promessi sposi. Ci sono persone che costruiscono la propria fortuna sulla tendenza che hanno le persone a credere vero ciò che è solo un frutto della propria immaginazione o dei propri desideri. Basterebbe poco per smascherare l’inganno, basterebbe ancor meno a lasciare dove sono certi accenni sospesi e misteriosi, eppure sono molti quelli che assecondano ciò che credono vero e non ciò che verificano che sia vero. Le due parti protagoniste di questo meccanismo mentale sono espresse da Alessandro Manzoni in modo insuperabile nella descrizione manzoniana del Conte Zio. “Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega.”
Sono convinto che la nullità umana di certi (tanti) politici fanfaroni e pieni di sé sarebbe meglio evidenziata dall’ignorarli anziché metterli comunque, sia pure per criticarli nel modo più feroce, al centro della scena. Ed è un esempio fin troppo alto quello fornito da Lev Tolstoj in uno strepitoso passaggio di Guerra e pace che, nel modesto contesto di questo mio blog, posso citare (si tratta dei capitoli XIX e XX della Parte Terza dell’opera) solo per estratti:
“L’atteggiamento di magnanimità col quale [Napoleone] aveva intenzione di comportarsi a Mosca ormai trascinava lui stesso. Già fissava in mente sua, i giorni di réunion dans le palais des Czars, dove si sarebbero incontrati i dignitari russi con i dignitari dell’imperatore francese. Nel suo fantasticare, già nominava un governatore che sapesse accattivarsi le simpatie della popolazione. Avendo saputo che a Mosca c’erano molte istituzioni di beneficenza, aveva già deciso, tra sé, che avrebbe colmato di generosi favori tutte quelle istituzioni.

Intanto, nel seguito dell’imperatore, nelle file più arretrate, si stava svolgendo a bassa voce un concitato consulto fra generali e marescialli. Quelli che erano stati inviati a chiamare la deputazione avevano fatto ritorno con la notizia che era deserta, che tutti erano partiti e l’avevano abbandonata. Le facce delle persone riunite a consulto erano pallide e agitate. Non li spaventava tanto il fatto che Mosca fosse stata abbandonata dagli abitanti (per quanto importante sembrasse quest’avvenimento), quanto il pensiero di come annunciare la cosa all’imperatore; come annunciargli, senza mettere Sua Altezza nella terribile situazione che i francesi definiscono
ridicule, che inutilmente aveva atteso i boiardi così a lungo, che a Mosca era rimasto qualche gruppetto di ubriachi, ma nulla di più.

“… era vuota Mosca mentre Napoleone, stanco, inquieto e accigliato, camminava avanti e indietro lungo il Kamerkolležskij Val, in attesa di quell’esteriore, ma indispensabile osservanza del cerimoniale, ossia il presentarsi di una deputazione di moscoviti.
Nei vari angoli di Mosca, ormai, la gente continuava a muoversi e a camminare senza chiedersi il perché, senza alcun motivo, conservando le vecchie abitudini, ma senza rendersi conto di quello che faceva.
Quando, con la dovuta cautela, fu annunciato a Napoleone che Mosca era vuota, egli guardò con ira colui che gli dava la notizia e, voltandogli le spalle, continuò a camminare su e giù in silenzio.
«La carrozza,» ordinò.
Si sedette in carrozza accanto all’aiutante di servizio e si recò al sobborgo.
«
Moscou déserte. Quel évenement invrainsemblable,» diceva fra sé.”
E, con stile ovviamente assai diverso, non trovo meno geniale, efficace e “definitiva” la feroce ironia con la quale i Monty Python riassumono in poche battute la storica attitudine dei progressisti rivoluzionari di spaccare il capello della “purezza ideologica”, attitudine assai più forte delle azioni pratiche in favore di quelle masse per le quali proclamano di battersi. La scena è in un film quasi tutto memorabile come Brian di Nazareth. Chi, come me, ha frequentato la sinistra italiana degli anni ’70 (mamma mia!: del secolo scorso!) , soprattutto quella cosiddetta “extraparlamentare”, non potrà non riconoscere, per sempre, la verità raccontata dallo storico gruppo inglese. Sarebbe bello, anche in questo caso, avere l’onestà di dire che certe attitudini mentali non sono però sparite nei decenni successivi.

Pubblicato in Scienze umane, Vivere oggi | Contrassegnato , , , , , , , , , , | Commenti disabilitati su Tutto quel che ho da dire è già stato detto

La sinistra che mi va stretta

Immagine di Lenin durante un comizio

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 02/01/2015 nel sito antoniomessina.it]
Riferito al mondo delle idee politiche, il termine “sinistra” è divenuto quasi inservibile per quanto è stato esteso o compresso, tirato da una parte o dall’altra, piegato agli scopi più diversi da un gran numero di persone che, senza neppure dover scavare molto, si scopre che condividono poco o nulla su che cosa sia giusto per il consorzio umano. Nonostante questo, nell’opinione comune rimane viva la vaga sensazione che sia “di sinistra” difendere i diritti dei lavoratori e preferire il “progresso” alla “conservazione” (salvo non precisare più di tanto in che cosa consistano concretamente l’uno e l’altra).
Quando, appena ragazzo, iniziai a interessarmi dei problemi del mondo, fu a “sinistra” che pensai di trovare l’abito della mia misura. Dopo quarant’anni, quell’abito ho cominciato a sentirmelo un po’ stretto. Provo a dirne i motivi dopo aver avvertito, peraltro, che mi riferirò volutamente a un’accezione amplissima del termine “sinistra”, senza addentrarmi nelle mille sfaccettature che distinguono, tanto storicamente quanto al giorno d’oggi, i suoi interpreti italiani dagli anni Settanta in poi.
Una prima idea che mi va stretta è la centralità del lavoro che, immediatamente, diventa centralità della produzione, con quel che segue in termini di modello sociale, sfruttamento di risorse e via dicendo. A mio avviso, questa idea sta alla base dell’incapacità, da parte della sinistra, di assumere integralmente nel proprio bagaglio le tematiche ambientali, così essenziali da affrontare per definire un’idea di futuro equo e sostenibile. Come se non bastasse, la sinistra ha spesso visto le scelte di tutela dell’ambiente come alternative o addirittura in contrasto con la tutela del lavoro dimostrando, una volta di più, di non aver compreso i termini del problema. Lo schema della sinistra, così, spesso è stato il seguente: i posti di lavoro vanno salvaguardati; se si inquina, pazienza; se bonificare è costoso e il privato non se lo può permettere, intervenga lo Stato perché i posti di lavoro vanno salvaguardati. Che quel lavoro, e il prodotto che ne deriva, siano insensati economicamente e insostenibili ambientalmente, poco conta, perché i posti di lavoro vanno salvaguardati.
Una seconda idea che mi va stretta è la centralità dei lavoratori. I lavoratori sono importanti ma la loro non è l’unica categoria (tanto sociale, quanto interpretativa) su cui fa perno la comunità delle persone. Se si può opinare sulla validità teorico-operativa della categoria dei “poveri” cara al pensiero cattolico, per esempio, dovrebbe raccogliere maggiori consensi, a mio parere, la categoria “persone” o, provando a focalizzare un po’, quella di “soggetti deboli”. Viceversa, nella mia esperienza ho incontrato spesso una “sinistra” che organizzava scioperi di chi lavorava e reclamava il lavoro per chi non l’aveva; non ho incontrato mai, o quasi, una sinistra che organizzava gruppi di acquisto o reti solidali dedicate alle persone anziane, ai ragazzi che avevano bisogno di un doposcuola, ai disabili o ai senza tetto. Volendo forzare un po’ l’immagine, la sinistra si è occupata dei lavoratori e si è dimenticata delle loro famiglie.
Le modeste riflessioni che avete appena letto sono figlie della mia esperienza di questi ultimi anni, fortunatamente ricca di momenti schierati, partigiani, concreti e trasversali. Sia nel Gruppo di Acquisto Solidale a cui partecipo, sia nella rete dei soci di Banca Etica di cui mi onoro di far parte, infatti, convivono persone dalle storie politiche e personali più diverse. Queste persone, tuttavia, riescono a incontrarsi sul terreno comune delle azioni a difesa della dignità delle persone e a sostegno della loro possibilità di esprimersi e realizzarsi. Più in generale, queste persone si ritrovano nel provare a disegnare un’idea di futuro sostenibile ma ancor più, se possibile, a praticare già oggi quell’idea di futuro.
Non dubito che, fra le autoproclamate persone “di sinistra”, in molti storceranno il naso e, chissà con una punta di disprezzo, mi diranno che quel che dico non basta e addirittura è grave, perché non mette in discussione “i rapporti di forza” o perfino il “modello di società capitalista”. Per questo primo articolo del 2015, però, ho già scritto molto. Replicherò alla critica in un’altra occasione, prima o poi. Buon anno a tutti.

