Genuino Clandestino e le certificazioni

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 23/10/2014 nel sito antoniomessina.it]
Dal 24 al 27 ottobre 2014, a Pesaro, si svolgerà l’Incontro nazionale di Genuino Clandestino, una delle esperienze di nuova economia più vivaci e significative di questi anni. L’evento, al quale parteciperò nella seconda giornata di lavori, cade in un periodo che, per me, è segnato dalle vicende sempre più preoccupanti dell’ente pubblico per il quale lavoro. Ed è stato un punto molto interessante del Manifesto di Genuino Clandestino che mi ha condotto a qualche riflessione collegata al senso di quella che tutti chiamano burocrazia.
Genuino Clandestino, leggo nel Manifesto, si propone di “Praticare, all’interno dei circuiti di economia locale, la trasparenza nella realizzazione e nella distribuzione del cibo attraverso l’autocontrollo partecipato, che svincoli i contadini dall’agribusiness e dai sistemi ufficiali di certificazione, e che renda localmente visibili le loro responsabilità ambientali e di costruzione del prezzo”. Condivido praticamente ogni parola e, soprattutto, la visione della vita che è alla base di quelle parole, una visione fatta di trasparenza, onestà, partecipazione, così come della responsabilità che ciascuno deve assumersi di fronte alle scelte quotidiane. Tuttavia, come mi accade spesso, una vocina mi soffia nell’orecchio per invitarmi a considerare le cose conservando il senso della misura e valutando gli intrecci con ciò che è attorno al cuore della questione.
Un approccio sensato all’autocontrollo partecipato sulle produzioni agricole, a mio avviso, deve contenere la consapevolezza dei limiti inevitabili di questo strumento. Io partecipo con grande soddisfazione ad un Gruppo di Acquisto Solidale. Parte della qualità dell’esperienza è data dal rapporto diretto che si stabilisce coi produttori. Tuttavia, sono evidenti due cose: io non sono in grado di valutare tecnicamente il tipo di lavorazioni utilizzate, né potrei diventare un esperto di tecniche produttive applicate a tutto ciò che acquisto tramite il GAS (pasta, riso, verdure e ortaggi, zafferano, formaggi, miele, pane, marmellate ecc). Del resto, nessuno mi chiede una cosa del genere perché l’importante, appunto, è il rapporto di fiducia che si stabilisce fra i produttori e il gruppo.
Il rapporto di fiducia personale, tuttavia, può nascere in realtà che abbiano dimensioni alla nostra portata. In altre parole, c’è differenza fra un acquisto tramite il GAS (che stabilisce un rapporto personale col produttore) e un acquisto in qualsiasi mercato all’aperto, dove magari posso trovare prodotti anche migliori ma venduti da persone che non conosco. La mia “partecipazione”, dunque, può esprimersi compiutamente in un ambito circoscritto di competenze, spazio, tempo e relazioni.
Il concreto svolgersi degli scambi, però, esige che la compravendita (o baratto o quel che sia) possa avvenire anche in contesti allargati, quali possono essere una rete distributiva per chi non riesce a far parte di un GAS, oppure un mercato in una località dove sono di passaggio. Riferendomi alla mia esperienza personale, per esempio, penso alle scarpe che indosso abitualmente, acquistate tramite il GAS, realizzate da un’azienda toscana di cui conosco il nome ma con la quale non ho avuto, almeno finora, contatti più diretti.
È dunque quando si sperimentano questi contesti allargati che sono utili, e hanno senso, sia una struttura terza di controllo e certificazione, sia delle regole di riferimento che, rimanendo nel campo alimentare, per esempio definiscano che cosa è “biologico” e che cosa non lo è. Nell’ipotesi ottimale, strutture e regole costituiscono un moltiplicatore di fiducia: dove non posso arrivare col mio tempo e le mie relazioni, arriva la certificazione. Non occorre dire che il giochino funziona se le regole sono ben scritte, se le intenzioni sono libere da condizionamenti e se lo scopo è esclusivamente quello di raggiungere il miglior risultato. L’importante, a mio avviso, è capire che quel che va bene su scala limitata non è valido sempre e comunque anche per ambiti di dimensioni maggiori.

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Facciamo rete con noi stessi

