A un concerto degli Iron Maiden

Biglietto d’ingresso – Concerto degli Iron Maiden – Roma, 1981

Sistemando carte vecchie e vecchissime salta fuori il mio biglietto d’ingresso a un concerto del gruppo heavy metal inglese Iron Maiden, a Roma, nel 1981, cioè quando avevo 21 anni. L’esibizione fu tutt’altro che memorabile, tuttavia quel concerto si è impresso in modo indelebile nella mia memoria a causa, in verità, del pubblico.
Fin dalla calca per entrare nel “teatro-tenda” in cui si sarebbe svolto ebbi il sospetto di non essere in tono con l’evento. La mia semplice maglietta di cotone a tinta unita risultò un unicum rispetto a quelle indossate dagli altri spettatori, tutte variamente decorate con teschi, zombie e Morti incappucciate che brandivano una falce. Non riduceva il gap un mio leggero giubbottino bianco, povero agnello fra le decine di giubbotti in pelle nera variamente zavorrati in modo da sembrare, più che un capo d’abbigliamento, il campionario d’un negozio di ferramenta. Poco male, pensai. Tutti eravamo lì per ascoltare musica. A concerto iniziato, l’attenzione sarebbe stata rivolta solo al palco e nessuno avrebbe badato al mio abbigliamento troppo sobrio.
Dunque trovai un posto e mi sedetti in attesa che iniziasse lo spettacolo. Rimasi un po’ deluso constatando che non avevano distribuito il programma di sala, una paginetta che leggo sempre con interesse e, comunque, aiuta a far passare il tempo. Mi seccò pure che le file di sedie non fossero sfalsate in modo da favorire una migliore visibilità. Tuttavia, mi consolai constatando che le sedie erano provviste di braccioli che permettevano di mettersi comodi, quindi di disporsi all’ascolto nel miglior modo possibile.
Gli Iron Maiden si presentarono in ritardo. I ritardi mi infastidiscono e, se ne fossi stato capace, avrei indirizzato ai musicisti un fischio da mandriano. Una reazione che sarebbe rimasta isolata, peraltro. Dimenticando subito l’attesa immotivata a cui era stato costretto, infatti, quasi tutto il pubblicò salutò l’ingresso degli artisti con urla e pugni levati in aria in segno d’irrefrenabile entusiasmo. Ciò non bastando, in molti, per non dire tutti, si alzarono in piedi e saltarono ripetutamente senza poi tornare a sedersi.
Va da sé che le persone in piedi impedivano a quelle sedute di vedere il palco e chi lo calcava. Ciò generò qua e là degli inviti a riposizionarsi nel modo corretto, inviti che però si persero miseramente fra le urla del pubblico e quelle del cantante, che, oltretutto, era pure amplificato.
Stante la situazione, per vedere qualcosa ci si doveva rassegnare a alzarsi in piedi come gli altri. La cosa mi sembrava irragionevole e senz’altro mi indispose, tanto che misi il broncio e decisi di rimanere seduto. Tale scelta si rivelò anche più unica del mio abbigliamento. Già al primo dei brani in scaletta, le sedie ormai servivano a ben poco e, a parte me, quasi nessuno le utilizzava più.
Lo ammetto: la musica sparata ad altissimo volume dalla casse; la gente che si agitava ed io soltanto che stavo lì seduto… Era una situazione alquanto strana. Ancora inesperto del mondo, non sapevo che stava per diventare ancor più strana.
Essendo tutti alzati, per riuscire a vedere qualcosa ci fu chi ebbe la bella idea di salire in piedi sulla sedia, guadagnando una buona visuale. Per quanto in preda all’eccitazione del concerto, non furono in pochi a notare la brillante iniziativa decidendo di imitarla.
Va da sé che le persone in piedi sulle sedie impedivano a quelle in piedi sul pavimento di vedere il palco e chi lo calcava. Rese scaltre dall’esperienza, le seconde saltarono a piè pari la fase dell’invito a scendere e salirono anch’esse senz’altro sulle sedie. Nel giro di due minuti stare in piedi sulla sedia era la regola, io l’eccezione che la confermava.
Pur ostinatamente seduto, dovetti tuttavia a considerare l’ipotesi di alzarmi. Quelli vicino a me che saltavano sulle sedie cominciavano a sembrarmi un po’ pericolosi, infatti, e temevo che prima o poi qualcuno mi sarebbe cascato addosso.
Intanto che il concerto proseguiva, essendo tutti in piedi sulla sedia, per riuscire a vedere qualcosa ci fu chi ebbe la bella idea di salire sui braccioli. Prevedibilmente progettati per dare sostenere braccia e spalle e non persone intere, tali accessori fecero del loro meglio ma ciò non gli impedì di flettersi e molleggiare, rendendo instabile l’equilibrio e costringendo chi li utilizzava ad appoggiarsi alle persone accanto senza avere il tempo di avvisarle.
Pur di fronte ai limiti evidenti dell’iniziativa, essa piacque come le precedenti e via via tutti salirono sui braccioli, restandoci il tempo permesso dall’equilibrio e dalla disponibilità dei vicini a fare da sostegno.
Definitivamente distratto dalla musica, mi alzai e cercai un posto più sicuro, trovandolo dietro l’ultima fila di sedie, vicino all’uscita. Rimasi lì fino alla fine del concerto, anche se oggi non ne so più il perché.