Pubblicato in Società e vita politica | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su La sinistra che mi va stretta

Le Province e il carattere degli italiani

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 28/12/2014 nel sito antoniomessina.it]
Se chiedete ai primi dieci passanti che incontrate per strada che cosa pensino dei pubblici dipendenti, dieci su dieci vi risponderanno che si tratta di fannulloni (versione oggi in voga del vecchio “lavativo”), raccomandati, inefficienti e incapaci e perciò, condensando, di parassiti sociali. Nel vasto mare dei pubblici dipendenti, poi, quelli che lavorano per le Province sono ritenuti i più fannulloni, raccomandati, inefficienti e incapaci e perciò, condensando, i più parassiti di tutti.
Nei tempi presenti, l’opinione corrente sui dipendenti pubblici, compresi quelli delle Province, determina il modo col quale la “conversazione sociale” commenta la soppressione di vecchie tutele a loro favore o quell’evento doloroso, addirittura ritenuto impensabile fino a poco tempo fa, che è la perdita del posto di lavoro. Riferendosi a tali circostanze, anche i commenti più benevoli si riassumono con frasi del tipo “ben gli sta”, o un’ancor più chiara “finalmente tocca anche a loro passare gli stessi guai degli altri”. In altre parole, si riceve una gratificazione dal pensiero che anche i dipendenti pubblici, finalmente, soffrono come meritano dopo che se la sono spassata per decenni.
In queste settimane, dunque, non sorprende che opinioni del genere che abbiamo citato si riversino copiosamente sui dipendenti delle Province, il cui futuro è reso quanto meno incerto dai cosiddetti “tagli lineari” praticati alle risorse finanziarie e alle dotazioni di personale dell’Ente per cui lavorano, tagli non accompagnati da certezze sull’esito positivo dei procedimenti di ricollocazione in altri enti.
Io sono un dipendente pubblico da quasi 32 anni e da oltre 13 lavoro per una Provincia. Tale circostanza conosce un’aggravante nel fatto che, in settori diversi da quelli che ho frequentato, sono stati pubblici dipendenti entrambi i miei genitori, con la conseguenza che fin dalla fine degli anni Sessanta (che fa un po’ effetto poter definire “del secolo scorso”) ho ascoltato storie di scuole e direttori didattici, di ministeri e di ministeriali, di archivi bui pieni di faldoni accatastati, di corridoi interminabili sulle quali si affacciavano stanze più o meno luminose, dove le persone più diverse si dedicavano con diverso impegno a varie attività.
Confessata la colpa di essere un pubblico dipendente, potrei provare a ingraziarmi il lettore affermando (e giuro che lo farei con assoluta sincerità e convinzione) che la mia esperienza diretta e indiretta mi ha fatto trovare negli uffici pubblici uffici un numero impressionante di dipendenti fannulloni (già detti “lavativi”), raccomandati, inefficienti e incapaci e perciò, condensando, di parassiti sociali che si sono adoperati in vario modo per consolidare la propria fama praticando condotte vistosamente reprensibili: dall’assenza prolungata dalla propria postazione alla quieta permanenza oltre misura in bar interni e esterni; dalla lentezza irragionevole nel concludere un procedimento all’uso del tempo di lavoro per attività altrimenti, ed altrove, lodevoli come quella di tenersi aggiornati sulle vicende del mondo in cui viviamo. Il tutto, naturalmente, al netto di episodi più gravi di corruzione o concussione. Potrei provarci ma non lo farò, perché adesso vorrei partire dal caso dei dipendenti provinciali per affrontare un altro argomento anche più doloroso.
La Legge di Stabilità 2015 riduce la spesa per il personale delle Province del 50%. La conseguenza è che bisognerà definire il destino professionale e retributivo di oltre ventimila persone (o, più esattamente secondo il cittadino, di oltre ventimila fannulloni, raccomandati, inefficienti e incapaci e perciò, condensando, di oltre ventimila parassiti sociali). Tale destino, al netto di dichiarazioni più o meno fuorvianti, prevede un percorso delle durata di due anni al termine del quale esistono due sbocchi: essere destinato a un’altra pubblica amministrazione oppure tornare a casa.
Se chi gongola per i guai dei pubblici impiegati fosse un essere coerente e razionale, dunque, dovrebbe concludere che la citata riduzione del 50% delle risorse destinate al personale delle Province produrrà i seguenti benefici:

  1. ipotizzando che nessuno lavori bene, con la riduzione si otterrà, almeno, il dimezzamento del numero di dipendenti provinciali fannulloni, raccomandati, inefficienti e incapaci e perciò, condensando, di parassiti sociali che gravano sulla collettività;
  2. ipotizzando che qualcuno lavori, il livello dei servizi forniti rimarrà identico perché ad essere allontanati saranno i fannulloni ecc., mentre a rimanere saranno coloro che tiravano la carretta anche per gli altri (chissà, magari ce n’era qualcuno) o che, già fannulloni, saranno costretti a rimboccarsi le maniche per compensare le assenze definitive di chi sarà stato trasferito, altrove o a casa sua;
  3. un incremento dell’efficienza complessiva della pubblica amministrazione.