Mappa della metropolitana di Londra

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 08/10/2014 nel sito antoniomessina.it]
Qualche giorno fa ho partecipato a una riunione in cui una quarantina di persone hanno discusso su come valorizzare e collegare le esperienze che in campo economico, sociale e culturale, cercano di proporsi come soggetti di un’economia diversa, più solidale e cooperativa, meno dedita allo sfruttamento di risorse esauribili e alla prevalenza sugli altri fino a cancellarli.
In questa ed altre analoghe occasioni, parole e formule come “collegarsi”, “raccordarsi”, “far circolare”, “mettere in rete” e “creare sinergie” la fanno da padroni. In generale sono il primo a essere d’accordo ma, uscito dalla riunione, un pensiero si è affermato su ogni altra impressione. Per farla breve, credo che prima di tutto dobbiamo fare rete con noi stessi.
Fra le persone che frequento non conto più quelle che sono contro la guerra e poi tengono i loro soldi nelle banche che finanziano il commercio di armi; quelle che sono per la sovranità alimentare e rabbrividiscono di disgusto di fronte all’insegna di un McDonald’s e poi al supermercato comprano prodotti delle peggiori multinazionali; quelle che “che belle queste maglie a colori naturali” e poi comprano il sintetico che arriva dalla Cina.
Ma il peggio, a parer mio, è dato da quelle persone che, per dire, sono a favore dell’agricoltura biologica, effettivamente comprano soltanto prodotti biologici, però poi tengono i loro soldi nelle banche che finanziano il commercio di armi e comprano il sintetico che viene dalla Cina. Sono queste persone che mi fanno dire che, appunto, prima di tutto bisogna fare rete con noi stessi. Eppure sarebbe semplice o, almeno, più semplice di quanto si creda.
Proviamo a immaginare la più normale delle giornate. Ci svegliamo, apriamo gli occhi e accendiamo la luce. Poi ci mettiamo addosso una maglietta, andiamo in bagno, ci laviamo ed asciughiamo. Arriva il momento della colazione, quindi usciamo per andare dove dobbiamo: al lavoro, a spasso, a trovare un amico. Ci accorgiamo che avremo bisogno di soldi e, intanto che siamo fuori, preleviamo un po’ di contante a uno sportello bancomat. Infine, sbrigate le nostre faccende, torniamo a casa. Bene, adesso vediamo come possiamo fare rete con noi stessi in una giornata così banale. Nell’ipotesi, naturalmente, che ci sia almeno una prima maglia a cui legarsi.
Energia: esistono ormai diverse società che forniscono energia proveniente da fonti rinnovabili. Basta sceglierne una. Non occorre fare nient’altro che sottoscrivere il contratto: impianti e contatore rimangono gli stessi. L’ottimo, naturalmente, è riuscire a produrre in autonomia tutta o una parte dell’energia che ci occorre. Abbigliamento: qui bisogna sforzarsi un po’ di più e, ancora, le differenze di prezzo rispetto al sintetico industriale possono essere elevate, tuttavia ci sono varie occasioni di abbigliamento realizzato con materiali non derivati dal petrolio. Alimentazione: in questo settore si può ormai trovare un’offerta amplissima anche nella grande distribuzione. Potendo, l’esperienza dei gruppi di acquisto solidale aggiunge sapore a cibi dal gusto già infinitamente superiore a quello di qualsiasi prodotto industriale. Trasporti: anche questo è un settore in cui le possibilità di scelta sono ampie. Spostarsi a piedi o in bicicletta, usare i mezzi pubblici, utilizzare i servizi di car sharing, acquistare vetture ad alimentazione ibrida… È piuttosto facile migliorare, poco o molto che sia, le nostre abitudini nel settore dei trasporti. Servizi bancari: al contrario di quel che avviene con l’alimentazione e i trasporti, se abbiamo bisogno di una banca non speculativa, che finanzia l’economia reale ed è attenta alle conseguenze non economiche delle sue azioni economiche, oggi in Italia non ci sono alternative a Banca Etica.
Tre brevi annotazioni conclusive. In primo luogo, quelli citati sono soltanto alcuni degli esempi possibili. Un’altra cosa su cui si può lavorare molto, per dire, è la riduzione dei rifiuti che produciamo. In secondo luogo, muoversi nella direzione giusta, anche di solo un passo, è già qualcosa anche se non si è alla meta. Infine, sono il primo a desiderare una vita serena e sono fortemente contrario alle ossessioni. Confesso, per esempio, che trovandomi in viaggio ho comprato un panino alla stazione anche se non era preparato col pane del mio consueto fornitore (farina biologica, lievito madre ecc.). Quando sono a casa, però, cerco di fare rete con me stesso.

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Oltre la morte di un uomo felice

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 07/10/2014 nel sito antoniomessina.it]
Chi segue questo blog sa bene che le ragioni profonde dell’agire umano sono una delle questioni su cui provo a riflettere. Non potevo rimanere indifferente, perciò, di fronte alla pubblicazione di Morte di un uomo felice (Sellerio, 2014, pp. 200, recente vincitore del Premio Campiello), di Giorgio Fontana.
Il libro ci porta a condividere qualche mese della vita del sostituto procuratore Giacomo Colnaghi: magistrato; cattolico praticante; conservatore in politica e nella morale che lo assiste; orfano fin da piccolissimo del padre Ernesto, un uomo semplice che per un senso innato di giustizia, sia pure non assistito da grandi elaborazioni teoriche, diventa partigiano e muore per mano dei repubblichini di Salò. Del padre, Colnaghi conserva soltanto una fotografia e un biglietto scritto poco dopo l’arresto, trasmesso fortunosamente alla madre e custodito gelosamente dal magistrato nel suo portafogli.
Il contesto della vicenda narrata da Morte di un uomo felice è quello pesante dei cosiddetti “anni di piombo” (definizione di datazione variabile, grosso modo corrispondente con gli anni ’70 del Novecento), col terrorismo rosso, nero e di Stato che chiudeva violentemente una stagione che aveva dato spazio a qualche speranza e a molte illusioni anche mal riposte.
La chiave di accesso al mistero delle ragioni dei protagonisti di quegli anni è lo sguardo complesso di Giacomo Colnaghi. La memoria del padre partigiano, morto quando il futuro magistrato era poco più di un neonato, arricchisce gli interrogativi che Colnaghi si pone continuamente su che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato, sul senso e l’utilità del sacrificio degli affetti per servire un ideale, sulla violenza come soluzione dei problemi. In tutto questo, Colnaghi risulta un personaggio realistico, estremamente credibile nel suo essere uomo di forti convinzioni che però sottopone di continuo al vaglio della coscienza.
L’anno in cui si svolgono i fatti (quelli della vicenda portante, mentre quasi metà del libro è occupata dal flash back sulla traiettoria umana e politica del padre Ernesto) è precisamente il 1981. Forse per caso e forse no, è lo stesso anno in cui è nato l’autore del romanzo. Fontana, perciò, ha ben ventun anni meno di me. Questo significa che durante gli “anni di piombo”, sì, ero giovane (e forse, come canta Guccini, anche “stupido davvero”) ma c’ero, navigante in quella sinistra che, solo facendo un passo, ti poteva far incontrare le frange più estremiste. Annoto la circostanza perché, mi sembra, ha influenzato i pensieri nati dalla lettura facendomi ritenere che l’unico punto debole del libro sia dato dai personaggi che fanno capo al mondo del terrorismo di sinistra.
Si tratta di personaggi necessari per fare da sponda agli interrogativi del magistrato (che, come si è detto, vive anche cercando di costruire un legame con quel padre che, mai conosciuto, è morto combattendo per un suo ideale) ma li ho sentiti meno credibili di Colnaghi. Dicono quello che devono dire ai fini della storia, forse concentrando troppe tesi in poche battute. Soluzione efficace come riassunto, ma che non dà lo spessore sufficiente ai personaggi che esprimono quelle tesi. Così, quello che dovrebbe essere un punto alto del romanzo, cioè il confronto fra Colnaghi e il capo terrorista Gianni Meraviglia, a me è suonato un po’ artificiale.
Per fortuna, quando Fontana si sgancia dalle parti “necessarie” e asseconda il suo senso di umana pietà nei confronti dei personaggi, il libro ci regala pagine che non risolvono (e come potrebbero?) i grandi dilemmi etici ma ci fanno sfiorare, almeno, il mistero dell’animo umano. Come dovremmo provare a fare tutti.

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L’extraterrestre e l’articolo 18

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 22/09/2014 nel sito antoniomessina.it]
Ci sono volte, specialmente quando torno in Italia dopo un’assenza di qualche giorno, in cui mi sembra di essere un abitante di un altro pianeta e, precisamente, di un pianeta dove le parole hanno il loro significato evidente, le ovvietà sono trattate come tali, le conseguenze che si traggono hanno una connessione logica con le premesse di partenza. Sul pianeta Italia, invece, pare che le cose vadano diversamente.
Promettendo di scriverne ora e mai più, prendo ad esempio il “dibattito” sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E siccome tutti ne parlano ma quasi nessuno l’ha letto (troppa fatica, immagino, essendo composto di 11.026 caratteri, spazi compresi), prima di tutto vediamo di che si tratta.
L’ipotesi di partenza è il licenziamento di un lavoratore disposto:
– per ragioni discriminatorie (credo politico, fede religiosa, appartenenza a un sindacato, partecipazione ad attività sindacali, partecipazione a scioperi);
– in concomitanza del matrimonio o entro l’anno dalla sua celebrazione;
dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di vita del/la bambino/a;
– per motivi illeciti determinanti (cioè, per esempio, per ritorsione nei confronti di una condotta non apprezzata, come furono i casi di un lavoratore licenziato perché si era rifiutato di sottoscrivere il bilancio aziendale e di un altro licenziato perché aveva richiesto il pagamento degli straordinari).
In tutte le fattispecie elencate manca la cosiddetta “giusta causa”. In altre parole, in tali ipotesi il licenziamento non è determinato da esigenze produttive e di organizzazione ma da ragioni arbitrarie e discriminatorie. Di conseguenza, nelle ipotesi elencate, l’art. 18 stabilisce in via generale che il giudice ordini di restituire al lavoratore licenziato il suo posto di lavoro o, se il lavoratore preferisce, di indennizzarlo con un risarcimento in denaro.
L’art. 18 regola poi diffusamente una serie di situazioni specifiche, tuttavia il succo è quello appena esposto: un lavoratore non può essere licenziato perché ha aderito a uno sciopero, o perché si sposa, o perché ha chiesto un aumento. Se lo licenziano per questi motivi, il giudice impone (dopo il processo!) che il lavoratore riabbia il suo lavoro. Tutto qui.
Quel che stabilisce l’art. 18, a me sembra tanto ovviamente giusto da non richiedere argomentazioni a sostegno. Altri, però, non la pensano così. Questione di opinioni, naturalmente, e questo lo capisco. La cosa che mi rimane misteriosa, invece, è la relazione causale diretta che alcuni considerano che esista fra l’art. 18 e la propensione delle imprese a dare lavoro. In parole povere, si sostiene che le imprese assumerebbero di più se, oltre alle ragioni per cui possono già farlo (crisi di mercato; prodotti non più richiesti; riorganizzazione aziendale; nuovi processi produttivi ecc.) potessero licenziare anche per ritorsione (contro un comportamento corretto, come non sottoscrivere un bilancio falso), perché sei donna (che può far figli), perché sei una persona (che si sposa), perché hai delle idee politiche o religiose. Come diceva la canzoncina: sarà, ma non ci credo.
Fatto sta che su una norma come l’art. 18, a parer mio, l’unico commento dovrebbe essere su quanto sia triste che certe cose debbano essere scritte in una legge anziché risiedere semplicemente nella coscienza di tutti.