È a questo punto che devo introdurre il resoconto della mia esperienza professionale di questi ultimi anni. Mi limito ai numeri. A fine febbraio 2010, la durata media dei procedimenti assegnati al mio ufficio era di 21 giorni. A fine dicembre 2012, la durata media era scesa a tre giorni. Questo risultato l’ho ottenuto a parità di norme legislative (anche affrontando due picchi anomali di lavoro determinati da norme settoriali che introducevano delle scadenze) e di unità di personale a disposizione del mio ufficio (quattro, me compreso). L’incremento di produttività realizzato in meno di due anni, dunque, è stato pari all’85%, ben maggiore del 50% assicurato dalla Legge di Stabilità 2015.
Dov’è il trucco? Il trucco sta nel fatto che io e la maggioranza politica che oggi ci governa avevamo due obiettivi diversi. Il mio era quello di ridurre sia gli sprechi (per esempio, il consumo di carta nel mio ufficio si è ridotto di quasi l’80%), sia il tempo necessario al cittadino per avere ciò che chiedeva (per i procedimenti più semplici sono riuscito a ottenere un tempo di attesa pari a zero, cosicché con una sola visita il cittadino risolve il suo problema). Questo risultato è stato ottenuto grazie ad accorgimenti perfino banali: ridefinizione delle procedure eliminando i passaggi non necessari; definizione di liste di controllo puntuali che guidassero gli addetti nello svolgimento delle verifiche obbligatorie di routine; uso attento e spinto delle possibilità offerte dalla rete Internet, rendendo facilmente accessibili informazioni e modulistica (le pagine web del mio ufficio, così, sono sempre al secondo o terzo posto fra le più viste dell’ente, dopo quelle degli uffici di formazione e ricerca di lavoro), così come risolvendo via email tutto ciò che non richiede consegna di marche da bollo o altri documenti da acquisire fisicamente.
L’obiettivo della Legge di Stabilità, invece, qual è? Ottimizzare la spesa? Far crescere l’efficienza? Mandare a casa fannulloni e raccomandati? Migliorare i servizi?
È per questo che vorrei chiedere a chi gongola per le riduzioni retributive (ci sono già state) o per la perdita del lavoro a carico dei dipendenti pubblici: in che modo un taglio lineare del 50% ottimizza la spesa, accresce l’efficienza, elimina i fannulloni, espelle i raccomandati, migliora i servizi? Chi può garantire, attraverso un taglio lineare gestito dalle stesse persone che hanno costruito un sistema inefficiente, che a rimanere non saranno i più raccomandati e non i più capaci? È troppo pretendere che risulti ovvio che un taglio lineare, cioè l’eliminazione di costi indipendentemente dall’analisi di merito della spesa, non raggiunge alcuno degli obiettivi citati?
La mia risposta è che sì, è troppo. È troppo per almeno due motivi. Il primo è che nessun cittadino o quasi, nella mia modesta esperienza, ha il desiderio e la pazienza di capire che un risultato necessario, cioè servizi pubblici adeguati a costi appropriati, può essere ottenuto soltanto attraverso un’azione lucida, paziente, determinata, fatta più di piccoli interventi che della “grande soluzione”, affidata a persone mediamente ragionevoli e competenti che, tuttavia, abbiano quale unico scopo la migliore efficienza del servizio.
Il secondo motivo, però, è quello che forse è decisivo. Nel mare di critiche, tanto facili quanto giustificate, che si rivolgono ai pubblici dipendenti, nessuno o quasi ha mai riconosciuto che il pubblico impiego non è un bubbone esterno, bensì una delle manifestazioni del corpo sociale. Per dire, quando allo sportello dicevo che stavo lavorando per ridurre la durata media dei procedimenti, secondo voi mi dicevano “bravo, vada avanti così”, oppure “faccia come crede, ma IO ho urgenza”? E quando replicavo: “E gli altri che hanno urgenza come lei?” la risposta, variamente formulata, ricordava sempre quella di tal Cetto La Qualunque.

Pubblicato in Società e vita politica | Contrassegnato , , , , , | Commenti disabilitati su Le Province e il carattere degli italiani

Fuori dall’euro? Prime considerazioni.

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 14/12/2014 nel sito antoniomessina.it]
Il dibattito semi-permanente sulla moneta europea e su quanto sia desiderabile abbandonarla per tornare, nel caso dell’Italia, alla Lira, ha subito un’accelerazione dopo che il Movimento 5 Stelle ha avviato la raccolta di firme per poter presentare una legge di iniziativa popolare finalizzata a indire un referendum consultivo sulla permanenza o meno dell’Italia nella cosiddetta “zona euro”.
In sostanza, il Movimento 5 Stelle si sta battendo per dare ai cittadini la possibilità di esprimersi rispetto a una scelta, quella di aderire all’euro, sostanzialmente avvenuta sulle loro teste. Persone che stimo, peraltro, hanno sollevato dubbi un po’ su tutto: sullo slogan scelto per promuovere la raccolta di firme (“Fuori dall’euro”); su quanto sia efficace un referendum consultivo su una materia ostica per la quasi totalità dei cittadini; infine, su quanto sia davvero possibile e, soprattutto, desiderabile che l’Italia esca dall’euro. A queste persone cerco di offrire un mio primo, piccolo contributo alla riflessione su un tema che, purtroppo e come al solito, è affrontato da molti nel modo chiassoso e irrazionale che mi pare non abbia mai risolto un problema che sia uno. Detto ciò, veniamo al dunque.
Primo fatto: l’Unione Europea è attualmente composta da 28 stati; 19 (compresa la Lituania che adotterà l’euro nel 2015) fanno parte della zona euro e gli altri nove, no. Fra questi nove ci sono economie “minori” ma anche Danimarca, Regno Unito e Svezia. Dunque è accertato che il mondo va avanti anche senza usare l’euro.
Secondo fatto: l’unico beneficio incontrovertibile, non contestato da alcun economista, derivante dall’adozione dell’euro è l’aver favorito la circolazione di merci e persone grazie all’azzeramento del rischio e dei costi di cambio. Su tutto il resto, a cominciare dall’effetto sull’andamento dei prezzi, le conclusioni sono le più varie. Dunque è almeno lecito chiedersi se il rapporto costi-benefici dell’adozione dell’euro (o del rimanere nell’area euro) sia vantaggioso.
Terzo fatto: a gennaio 2002, data di avvio della circolazione della moneta europea, il debito pubblico italiano era di 1.358.350 milioni di euro. L’ultima rilevazione (cioè ormai a fine 2014) lo quantifica in 2.148.395 milioni. Il dato forse più interessante, peraltro, è che dal 2002 ad oggi il debito pubblico è sempre andato aumentando, ogni anno è stato peggiore del precedente. L’euro, dunque, non ci ha difeso da niente, né dall’aumento del debito nazionale, né dall’inflazione che è scesa (fino a diventare recessione) praticamente in tutta Europa, euro o no che fosse.
Non pretendo di essere un economista di vaglia, né di aver esaurito l’argomento con queste poche pillole. Però mi sembra che ci sia già da riflettere su questo: ci chiedono di fare (ancora) sacrifici perché ce lo chiedono l’Europa e i mercati, ci dicono che uscire dall’euro sarebbe una tragedia e però, come sempre, non spiegano perché.
Alla prossima puntata.

Nota del 21/08/2019: A queste “prime considerazioni” non sono seguite le seconde e eventuali altre. In compenso un po’ d’acqua è passata sotto i ponti e oggi, mi pare, l’argomento è passato un po’ di moda. Il Movimento 5 Stelle non ne fa più un cavallo di battaglia e la Lega di Matteo Salvini spara sul bersaglio grosso dell’Europa in quanto tale, Europa in cui l’Italia dovrebbe mostrare i muscoli e far come le pare su qualsiasi tema di politica economica e sociale. Se ne avrò il tempo, magari affronterò questi argomenti, prima o poi.

Pubblicato in Economia e finanza, Società e vita politica | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su Fuori dall’euro? Prime considerazioni.