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Emma, sei tutti noi

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 28/08/2014 nel sito antoniomessina.it]

Frontespizio di “Emma”, di Jane Austen, in un’edizione del 1816

Intanto che proseguo il mio personale slalom esistenziale fra l’ennesimo record del debito pubblico italiano (a giugno 2014: 2.168,4 miliardi di euro), il lavoro in ufficio coi colleghi in ferie, la redazione dei miei manuali per la patente, la figlia che parte con amici per la Val di Susa sostenendo che ci sarebbero arrivati in tre ore da Fano, la stessa figlia che si accorge che tre ore erano quelle che occorrevano per arrivare a Bologna (dove chi ha organizzato il viaggio aveva astutamente previsto un pernottamento), le sempre più tragiche notizie da Gaza e dall’Iraq e altro ancora, ho trovato il tempo di eggere Emma di Jane Austen.
Fino a un anno fa, il mio interesse per la celebre scrittrice inglese era appassionato ma un tantino monocorde, dato che in sei occasioni avevo letto un suo romanzo e però sempre lo stesso, cioè Orgoglio e pregiudizio. Quest’anno mi sono azzardato ad ampliare i miei orizzonti leggendo prima Ragione e Sentimento, poi, appunto, Emma. Delle due opere, è stata senz’altro quest’ultima a catturare maggiormente il mio interesse.
Emma è una giovane, bella, ricca, intelligente e appartiene alla famiglia più in vista di Hartfield. Queste sue qualità sono letteralmente sbattute in faccia al lettore, dato che la loro elencazione costituisce l’incipit del romanzo. Sembra quasi che la Austen voglia sfidare il lettore avvertendolo immediatamente di aver deliberatamente privato la sua protagonista di una qualsiasi delle molteplici disgrazie che suscitano un’istintiva benevolenza verso l’eroina di turno: povertà in vario grado; salute cagionevole; perdita di persone care che si sarebbero prese amorevole cura ma che, morendo, lasciano il personaggio in balia di gente fredda, avara e priva di scrupoli e via dicendo. Conseguenza quasi inevitabile di tali premesse è che Emma è piena di sé quanto basta per essere convinta di poter disporre degli altri e, soprattutto, dei loro sentimenti.
Essendo ricca, Emma non ha bisogno di sposarsi per garantirsi un futuro sereno o progredire socialmente. La sua condizione rende inutile anche ogni affanno per ottenere la felicità, cioè quel gradevole ma non indispensabile accessorio del matrimonio. Infatti, Emma mostra a ogni piè sospinto il più sereno disinteresse per gli uomini in generale e per il matrimonio in particolare.
Le fondamenta caratteriali di Emma, dunque, sono distanti dalla condizione della maggior parte delle persone e, soprattutto, potrebbero renderla un personaggio antipatico senza rimedio. Anzi, la Austen conduce il gioco narrativo in modo così abile da far pensare che la conclusione della storia, cioè proprio il matrimonio e la felicità di Emma, siano una divertita vendetta dell’autrice sul suo personaggio, la vera espiazione per la sua presunzione passata. In questo senso, il più tradizionale dei finali appare carico di un senso nuovo e differente.
Sgombriamo subito il campo dalle annotazioni più scontate, cioè che Emma è un ottimo libro perché Jane Austen è un talento assoluto: stile scorrevole; trama ben costruita; dialoghi trasferibili senza modifiche nella migliore sceneggiatura cinematografica; personaggi che agiscono e parlano in modo sempre coerente con il carattere che l’autrice gli ha attribuito; figure di contorno vivaci, ben descritte e, nel loro piccolo, necessarie. Non mancano sorprese, idee suggerite, indizi che lasciano pensare qualcosa e poi rivelano il suo opposto (e sono convinto che la Austen, se avesse scritto dopo la nascita del genere, sarebbe stata un’eccezionale giallista). Sgombriamo il campo perché non è nulla di tutto questo, infatti, a rendere il libro più prezioso di altri.
Come altri romanzi, Emma è la storia di un cambiamento. Questo cambiamento, tuttavia, non deriva dalla raggiunta consapevolezza di un errore di giudizio (eravamo convinte che Wickham e Willoughby fossero delle così brave persone, e invece …). Emma non sbaglia nel valutare gli altri basandosi su impressioni che si rivelano poco fondate, Emma sbaglia il giudizio sulle persone perché non le guarda affatto. La sua relazione con gli altri è quella che può avere una bambina con la sua bambola. Emma si sente libera e autorizzata a decidere che cosa debba o non debba fare un’altra persona. La sua convinzione di saper comprendere l’animo altrui è il velo sottile che riveste la verità, cioè che è lei stessa ad attribuire pensieri e sentimenti e, poi, a interpretare parole e azioni secondo lo schema che si è costruita in perfetta solitudine.
Emma, alla fine, cambia (in meglio) ma, ed è un aspetto di assoluto rilievo, la mutazione non è dovuta a un isolato, drammatico, momento catartico (classicamente, la lettera che svela la verità su un individuo abietto) ma alla ripetizione dello stesso errore da parte di Emma, che soltanto alla fine riuscirà a fare i conti con se stessa e a vedere le persone per quello che sono, rispettandole davvero.
Ecco, è questa tenacia di Emma nel perseverare nei suoi sbagli, sempre ignorando gli altri, ad avermi colpito più di ogni altra cosa. Forse perché il difetto, insolito nei romanzi, è terribilmente comune fra gli esseri umani.

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Lo straordinario successo di chi non produce idee

Johannes Gutenberg (1400 – 1468)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 06/07/2014 nel sito antoniomessina.it]
Fra le idee che ogni tanto mi vengono in mente ce ne sono alcune che mi sembrano spunti interessanti da approfondire quando ne avrò il tempo. Poi accade che il tempo passi ed io non approfondisca perché sto (sempre) facendo qualcos’altro. Però l’idea mi rimane lì e, di quando in quando, fa capolino. Una di queste idee riguarda una caratteristica che, mi sembra, accomuna le invenzioni di maggiore successo (inteso tanto come impatto sulla società, quanto come successo personale di chi ha realizzato l’invenzione) nella storia dell’umanità.
Se devo pensare a iniziative con queste caratteristiche, a me vengono in mente: l’invenzione della stampa a caratteri mobili; i personal computer; la rete Internet; Google et similia (come Facebook e Twitter).
Con caratteristiche specifiche ovviamente diverse, legate soprattutto alle possibilità tecniche del tempo in cui si danno, tutte queste invenzioni (dando alla parola un senso un po’ ampio, forse, dato che si tratta anche di prodotti costruiti a partire da informazioni conosciute e disponibili più o meno per tutti gli operatori del settore) sono accomunate, mi sembra da un tratto deciso e decisivo: sono tutte forme, tecniche, strumenti di organizzazione di contenuti ma non di produzione di contenuti.
Così, se è vero, come è vero, che le idee illuministe di libertà, fraternità e uguaglianza hanno inciso profondamente nella cultura sociale (perlomeno, in quella della parte di mondo umano nel quale il caso mi ha fatto nascere e proseguire la mia esperienza di vita), è ancora più vero che il cammino di queste idee non sarebbe stato lo stesso se Gutenberg non avesse raccolto strumenti diversi (dal torchio agricolo a certe tavolette lignee che “timbravano” su dei fogli brevi testi incisi; a certe tecniche degli orefici e fonditori) per realizzare i caratteri mobili con cui stampare, in quantità e a velocità sconosciute in precedenza, i libri che trasportarono quelle idee un po’ ovunque.
Ai tempi nostri, le gigantesche possibilità relazionali offerte da Internet ha reso possibile un fenomeno come quello di Google. Il successo impressionante di questa iniziativa commerciale è in singolare contrasto con l’assoluta assenza di una produzione concettuale che non sia, al pari di quanto fece Gutenberg, l’impiego di strumenti tecnici esistenti e conosciuti da una platea ben più vasta dei due fondatori di Google, Sergei Brin e Larry Page. Al di là dell’indubbio merito di avere avuto la visione della “necessità” di uno strumento che permettesse di fruire del worldwide web in modo ragionevolmente semplice e efficace, cioè, Brin e Page non hanno prodotto un solo contenuto originale, si trattasse di un’idea, una storia, un prodotto artistico.
Ecco, queste considerazioni mi frullano per il capo ormai da qualche anno. Magari sono poco brillanti, di sicuro mi piacerebbe che qualcuno mi dicesse se, in futuro, meritino lo sforzo di essere approfondite.

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Il Movimento 5 Stelle non è di sinistra. Ma io ci sto.

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 23/06/2014 nel sito antoniomessina.it]
Ormai non conto più le volte che amici e conoscenti politicamente collocati a sinistra (qualsiasi cosa voglia dire questa parola) mi hanno chiesto perché mai, col mio passato altrettanto di sinistra, quando si è trattato di uscire dal mio guscio e rituffarmi nel mondo io abbia scelto il Movimento 5 Stelle e non un partito di sinistra. Valeva tutto purché certificato da storia antica e dichiarazioni attuali: dai resti del socialismo al più scatenato dei centri sociali passando per il Partito Democratico, Sinistra Ecologia e Libertà, Rifondazione Comunista, Lista Tsipras e chi più ne ha più ne metta.
A ben vedere, la risposta è già nella domanda, cioè nel fatto che, per molti, prima del merito delle questioni viene l’appartenenza. Il tale partito o il tal altro possono agire nel modo più criticabile ma sono comunque preferibili ad altri perché sono “di sinistra”.
Questo tipo di approccio, dopo tanti anni mi è sembrato che presentasse due inconvenienti decisivi. In primo luogo, la concordanza su una visione più o meno complessiva e sistematizzata del mondo è, quando due soggetti muovono da posizioni diverse, il frutto incerto e sempre faticoso di un lungo confronto che (ed è raro che le due condizioni si presentino assieme) richiede indipendenza di giudizio e intelligenza adeguate. In secondo luogo, se il primo passo di un confronto deve essere l’adesione a una visione del mondo, sia pure nella modesta versione proposta dagli attuali partiti di sinistra, è inevitabile che la soluzione dei problemi si allontani, dato che, evidentemente, la discussione non si concentrerà sui problemi stessi ma sull’essere o non essere di sinistra, qualsiasi cosa voglia oggi significare questa parola.
Da ormai dieci anni sto vivendo due esperienze sociali che considero di grande importanza: la partecipazione alla vita di un Gruppo di Acquisto Solidale e l’impegno come socio attivo di Banca Popolare Etica. In entrambi i casi si tratta di associazioni caratterizzate da principi forti e da una pratica coerente, ma trasversali, cioè con la presenza di persone con convinzioni politiche, religiose e d’altro genere anche molto diverse fra loro. Eppure, alcune convinzioni generali condivise e, per così dire, pre-ideologiche, permettono di camminare fianco a fianco. E, si badi, non si tratta di cose piccole o decisioni superficiali. Al contrario, ci si mette in gioco per contribuire alla realizzazione di obiettivi importanti, addirittura di un nuovo modello di sviluppo, di un mondo dove le persone considerino le conseguenze non economiche delle proprie azioni economiche e dove si scelga di vivere sapendo che l’interesse più alto è quello di tutti.
Ecco, per me il Movimento 5 Stelle rappresenta un’occasione di trasversalità, dove ognuno è poi libero di coltivare una sua dimensione che gli corrisponda in modo più integrale. Ora è così e, come nel caso dei GAS e di Banca Etica, spero che lo rimanga. A mio avviso, infatti, un altro grande errore dei partiti di sinistra è stato quello di pretendere di abbracciare l’interezza dell’individuo. Oltre che sbagliato, questo può essere perfino pericoloso come, del resto, dimostrano varie aberrazioni della storia.
Ognuno è di sinistra a modo suo. Per me esserlo significa rispettare gli altri, essere onesti, costruire delle regole che diano certezze, dare a tutti l’opportunità di vivere pienamente e farsi carico di chi ha meno possibilità, rispettare l’individuo e pensare al collettivo. Credo che tutte queste cose, almeno oggi, trovino cittadinanza nel Movimento 5 Stelle. Altre persone porteranno esperienze diverse dalle mie. Finché lavoreremo concretamente per una soluzione dei problemi comuni, facendo discendere proposte e azioni dal libero convincimento e dal disinteresse, potremo camminare assieme.
Naturalmente, non è mia intenzione eludere il problema ossessivamente sollevato della “democrazia interna” e del preteso ruolo direttoriale di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Ma in un prossimo articolo. Intanto, a proposito di destra, centro e sinistra, godetevi questa bella canzone di Franco Battiato.