Cambiare il mondo amando una coniglia

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 21/11/2014 nel sito antoniomessina.it]
Il mondo continua ad esser pieno di ingiustizie, guerre e crisi umanitarie. Nel frattempo il debito pubblico italiano galoppa verso l’alto e i cambiamenti climatici, combinandosi con l’incuria irresponsabile dell’uomo, hanno effetti vistosi e drammatici sulla vita quotidiana di milioni di persone. In un contesto simile, ha senso, è giusto ed è ammissibile dedicare un articolo al perché si vuol bene a una coniglia? La risposta a questa domanda è contenuta in un breve saggio di George Orwell, già citato in questo blog, che dice tutto quel che c’è da dire sulle ragioni e il senso dell’impegno politico e sociale. Perlomeno, dice tutto quel che io avrei da dire sull’argomento. Perciò, magari dopo avervi invitato nuovamente a leggere l’Elogio del rospo scritto da Orwell, passo senz’altro a dirvi della mia coniglia Bianca.
Bianca è entrata in casa nel 2010, quando io avevo 50 anni e nessuna precedente esperienza di animali in casa. Pesava 248 grammi, un batuffolo bianco e saltellante. Mia sorella mi prende in giro perché racconto sempre lo stesso aneddoto ma, ad oggi, è ancora vero che Bianca è l’unica coniglia che, quando ci siamo avvicinati alla gabbia che la ospitava, ci è venuta incontro.
Bianca, da coniglia quel è, dispone di una gamma limitata di espressioni e di movimenti. La sua morfologia mi procura sempre la stessa impressione di un animale assemblato prendendo per errore pezzi singoli di taglie differenti perché Bianca, da coniglia qual è, ha zampe posteriori lunghe quasi quanto il resto del corpo; zampe anteriori piccole e corte, tronco massiccio; spalle strette; una muscolatura troppo sviluppata rispetto allo scheletro, con quest’ultimo che non arriva al 10% del peso totale dell’animale. Di perfetto c’è soltanto l’insieme testa-orecchie, che disegna due ovali di lunghezza simile.
Bianca, da coniglia qual è, divide la sua giornata fra frequenti sonnellini (anche più di venti al giorno), consumo di cibo, rilascio di urina ed espulsione di un numero esorbitante di palline di feci. Praticamente non emette suoni e quando si sposta non fa alcun rumore. A volte gradisce le carezze, a volte ti gira attorno, spesso ama non essere seccata. È un animale molto pulito ma non è così attento da usare sempre la lettiera. Periodicamente perde peli.
Bianca, da coniglia qual è, condiziona molto la vita. Non puoi darle due euro e dirle “Vai, comprati l’insalata”, per dire. L’abbiamo portata con noi in Austria e perfino in Olanda, ma organizzare i viaggi non è semplice. Occorrono posti dove si va e si rimane almeno qualche giorno, come minimo un balcone, la possibilità che stia al coperto. Nel bagaglio di viaggio, da quando c’è Bianca è compreso un recito smontabile e cartoni e teli da stendere sul pavimento per prevenire guai (specialmente sui parquet in legno!). In viaggio come a casa, peraltro, occorre prepararle la lettiera (perciò bisogna essere in posti dove si possano trovare lettiere per roditori, che non sono uguali a quelle per gatti) e poi anche da mangiare: fieno, qualche ortaggio e verdure fresche, lavate e poi asciugate perché sennò le fermenterebbero nello stomaco provocando danni irrimediabili.
La vita è condizionata anche dal fatto che Bianca, da coniglia qual è, bisogna sempre averla presente. Se si produce un problema di natura fisica, infatti, il coniglio non si lamenta, si raccoglie come quando dorme e si spegne come una candela. Perciò bisogna sempre essere certi che sia attivo, che mangi e che espella regolarmente le sue palline. Se poi ha un problema di salute, le cose si complicano davvero, perché forse potete immaginare che somministrare cinque farmaci diversi per bocca a un coniglio (esperienza appena vissuta) può presentare qualche difficoltà.
Dunque il coniglio è un animale impegnativo e Bianca non fa eccezione. Da quattro anni, però, sto vivendo un’esperienza che ha molti lati belli e che non manca di aspetti formativi.
Bianca è morbidissima. Accarezzarla restituisce gioie infantili come la scoperta, da bambino, di quanto fosse piacevole passare le dita sul velluto.
Bianca pretende molto. L’amore e l’attenzione che le devi dedicare hanno, secondo me, molti punti di contatto con quelli che si destinano a un neonato. È un grande esercizio, specialmente per me che sono padre di una figlia che quando è nata aveva già di 11 anni (per chi non intuisse: sono un padre adottivo).
Bianca, nel suo piccolo, ripropone ogni giorno il dilemma del rapporto fa uomo e natura. È giusto tenere un animale in casa? La protezione di un coniglio dai rapaci fa premio su una vita che non è quella che gli sarebbe toccata naturalmente? Quale che sia la risposta, tenere la mente allenata al dubbio credo che sia sano.
Bianca è un animale ipnotico. La guardi muoversi, pulirsi prima le zampine e poi con quelle il muso; oppure stare immobile, dormire rannicchiata o distesa come una diva del cinema muto, ed in entrambi i casi la tua mente è distolta da ogni altro pensiero.
Bianca, passando molto tempo in casa, è protagonista involontaria di momenti indimenticabilmente comici: quella volta che dormiva e, quando qualcuno pronunciò la parola “forno”, sollevò l’orecchio sinistro; quella volta che dormiva un po’ di sbieco su un piano in pendenza e si ribaltò nel sonno; quella volta che d’inverno stava per uscire sul terrazzo ma sulla soglia, sentito il freddo col naso, fece rapidamente retromarcia; quella volta che si nascose dietro il frigorifero; quella volta che…
Bianca, passando molto tempo nel piccolo terreno fuori casa, si fa ammirare mentre dormicchia o bruca tranquilla. Sorprende sempre per la velocità con la quale riesce a scavare una tana in cui nascondersi. Il record lo stabilì una volta che trovammo la buca chiusa. Mia moglie temeva che fosse rimasta bloccata dentro, invece aveva scavato e poi tappato il buco in meno di mezz’ora. Noi lì a preoccuparci per la sepolta viva che poi, voltandoci, abbiamo scoperto essere alle nostre spalle che ci osservava da un po’, col capino reclinato, in posa interrogativa.
Il mondo continua ad esser pieno di ingiustizie, guerre e crisi umanitarie. Nel frattempo il debito pubblico italiano galoppa verso l’alto e i cambiamenti climatici, combinandosi con l’incuria irresponsabile dell’uomo, hanno effetti vistosi e drammatici sulla vita quotidiana di milioni di persone. Cambiare questo in meglio richiede enorme impegno, ma anche una coniglia dà senso alla battaglia.