https://www.youtube.com/watch?v=kDAJDNP6yUg
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Lettera aperta al sindaco di Parma, Federico Pizzarotti

Il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 14/06/2014 nel sito antoniomessina.it]
Caro Federico,
guardando a Parma dalle Marche dove vivo, ho sempre considerato la sua persona poco meno che un eroe, dotato, per farsi carico del disastro lasciato dalle precedenti giunte della sua città, di determinazione, coraggio e incoscienza in parti uguali. Quando si ha un eroe, lo si vorrebbe sempre senza macchia e senza paura e ogni ombra, anche piccola, dispiace. Convinto che si possa imparare anche dalle critiche ingiuste, così, mi permetto di indicarle piccole cose che ha detto o ha fatto e che, secondo me, non vanno nella direzione giusta.
Non mi è piaciuta la presa di posizione sull’esclusione del Parma Calcio dalle competizioni europee del prossimo anno. Non mi riferisco al merito, ma proprio al fatto che abbia preso posizione. La politica, non da oggi, usa lo sport e interferisce più o meno direttamente con la sua autonomia. Che anche lei l’abbia fatto, a me non è piaciuto.
Anche nel merito, del resto, non credo che abbia dato un buon segnale parlando di un Parma che “… si è meritato sul campo, battagliando, la qualificazione in Europa e non può essere certo un limite burocratico ad eliminarlo senza giocare.” Il “limite burocratico”, come l’ha definito, era il versamento di un’imposta allo Stato entro una scadenza stabilita. Come ogni altra regola, può anche essere considerata ingiusta, ma c’è ed era lì da prima che il Parma vincesse sul campo. Perciò sarebbe stato un buon segnale che lei, se proprio voleva pronunciarsi, invitasse al rispetto delle istituzioni e delle regole, pur nel dispiacere per la mancata partecipazione alle competizioni europee dovuta a fatti extra-sportivi. Anche perché, mi permetta di pensar male, il Parma Calcio ha versato l’imposta dopo aver acquisito il posto utile nella classifica del campionato e, dunque, l’interesse economico e sportivo a partecipare alle competizioni stesse. E se non l’avesse acquisito, avrebbe continuato a tenersi in cassa i 300mila euro di IRPEF? Le imposte si pagano solo quando fa comodo?
Non mi è piaciuto l’entusiasmo con cui ha annunciato la conclusione dei lavori per la nuova stazione di Parma. Due anni fa l’ascoltai polemizzare con chi ne aveva deciso la costruzione. La qualificò come un’opera inutile (“bastava riverniciare quella esistente“), sovradimensionata (“Parma, alla fine, è grande come un quartiere di Londra”) e inutilmente costosa. Oggi, dunque, avrei apprezzato che nell’inaugurarla avesse detto che il Comune è stato costretto a completarla ed è stato capace di farlo, ma la stazione resterà per sempre quale monumento dell’insensatezza e dello spreco oltre che, per molti anni, un peso economico sulle spalle dei cittadini. Pur ammettendo che la chiusura del cantiere riduce i disagi, parlare della nuova stazione come ha fatto lei (“Parma avrà finalmente la sua stazione”, “Per i parmigiani un’altra bella notizia” ecc.), se non si ricorda pure che cosa porta con sé e che cosa lascia quella struttura, suscita l’impressione che si identifichi con l’opera e, alla fine di tutto il percorso, la condivida.
Infine, penso che debba stare attento a un atteggiamento che, pur motivato, può diventare negativo. Mi riferisco alle sue convinzioni che si amministri per tutti, che amministrare sia difficile e che lavorare a testa bassa non concede sempre il tempo per spiegare tutto a tutti. È vero, ma si deve stare attenti. Un sindaco è di tutti ma è stato scelto per la realizzazione di un programma preciso, in contrapposizione ad altri. Un conto è il rispetto, un altro è allentare il legame con la propria base.
Quanto all’amministrare (a testa bassa riguardo all’impegno, a testa alta riguardo all’onestà e alla trasparenza), il pericolo più subdolo è quello di invertire la direzione del flusso. Lo sforzo di ogni politica veramente nuova, cioè, dovrebbe essere quello di portare i cittadini nelle istituzioni. Se le istituzioni si richiudono nella propria competenza tecnica e dicono “lasciateci fare, che stiamo agendo per il meglio”, il flusso si inverte e la politica torna subito vecchia, con le conseguenze ed i rischi del caso. Tutto questo preambolo per dire che sono assolutamente convinto del fatto che l’azione della sua Giunta in materia di rifiuti sia eccellente, la migliore possibile, ma che non ci sarebbe nulla di male, anzi, se cercasse una conferma del sostegno popolare (referendum consultivo o altro che possa ottenere un risultato analogo) rispetto a un’azione che, sulla base di informazioni che prima non si possedevano, segue un percorso (non uno scopo!) differente da quello che ci si era impegnati a seguire.
Vivo nelle Marche, ma seguo fin dall’inizio la sua attività attraverso la stampa, Twitter e Facebook. Dopo due anni, continuo a considerarla una ersona motivata, coraggiosa e, purtroppo, destinatario di attacchi portati agendo di sbieco anche da persone che si dichiarano del Movimento 5 Stelle. È per questo che mi sono sentito di segnalarle le piccole macchie del mio eroe.
Con stima,
Antonio Messina
P.S.
Beppe Grillo ha il suo numero, ma anche lei avrà quello di Grillo. E ricordate entrambi che oltre voi ci sono ormai milioni di italiani.

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Dal Sud Sudan agli USA. Il “romanzo vita” di Valentino e Dave.

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 13/06/2014 nel sito antoniomessina.it]
Ci sono volte in cui vorrei essere famoso, avere contatti Twitter e Facebook a milioni per poter condividere e promuovere nel modo che meritano certe cose che vedo, ascolto, leggo. È questo il caso di Erano solo ragazzi in cammino. Autobiografia di Valentino Achak Deng (Mondadori, Milano, 2007, pp. 568) scritta da Dave Eggers. Valentino è uno delle migliaia di profughi del Sud Sudan, ennesima terra martoriata da conflitti perenni che dissanguano popoli e economie. I morti si contano a migliaia, i profughi a centinaia di migliaia. Valentino è uno di questi. Dopo una marcia biblica, durante la quale vede tanti suoi amici spegnersi come candele bruciate interamente, il campo profughi di Kakuma, in Kenya, diventa per anni la sua casa. Per dare un’idea: Kakuma esiste ancora oggi, ospita 164.000 persone, 36.000 delle quali sono sudanesi. Poi, un giorno, il visto per gli Stati Uniti, cioè la nuova vita, il sogno. Valentino trova occasioni, amicizie, anche un amore. La realtà, tuttavia, è fatta anche di persone che, semplicemente, non possono capire, non possono neppure immaginare, né hanno bisogno o intenzione di farlo.
La storia di Valentino finisce nelle mani giuste, cioè quelle dello scrittore americano Dave Eggers. Il libro che scrive partendo dalle ore di conversazione con Valentino è esemplare per l’assenza di enfasi o pietismo, per la capacità di restituirci intatte le sensazioni, i pensieri, la lotta per sopravvivere e le speranze del protagonista. Ed è esemplare anche per l’onestà con cui riferisce la realtà dell’esperienza americana di Valentino, un’esperienza fatta di aiuti generosi e di indifferenza, di slanci e delle contraddizioni che trovi negli Stati Uniti. Prima di raccontarne l’infanzia, così, il libro si apre su una rapina con sequestro di persona che Valentino subisce nell’appartamento in cui vive, ad opera di una banda un po’ goffa che lascia un ragazzino a controllare che Valentino non si liberi dai lacci. Da quel momento, il libro è un’alternanza di ricordi e presente, gioie e dolori, sofferenze enormi e istinto di sopravvivenza. Sta soprattutto in questa alternanza la ricchezza del libro, che riesce a raccontare la vita, tutta la vita, così com’è.
A volte, grazie ai libri ci si sente vicini a persone lontane, nello spazio o nel tempo. Come provo a rendere evidente nella pagina di apertura del mio sito Internet, credo nella narrazione come attività connaturata all’essere umano. Perciò, dopo aver letto di tante disavventure, non potevo rimanere indifferente a queste frasi: “Io sono vivo e tu pure, e per questo dobbiamo riempire l’aria delle nostre parole.

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La banda degli onesti

Locandina del film “La banda degli onesti” (1956, regia di Camillo Mastrocinque)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 10/06/2014 nel sito antoniomessina.it]
Facciamo il caso di un concorso pubblico, magari uno di quelli per un posto da vigile urbano a cui partecipano mille concorrenti. L’interesse generale è che fra quei mille si scelga il più bravo, preparato e adatto per quel lavoro. Possiamo anche supporre che, effettivamente, soltanto uno di quei mille sia più bravo, preparato e adatto. Con un piccolo sforzo, siamo poi liberi di immaginare che ciascuno di quei mille pretenda innanzi tutto che il concorso si svolga con modalità tali da assicurare, senza alcun ragionevole dubbio, che il prescelto sia esattamente quell’unico concorrente più bravo, preparato e adatto degli altri 999.
Già a questo punto, però, la costruzione mostra le prime crepe. Per almeno 999 persone, cioè, lo scopo della partecipazione al concorso dovrebbe diventare il riconoscimento che qualcun altro è migliore di loro e, dunque, si assicurerà per tutta la vita lavorativa un impiego stabile e decorosamente retribuito.
Tralasciando quelle tre o quattro persone provviste di un’autostima a prova di bomba, le altre novecentonovanta formano terreno fertile per comportamenti scorretti in grado e forma variabili: dall’appunto nascosto e letto in bagno al suggerimento sussurrato dal vicino; dalla ricerca di notizie che assicurino un vantaggio al momento della prova fino alla corruzione vera e propria. Il tutto, magari, condito da una convinzione analoga a quella di certi ciclisti che hanno dichiarato di doparsi perché, dato che gli altri lo facevano, assumere sostanze illecite serviva soltanto a colmare un handicap e, paradossalmente, ripristinare la lealtà della competizione.
Nell’agire umano poche cose sono automatiche, valide sempre e per tutti. Tuttavia non posso fare a meno di pensare che un movimento che ha fra i suoi motti “l’onestà andrà di moda” debba mettere in conto in questa Italia dove, per dirne solo una, in milioni hanno usufruito dei condoni edilizi, cioè della sanatoria di una condotta illecita, il cammino non sarà facile né breve.