Pubblicato in Società e vita politica, Vivere oggi | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su Cambiare il mondo amando una coniglia

Il viaggio nello spazio che lascia spazio nella libreria

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 02/11/2014 nel sito antoniomessina.it]
Nel catalogo dei miti di mia sorella c’è l’astronauta russo Jurij Gagarin che per primo volò, il 12 aprile 1961, nello spazio fuori dell’atmosfera terrestre. Addirittura, quando si trattò di decidere un titolo per il suo blog di commenti all’attualità, mia sorella scelse Vedo la Terra blu, cioè alcune delle parole dette da Gagarin durante lo storico volo (“La Terra è blu. Che meraviglia. È incredibile!”). Quando su un banchetto di libri in vendita ho visto l’autobiografia di Gagarin (Non c’è nessun Dio quassù, Roma, 2015, Red Star Press, pp. 186) così, l’ho subito comprato, fregandomi le mani per aver risolto con largo anticipo il problema di almeno uno dei regali di Natale. E invece…
Il problema, temo, è che l’essere umano dimentica con facilità anche le cose peggiori, specialmente se non l’hanno riguardato direttamente. Nel caso specifico ho ingenuamente pensato ad un libro che trasmettesse la conoscenza di un uomo coraggioso, scrupoloso nella preparazione ma pronto ad affrontare rischi e stati d’animo mai sperimentati prima da altri esseri umani. Dimenticavo, però, che un racconto sincero, libero da intenti propagandistici, era qualcosa di impossibile nella Russia del cosiddetto “comunismo reale”. Il libro, infatti, è quel che “doveva” essere: il resoconto di un percorso senza cadute infarcito di passaggi come “Rimasi molte ore a riflettere prima di compilare la mia domanda di adesione al partito. Ero sopraffatto dall’emozione. M’era impossibile di esprimere tutto quello che provavo perché mi sarebbero occorse parecchie pagine”, e poi, una volta ammesso, “L’entrata nel partito era uno dei più grandi avvenimenti della mia vita. La sera stessa ne informavo mio padre … Appena arrivato a casa mostrai la mia tessera … Allora soltanto ne guardai il numero: era lo 08909627”.
Alla fine, l’interesse maggiore del libro è dato da quel che riusciamo a intuire su come andavano le cose nella Russia degli anni ’50. Per esempio, dalle parole di Gagarin (peraltro, a dar retta alla nota introduttiva di Gagarin stesso, messe su carta da un anonimo giornalista della Pravda) si ricava che, nelle pretesa società comunista e senza classi, il corpo sociale era ingabbiato in compartimenti a tenuta così stagna da reggere il confronto con le caste indiane, coi membri del Partito Comunista dell’Unione Sovietica tutti un gradino sopra gli altri.
A dispetto dell’idea suggerita continuamente (nelle parti del libro non dedicate alla corsa verso lo spazio) di una società coesa dove tutti si sentono al proprio posto mentre collaborano alla realizzazione della società comunista, poi, fra le conseguenze della lettura c’è la formazione del convincimento che il cosiddetto “sogno americano” (in base al quale anche un lustrascarpe può diventare miliardario) è una fiaba che in realtà non ha confini e che, comunque, ha una sua versione russa. Già l’attacco del libro basterebbe a confermarlo: “Vengo da una famiglia comune, una famiglia di lavoratori come ce ne sono a milioni nella mia patria socialista. I miei genitori sono due semplici russi ai quali la Rivoluzione d’ottobre ha dato una vita piena e dignitosa”. E nonostante ciò, si lascia intendere, ho potuto diventare quel che sono diventato.
Fatto sta che a lettura ultimata mi sono reso conto che non potevo regalare un libro del genere. Così, la biografia del primo uomo che ha volato nello spazio non occuperà il suo piccolo spazio nella libreria di mia sorella.
Non hanno favorito la piacevolezza della lettura i numerosi errori di stampa presenti nell’edizione che ho avuto fra le mani. Fra questi errori è presente un memorabile “rutti” al posto di “tutti”. vaše zdorov’e! (Alla salute!)

Pubblicato in Libri, arte, cinema, umanità | Contrassegnato , , , , , , , , | Commenti disabilitati su Il viaggio nello spazio che lascia spazio nella libreria

Una spiga ci salverà. L’Italia che cambia vista da Daniel Tarozzi.

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 29/10/2014 nel sito antoniomessina.it]
Vivendo e curiosando fra le esperienze di cosiddetta “nuova economia”, un lettore abituale quale sono doveva prima o poi incontrare Io faccio così. Viaggio in camper nell’Italia che cambia di Daniel Tarozzi (Milano, Chiarelettere, 2013, pp. 347).
Il libro riferisce di una parte (farlo per tutti avrebbe richiesto troppe pagine) degli incontri che l’autore ha avuto visitando città, paesi e case più o meno isolate alla ricerca di quell’Italia che si muove, innova, collabora e resiste ma non viene raccontata. In un testo del genere la qualità letteraria passa evidentemente in secondo piano e la scrittura si mette al servizio del lungo resoconto che, di pagina in pagina, prova a sintetizzare in poche righe un’idea di vita, un progetto, una battaglia.
Di fronte a un’opera di questo tipo, le chiavi di lettura più facili sono quelle del “c’è un’Italia migliore di quella che ci viene raccontata, “ci sono molte iniziative innovative”, “se si vuole si può cambiare vita” e cose del genere. Si tratta di chiavi esatte che, tuttavia, accantono per esporre qualcuna delle impressioni diverse stimolate dalla lettura.
La prima: fra quelle di cui si riferisce, sono numerose le esperienze che puntano a creare microcomunità “perfette” connotate da relazioni paritarie, condivisione di beni, rapporto rispettoso con la natura che sostiene la sopravvivenza. Ogni comunità ha un’impronta precisa e regole proprie, a volte anche severe. In comune fra loro, mi sembra, hanno una propensione all’isolamento, riuscendo magari a costruire un mondo “perfetto” e autosufficiente ma al prezzo di non confrontarsi con quello imperfetto in cui vive il resto della popolazione.
La seconda: cambiare vita e guardare al futuro sono intenti che, nella pratica, si traducono spesso in un ritorno al passato: svolgimento di attività primarie (agricoltura, ovviamente biologica, e allevamento), ritmi scanditi dalla natura ecc. In questo momento in cui sto scrivendo non riesco a ricordare di aver trovato esempi di cambiamenti legati all’impiego e alla ricerca di nuove tecnologie. Peraltro, accade spesso che ecovillaggi o cooperative sociali abbiano un loro sito Internet.
La terza: nella quasi totalità dei casi, il successo duraturo dell’iniziativa intrapresa è ritenuto possibile a condizione che si riesca a essere parte di una rete collaborativa che può prendere la forma elementare dei rapporti di vicinato ovvero quella più strutturata delle reti di economia sociale (fra le quali si cita la campagna Genuino Clandestino di cui ho parlato nell’articolo precedente a questo).
A queste tre osservazioni, via via che leggevo se ne è affiancata una quarta con sempre maggior forza. Molto spesso, per non dire sempre, anche attività “estreme”, come la creazione di una piccola comunità autosufficiente, sono costrette a entrare in contatto col “mondo”: un finanziamento da ottenere, un attrezzo da procurarsi; un contratto di comodato per l’uso di un immobile; il riconoscimento della propria attività da parte delle istituzioni ecc. In simili circostanze, dunque, anche l’esperienza più isolata è l’ultima fermata di decisioni prese assai lontano.
Anche dalla lettura, a volte entusiasmante, del libro di Tarozzi, quindi, a mio avviso emerge ineludibile il problema della rappresentanza di queste istanze, cioè di un soggetto politico (nel senso più nobile del termine) che riesca a mettersi al loro servizio dando forma giuridica (che non è una bestemmia ma l’organizzazione della convivenza) alla libertà cooperativa dei singoli.