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Votare per chi, votare per cosa

Locandina del film “Un’arida stagione bianca” (1989, regia di Euzhan Palcy)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 29/05/2014 nel sito antoniomessina.it]
Cominciamo da novembre 2011. Silvio Berlusconi conclude la sua esperienza di Presidente del Consiglio lasciando al governo di Mario Monti un debito pubblico di 1.905 miliardi di euro. Monti cede a sua volta il passo ad aprile del 2013, quando il debito pubblico ha raggiunto i 2.042 miliardi. Il successivo governo presieduto da Enrico Letta rimane in carica meno di un anno. Nel momento in cui passa le consegne, a febbraio di questo 2014, il debito pubblico ha comunque stabilito il nuovo record: 2.107 miliardi. Secondo l’ultimo dato diffuso dalla Banca d’Italia, nei due mesi trascorsi dall’insediamento del governo di Matteo Renzi, euro più, euro meno, il debito pubblico, è arrivato a 2.119 miliardi. Però Grillo suda, urla e dice parolacce.
Nelle democrazie di massa, per una quota variabile ma normalmente significativa di persone, la scelta dei decisori è condizionata da un approccio non sempre razionale ai problemi. Si tratta di un fenomeno provvisto di forza propria, che avviene anche quando si dispone di informazioni complete e corrette sebbene, come è ovvio, risulti amplificato quando l’informazione è imprecisa o carente. Inoltre, la sensazione che producono aspetto e voce di una persona è acquisita e elaborata in modo pressoché immediato e, comunque, infinitamente più rapido e efficace del paziente lavoro che occorre, per dirne una, per prendere posizione sul fiscal compact, o per ricordarsi chi ha votato l’adesione dell’Italia ai vincoli posti dal fiscal compact stesso.
Le motivazioni dell’agire umano sono tante quante gli individui. In un bellissimo film, Un’arida stagione bianca, un bianco benestante sudafricano viene condotto dagli eventi a prendere coscienza di quanto sfruttamento, e violenza, caratterizzino il sistema sociale in cui ha finora vissuto in serenità ed agiatezza, ignaro dei drammi che avvengono al di là del suo giardino. Questa nuova consapevolezza lo porta a scontrarsi con le istituzioni e la polizia, sconvolgendo anche la quiete familiare. Così, nel pieno della lotta, la figlia Suzette lo tradisce. Al poliziotto che si congratula con lei per aver fatto la scelta giusta, Suzette replica: “Io voglio solo che tutto torni come prima”.
Distogliere lo sguardo dalla realtà è, ovviamente, più facile che guardarla. Eppure è necessario essere diversi. Così, mentre il debito pubblico italiano continua a crescere, ascolto con la stessa emozione della prima volta l’esortazione dei Pink Floyd a “non voltarsi dall’altra parte”, condita da uno dei più begli assolo di chitarra della storia della musica.

L’assolo di chitarra finale comincia a 3’26”
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Rospo a primavera

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 26/05/2014 nel sito antoniomessina.it]
Prima delle rondini, prima delle giunchiglie e non molto più tardi del bucaneve, il rospo saluta l’arrivo della primavera a modo suo, cioè uscendo da un buco del terreno, dove è rimasto sepolto dal precedente autunno, e striscia, il più rapidamente che può, verso la più vicina e conveniente pozzanghera.” Comincia così un saggio tanto breve (sei pagine scarse) quanto prezioso di George Orwell, pubblicato per la prima volta nel 1946 e raccolto insieme ad altri in un volume, Nel ventre della balena e altri saggi (Bompiani, 2011, pp. 346), comprato in una libreria che smercia rimanenze, ultima tappa prima del macero e riciclaggio della carta.
Che cos’ha di prezioso? Ai miei occhi, la precisione con cui Orwell denuncia uno dei mali peggiori di tanta politica e, soprattutto, di tanta “sinistra”. Dopo tre pagine di descrizione delle piccole meraviglie primaverili, Orwell arriva al cuore del problema con una domanda che mescola buon senso, ironia, ferocia e passione. Si chiede: è un peccato rallegrarsi per la primavera o, “… per essere più precisi, è politicamente riprovevole, mentre tutti soffriamo, o a ogni modo dovremmo soffrire, sotto il giogo del sistema capitalista, far presente che la vita sovente merita meglio d’essere vissuta per il canto di un merlo … o qualche altro fenomeno naturale che non costa un soldo e non possiede ciò che i direttori dei giornali di sinistra definirebbero una visuale classista?
Orwell polemizza con la sinistra del suo tempo, ma una questione di fondo non è esclusiva di quella parte politica né di quell’epoca. Intendo dire che, a mio parere, era, è e rimarrà sempre sbagliato impegnarsi per un obiettivo futuro mortificando il nostro presente. Citando ancora Orwell: “… se distruggiamo ogni piacere nel corso della vita, quale specie di futuro ci prepareremo?
È per questo che amo allo stesso modo impegnarmi, spendermi per gli altri, ma anche passeggiare con mia moglie, godermi un libro o un giro in bicicletta, scrivere le mie piccole storie e dire battute sceme insieme ai miei fratelli. Questi due lati delle mie giornate non si escludono fra loro. Al contrario, penso che si alimentino l’un l’altro. Perciò vado avanti così, con buona pace delle vocazioni univoche e brucianti (che sono cosa diversa dalla dedizione e dallo spirito di sacrificio).
A ogni modo, la primavera è arrivata anche a Londra … e nessuno può impedirvi di goderne. Questo è un pensiero rassicurante.

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