Pubblicato in Libri, arte, cinema, umanità, Società e vita politica | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su Una spiga ci salverà. L’Italia che cambia vista da Daniel Tarozzi.

Genuino Clandestino e le certificazioni

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 23/10/2014 nel sito antoniomessina.it]
Dal 24 al 27 ottobre 2014, a Pesaro, si svolgerà l’Incontro nazionale di Genuino Clandestino, una delle esperienze di nuova economia più vivaci e significative di questi anni. L’evento, al quale parteciperò nella seconda giornata di lavori, cade in un periodo che, per me, è segnato dalle vicende sempre più preoccupanti dell’ente pubblico per il quale lavoro. Ed è stato un punto molto interessante del Manifesto di Genuino Clandestino che mi ha condotto a qualche riflessione collegata al senso di quella che tutti chiamano burocrazia.
Genuino Clandestino, leggo nel Manifesto, si propone di “Praticare, all’interno dei circuiti di economia locale, la trasparenza nella realizzazione e nella distribuzione del cibo attraverso l’autocontrollo partecipato, che svincoli i contadini dall’agribusiness e dai sistemi ufficiali di certificazione, e che renda localmente visibili le loro responsabilità ambientali e di costruzione del prezzo”. Condivido praticamente ogni parola e, soprattutto, la visione della vita che è alla base di quelle parole, una visione fatta di trasparenza, onestà, partecipazione, così come della responsabilità che ciascuno deve assumersi di fronte alle scelte quotidiane. Tuttavia, come mi accade spesso, una vocina mi soffia nell’orecchio per invitarmi a considerare le cose conservando il senso della misura e valutando gli intrecci con ciò che è attorno al cuore della questione.
Un approccio sensato all’autocontrollo partecipato sulle produzioni agricole, a mio avviso, deve contenere la consapevolezza dei limiti inevitabili di questo strumento. Io partecipo con grande soddisfazione ad un Gruppo di Acquisto Solidale. Parte della qualità dell’esperienza è data dal rapporto diretto che si stabilisce coi produttori. Tuttavia, sono evidenti due cose: io non sono in grado di valutare tecnicamente il tipo di lavorazioni utilizzate, né potrei diventare un esperto di tecniche produttive applicate a tutto ciò che acquisto tramite il GAS (pasta, riso, verdure e ortaggi, zafferano, formaggi, miele, pane, marmellate ecc). Del resto, nessuno mi chiede una cosa del genere perché l’importante, appunto, è il rapporto di fiducia che si stabilisce fra i produttori e il gruppo.
Il rapporto di fiducia personale, tuttavia, può nascere in realtà che abbiano dimensioni alla nostra portata. In altre parole, c’è differenza fra un acquisto tramite il GAS (che stabilisce un rapporto personale col produttore) e un acquisto in qualsiasi mercato all’aperto, dove magari posso trovare prodotti anche migliori ma venduti da persone che non conosco. La mia “partecipazione”, dunque, può esprimersi compiutamente in un ambito circoscritto di competenze, spazio, tempo e relazioni.
Il concreto svolgersi degli scambi, però, esige che la compravendita (o baratto o quel che sia) possa avvenire anche in contesti allargati, quali possono essere una rete distributiva per chi non riesce a far parte di un GAS, oppure un mercato in una località dove sono di passaggio. Riferendomi alla mia esperienza personale, per esempio, penso alle scarpe che indosso abitualmente, acquistate tramite il GAS, realizzate da un’azienda toscana di cui conosco il nome ma con la quale non ho avuto, almeno finora, contatti più diretti.
È dunque quando si sperimentano questi contesti allargati che sono utili, e hanno senso, sia una struttura terza di controllo e certificazione, sia delle regole di riferimento che, rimanendo nel campo alimentare, per esempio definiscano che cosa è “biologico” e che cosa non lo è. Nell’ipotesi ottimale, strutture e regole costituiscono un moltiplicatore di fiducia: dove non posso arrivare col mio tempo e le mie relazioni, arriva la certificazione. Non occorre dire che il giochino funziona se le regole sono ben scritte, se le intenzioni sono libere da condizionamenti e se lo scopo è esclusivamente quello di raggiungere il miglior risultato. L’importante, a mio avviso, è capire che quel che va bene su scala limitata non è valido sempre e comunque anche per ambiti di dimensioni maggiori.

Pubblicato in Società e vita politica | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su Genuino Clandestino e le certificazioni

Facciamo rete con noi stessi

Mappa della metropolitana di Londra

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 08/10/2014 nel sito antoniomessina.it]
Qualche giorno fa ho partecipato a una riunione in cui una quarantina di persone hanno discusso su come valorizzare e collegare le esperienze che in campo economico, sociale e culturale, cercano di proporsi come soggetti di un’economia diversa, più solidale e cooperativa, meno dedita allo sfruttamento di risorse esauribili e alla prevalenza sugli altri fino a cancellarli.
In questa ed altre analoghe occasioni, parole e formule come “collegarsi”, “raccordarsi”, “far circolare”, “mettere in rete” e “creare sinergie” la fanno da padroni. In generale sono il primo a essere d’accordo ma, uscito dalla riunione, un pensiero si è affermato su ogni altra impressione. Per farla breve, credo che prima di tutto dobbiamo fare rete con noi stessi.
Fra le persone che frequento non conto più quelle che sono contro la guerra e poi tengono i loro soldi nelle banche che finanziano il commercio di armi; quelle che sono per la sovranità alimentare e rabbrividiscono di disgusto di fronte all’insegna di un McDonald’s e poi al supermercato comprano prodotti delle peggiori multinazionali; quelle che “che belle queste maglie a colori naturali” e poi comprano il sintetico che arriva dalla Cina.
Ma il peggio, a parer mio, è dato da quelle persone che, per dire, sono a favore dell’agricoltura biologica, effettivamente comprano soltanto prodotti biologici, però poi tengono i loro soldi nelle banche che finanziano il commercio di armi e comprano il sintetico che viene dalla Cina. Sono queste persone che mi fanno dire che, appunto, prima di tutto bisogna fare rete con noi stessi. Eppure sarebbe semplice o, almeno, più semplice di quanto si creda.
Proviamo a immaginare la più normale delle giornate. Ci svegliamo, apriamo gli occhi e accendiamo la luce. Poi ci mettiamo addosso una maglietta, andiamo in bagno, ci laviamo ed asciughiamo. Arriva il momento della colazione, quindi usciamo per andare dove dobbiamo: al lavoro, a spasso, a trovare un amico. Ci accorgiamo che avremo bisogno di soldi e, intanto che siamo fuori, preleviamo un po’ di contante a uno sportello bancomat. Infine, sbrigate le nostre faccende, torniamo a casa. Bene, adesso vediamo come possiamo fare rete con noi stessi in una giornata così banale. Nell’ipotesi, naturalmente, che ci sia almeno una prima maglia a cui legarsi.
Energia: esistono ormai diverse società che forniscono energia proveniente da fonti rinnovabili. Basta sceglierne una. Non occorre fare nient’altro che sottoscrivere il contratto: impianti e contatore rimangono gli stessi. L’ottimo, naturalmente, è riuscire a produrre in autonomia tutta o una parte dell’energia che ci occorre. Abbigliamento: qui bisogna sforzarsi un po’ di più e, ancora, le differenze di prezzo rispetto al sintetico industriale possono essere elevate, tuttavia ci sono varie occasioni di abbigliamento realizzato con materiali non derivati dal petrolio. Alimentazione: in questo settore si può ormai trovare un’offerta amplissima anche nella grande distribuzione. Potendo, l’esperienza dei gruppi di acquisto solidale aggiunge sapore a cibi dal gusto già infinitamente superiore a quello di qualsiasi prodotto industriale. Trasporti: anche questo è un settore in cui le possibilità di scelta sono ampie. Spostarsi a piedi o in bicicletta, usare i mezzi pubblici, utilizzare i servizi di car sharing, acquistare vetture ad alimentazione ibrida… È piuttosto facile migliorare, poco o molto che sia, le nostre abitudini nel settore dei trasporti. Servizi bancari: al contrario di quel che avviene con l’alimentazione e i trasporti, se abbiamo bisogno di una banca non speculativa, che finanzia l’economia reale ed è attenta alle conseguenze non economiche delle sue azioni economiche, oggi in Italia non ci sono alternative a Banca Etica.
Tre brevi annotazioni conclusive. In primo luogo, quelli citati sono soltanto alcuni degli esempi possibili. Un’altra cosa su cui si può lavorare molto, per dire, è la riduzione dei rifiuti che produciamo. In secondo luogo, muoversi nella direzione giusta, anche di solo un passo, è già qualcosa anche se non si è alla meta. Infine, sono il primo a desiderare una vita serena e sono fortemente contrario alle ossessioni. Confesso, per esempio, che trovandomi in viaggio ho comprato un panino alla stazione anche se non era preparato col pane del mio consueto fornitore (farina biologica, lievito madre ecc.). Quando sono a casa, però, cerco di fare rete con me stesso.

Pubblicato in Società e vita politica, Vivere oggi | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su Facciamo rete con noi stessi

Oltre la morte di un uomo felice

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 07/10/2014 nel sito antoniomessina.it]
Chi segue questo blog sa bene che le ragioni profonde dell’agire umano sono una delle questioni su cui provo a riflettere. Non potevo rimanere indifferente, perciò, di fronte alla pubblicazione di Morte di un uomo felice (Sellerio, 2014, pp. 200, recente vincitore del Premio Campiello), di Giorgio Fontana.
Il libro ci porta a condividere qualche mese della vita del sostituto procuratore Giacomo Colnaghi: magistrato; cattolico praticante; conservatore in politica e nella morale che lo assiste; orfano fin da piccolissimo del padre Ernesto, un uomo semplice che per un senso innato di giustizia, sia pure non assistito da grandi elaborazioni teoriche, diventa partigiano e muore per mano dei repubblichini di Salò. Del padre, Colnaghi conserva soltanto una fotografia e un biglietto scritto poco dopo l’arresto, trasmesso fortunosamente alla madre e custodito gelosamente dal magistrato nel suo portafogli.
Il contesto della vicenda narrata da Morte di un uomo felice è quello pesante dei cosiddetti “anni di piombo” (definizione di datazione variabile, grosso modo corrispondente con gli anni ’70 del Novecento), col terrorismo rosso, nero e di Stato che chiudeva violentemente una stagione che aveva dato spazio a qualche speranza e a molte illusioni anche mal riposte.
La chiave di accesso al mistero delle ragioni dei protagonisti di quegli anni è lo sguardo complesso di Giacomo Colnaghi. La memoria del padre partigiano, morto quando il futuro magistrato era poco più di un neonato, arricchisce gli interrogativi che Colnaghi si pone continuamente su che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato, sul senso e l’utilità del sacrificio degli affetti per servire un ideale, sulla violenza come soluzione dei problemi. In tutto questo, Colnaghi risulta un personaggio realistico, estremamente credibile nel suo essere uomo di forti convinzioni che però sottopone di continuo al vaglio della coscienza.
L’anno in cui si svolgono i fatti (quelli della vicenda portante, mentre quasi metà del libro è occupata dal flash back sulla traiettoria umana e politica del padre Ernesto) è precisamente il 1981. Forse per caso e forse no, è lo stesso anno in cui è nato l’autore del romanzo. Fontana, perciò, ha ben ventun anni meno di me. Questo significa che durante gli “anni di piombo”, sì, ero giovane (e forse, come canta Guccini, anche “stupido davvero”) ma c’ero, navigante in quella sinistra che, solo facendo un passo, ti poteva far incontrare le frange più estremiste. Annoto la circostanza perché, mi sembra, ha influenzato i pensieri nati dalla lettura facendomi ritenere che l’unico punto debole del libro sia dato dai personaggi che fanno capo al mondo del terrorismo di sinistra.
Si tratta di personaggi necessari per fare da sponda agli interrogativi del magistrato (che, come si è detto, vive anche cercando di costruire un legame con quel padre che, mai conosciuto, è morto combattendo per un suo ideale) ma li ho sentiti meno credibili di Colnaghi. Dicono quello che devono dire ai fini della storia, forse concentrando troppe tesi in poche battute. Soluzione efficace come riassunto, ma che non dà lo spessore sufficiente ai personaggi che esprimono quelle tesi. Così, quello che dovrebbe essere un punto alto del romanzo, cioè il confronto fra Colnaghi e il capo terrorista Gianni Meraviglia, a me è suonato un po’ artificiale.
Per fortuna, quando Fontana si sgancia dalle parti “necessarie” e asseconda il suo senso di umana pietà nei confronti dei personaggi, il libro ci regala pagine che non risolvono (e come potrebbero?) i grandi dilemmi etici ma ci fanno sfiorare, almeno, il mistero dell’animo umano. Come dovremmo provare a fare tutti.

Pubblicato in Libri, arte, cinema, umanità | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su Oltre la morte di un uomo felice

L’extraterrestre e l’articolo 18

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 22/09/2014 nel sito antoniomessina.it]
Ci sono volte, specialmente quando torno in Italia dopo un’assenza di qualche giorno, in cui mi sembra di essere un abitante di un altro pianeta e, precisamente, di un pianeta dove le parole hanno il loro significato evidente, le ovvietà sono trattate come tali, le conseguenze che si traggono hanno una connessione logica con le premesse di partenza. Sul pianeta Italia, invece, pare che le cose vadano diversamente.
Promettendo di scriverne ora e mai più, prendo ad esempio il “dibattito” sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E siccome tutti ne parlano ma quasi nessuno l’ha letto (troppa fatica, immagino, essendo composto di 11.026 caratteri, spazi compresi), prima di tutto vediamo di che si tratta.
L’ipotesi di partenza è il licenziamento di un lavoratore disposto:
– per ragioni discriminatorie (credo politico, fede religiosa, appartenenza a un sindacato, partecipazione ad attività sindacali, partecipazione a scioperi);
– in concomitanza del matrimonio o entro l’anno dalla sua celebrazione;
dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di vita del/la bambino/a;
– per motivi illeciti determinanti (cioè, per esempio, per ritorsione nei confronti di una condotta non apprezzata, come furono i casi di un lavoratore licenziato perché si era rifiutato di sottoscrivere il bilancio aziendale e di un altro licenziato perché aveva richiesto il pagamento degli straordinari).
In tutte le fattispecie elencate manca la cosiddetta “giusta causa”. In altre parole, in tali ipotesi il licenziamento non è determinato da esigenze produttive e di organizzazione ma da ragioni arbitrarie e discriminatorie. Di conseguenza, nelle ipotesi elencate, l’art. 18 stabilisce in via generale che il giudice ordini di restituire al lavoratore licenziato il suo posto di lavoro o, se il lavoratore preferisce, di indennizzarlo con un risarcimento in denaro.
L’art. 18 regola poi diffusamente una serie di situazioni specifiche, tuttavia il succo è quello appena esposto: un lavoratore non può essere licenziato perché ha aderito a uno sciopero, o perché si sposa, o perché ha chiesto un aumento. Se lo licenziano per questi motivi, il giudice impone (dopo il processo!) che il lavoratore riabbia il suo lavoro. Tutto qui.
Quel che stabilisce l’art. 18, a me sembra tanto ovviamente giusto da non richiedere argomentazioni a sostegno. Altri, però, non la pensano così. Questione di opinioni, naturalmente, e questo lo capisco. La cosa che mi rimane misteriosa, invece, è la relazione causale diretta che alcuni considerano che esista fra l’art. 18 e la propensione delle imprese a dare lavoro. In parole povere, si sostiene che le imprese assumerebbero di più se, oltre alle ragioni per cui possono già farlo (crisi di mercato; prodotti non più richiesti; riorganizzazione aziendale; nuovi processi produttivi ecc.) potessero licenziare anche per ritorsione (contro un comportamento corretto, come non sottoscrivere un bilancio falso), perché sei donna (che può far figli), perché sei una persona (che si sposa), perché hai delle idee politiche o religiose. Come diceva la canzoncina: sarà, ma non ci credo.
Fatto sta che su una norma come l’art. 18, a parer mio, l’unico commento dovrebbe essere su quanto sia triste che certe cose debbano essere scritte in una legge anziché risiedere semplicemente nella coscienza di tutti.

Pubblicato in Diritto, Economia e finanza, Società e vita politica | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su L’extraterrestre e l’articolo 18

Emma, sei tutti noi

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 28/08/2014 nel sito antoniomessina.it]

Frontespizio di “Emma”, di Jane Austen, in un’edizione del 1816

Intanto che proseguo il mio personale slalom esistenziale fra l’ennesimo record del debito pubblico italiano (a giugno 2014: 2.168,4 miliardi di euro), il lavoro in ufficio coi colleghi in ferie, la redazione dei miei manuali per la patente, la figlia che parte con amici per la Val di Susa sostenendo che ci sarebbero arrivati in tre ore da Fano, la stessa figlia che si accorge che tre ore erano quelle che occorrevano per arrivare a Bologna (dove chi ha organizzato il viaggio aveva astutamente previsto un pernottamento), le sempre più tragiche notizie da Gaza e dall’Iraq e altro ancora, ho trovato il tempo di eggere Emma di Jane Austen.
Fino a un anno fa, il mio interesse per la celebre scrittrice inglese era appassionato ma un tantino monocorde, dato che in sei occasioni avevo letto un suo romanzo e però sempre lo stesso, cioè Orgoglio e pregiudizio. Quest’anno mi sono azzardato ad ampliare i miei orizzonti leggendo prima Ragione e Sentimento, poi, appunto, Emma. Delle due opere, è stata senz’altro quest’ultima a catturare maggiormente il mio interesse.
Emma è una giovane, bella, ricca, intelligente e appartiene alla famiglia più in vista di Hartfield. Queste sue qualità sono letteralmente sbattute in faccia al lettore, dato che la loro elencazione costituisce l’incipit del romanzo. Sembra quasi che la Austen voglia sfidare il lettore avvertendolo immediatamente di aver deliberatamente privato la sua protagonista di una qualsiasi delle molteplici disgrazie che suscitano un’istintiva benevolenza verso l’eroina di turno: povertà in vario grado; salute cagionevole; perdita di persone care che si sarebbero prese amorevole cura ma che, morendo, lasciano il personaggio in balia di gente fredda, avara e priva di scrupoli e via dicendo. Conseguenza quasi inevitabile di tali premesse è che Emma è piena di sé quanto basta per essere convinta di poter disporre degli altri e, soprattutto, dei loro sentimenti.
Essendo ricca, Emma non ha bisogno di sposarsi per garantirsi un futuro sereno o progredire socialmente. La sua condizione rende inutile anche ogni affanno per ottenere la felicità, cioè quel gradevole ma non indispensabile accessorio del matrimonio. Infatti, Emma mostra a ogni piè sospinto il più sereno disinteresse per gli uomini in generale e per il matrimonio in particolare.
Le fondamenta caratteriali di Emma, dunque, sono distanti dalla condizione della maggior parte delle persone e, soprattutto, potrebbero renderla un personaggio antipatico senza rimedio. Anzi, la Austen conduce il gioco narrativo in modo così abile da far pensare che la conclusione della storia, cioè proprio il matrimonio e la felicità di Emma, siano una divertita vendetta dell’autrice sul suo personaggio, la vera espiazione per la sua presunzione passata. In questo senso, il più tradizionale dei finali appare carico di un senso nuovo e differente.
Sgombriamo subito il campo dalle annotazioni più scontate, cioè che Emma è un ottimo libro perché Jane Austen è un talento assoluto: stile scorrevole; trama ben costruita; dialoghi trasferibili senza modifiche nella migliore sceneggiatura cinematografica; personaggi che agiscono e parlano in modo sempre coerente con il carattere che l’autrice gli ha attribuito; figure di contorno vivaci, ben descritte e, nel loro piccolo, necessarie. Non mancano sorprese, idee suggerite, indizi che lasciano pensare qualcosa e poi rivelano il suo opposto (e sono convinto che la Austen, se avesse scritto dopo la nascita del genere, sarebbe stata un’eccezionale giallista). Sgombriamo il campo perché non è nulla di tutto questo, infatti, a rendere il libro più prezioso di altri.
Come altri romanzi, Emma è la storia di un cambiamento. Questo cambiamento, tuttavia, non deriva dalla raggiunta consapevolezza di un errore di giudizio (eravamo convinte che Wickham e Willoughby fossero delle così brave persone, e invece …). Emma non sbaglia nel valutare gli altri basandosi su impressioni che si rivelano poco fondate, Emma sbaglia il giudizio sulle persone perché non le guarda affatto. La sua relazione con gli altri è quella che può avere una bambina con la sua bambola. Emma si sente libera e autorizzata a decidere che cosa debba o non debba fare un’altra persona. La sua convinzione di saper comprendere l’animo altrui è il velo sottile che riveste la verità, cioè che è lei stessa ad attribuire pensieri e sentimenti e, poi, a interpretare parole e azioni secondo lo schema che si è costruita in perfetta solitudine.
Emma, alla fine, cambia (in meglio) ma, ed è un aspetto di assoluto rilievo, la mutazione non è dovuta a un isolato, drammatico, momento catartico (classicamente, la lettera che svela la verità su un individuo abietto) ma alla ripetizione dello stesso errore da parte di Emma, che soltanto alla fine riuscirà a fare i conti con se stessa e a vedere le persone per quello che sono, rispettandole davvero.
Ecco, è questa tenacia di Emma nel perseverare nei suoi sbagli, sempre ignorando gli altri, ad avermi colpito più di ogni altra cosa. Forse perché il difetto, insolito nei romanzi, è terribilmente comune fra gli esseri umani.

Pubblicato in Libri, arte, cinema, umanità | Contrassegnato , , , , , | Commenti disabilitati su Emma, sei tutti noi