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Imparare la lezione… Non è facile.

Se sbaglio, sbaglio per difetto: da quando sono nato, questi giorni di epidemia sono la terza occasione in cui sperimento una limitazione governativa della mobilità individuale od un obbligo generalizzato di cautela.
La prima fu nel 1973. A causa del cosiddetto “shock petrolifero” il Governo impose il divieto di circolazione dei veicoli privati. All’epoca vivevo a Roma e l’esperienza, per la mia età (13 anni) e le mie esigenze, fu tutt’altro che traumatica. Anzi, io, come credo molti altri, la vissi e ora ricordo con una certa gioia. Roma senza traffico… A piedi da casa fino al Colosseo senza pericoli né rumori… Le persone a spasso tranquille e sorridenti… Che sogno!
La seconda occasione fu nel 1986. A pochi chilometri da una, fino allora, sconosciuta cittadina dell’Ucraina settentrionale si sprigionò un nube radioattiva che arrivò fino in Italia e oltre. Un’ordinanza del ministro della Sanità vietò per 15 giorni la vendita di verdure fresche a foglie e la somministrazione di latte fresco ai bambini fino a 10 anni di età. Ricordo anche inviti a sigillare le finestre ma, verificando, non ne trovo traccia nel web. Magari ricordo male. Io, ormai sedicenne, ascoltavo di più i telegiornali ricavandone la sensazione che chi doveva prendere misure e informare la popolazione lo stesse facendo in ritardo, poco e male, come sperando che il problema si risolvesse da solo grazie al vento e alla pioggia.
La terza occasione è quella di questi giorni, che ormai sono tanti. Non passavo tutto questo tempo con mia moglie dai tempi del viaggio di nozze, un mese in lungo e in largo per il Peloponneso.
Il piccolo excursus m’è venuto di farlo ripensando alla domanda che molti si pongono: “Questa esperienza ci insegnerà qualcosa?” “Ci” inteso come corpo sociale, piccoli gruppi e grandi organizzazioni, Stato e istituzioni sovranazionali. Io lo spero ma così, come speravo di trovare tempo bello quando sarei andato in vacanza. Può capitare, e perciò posso sperarlo, ma niente più di questo.
Lo shock petrolifero avrebbe potuto far diventare pensiero comune il risparmio energetico, il ricorso a fonti rinnovabili e non pericolose, una movimentazione di merci e persone che eliminasse lo spreco e considerasse l’esauribilità di certe risorse. Avrebbe potuto ma non lo ha fatto.
Dall’esperienza delle conseguenze del disastro nucleare di Černobyl’ nacque a Fidenza, nel 1986, il primo Gruppo di Acquisto Solidale: relazione diretta fra produttore e consumatore; controllo sulla filiera (che, peraltro, può essere brevissima); prodotti attenti all’ambiente e alla salute di chi lavora ecc. L’idea dei GAS avrebbe potuto affermarsi come strumento diffuso di attenzione alla salute e alla relazione sociale. Avrebbe potuto ma non è accaduto, coi GAS che anche in questi giorni esistono e resistono ma sono una parte infinitesima del commercio di beni alimentari.
Dunque, spero che questi giorni insegnino qualcosa sul valore che diamo a persone e cose, sul rapporto migliore dell’uomo con l’ambiente, sulla dimensione più appropriata per i gruppi umani e per le loro fonti di sussistenza… Lo spero ma così, come speravo di trovare tempo bello quando sarei andato in vacanza.

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Tranquillo durante l’emergenza Covid-19

(Testo pubblicato per la prima volta il 31/3/2020 come post sulla mia pagina Facebook)

Mi hanno chiesto: “Ma tu come fai a essere così tranquillo in una situazione del genere?” La risposta è abbastanza semplice: penso che ogni marinaio affronti la tempesta con la barca e l’esperienza di cui dispone, non con quelle migliori ma di cui non dispone né di quelle che avrebbe potuto avere, ma che appunto non ha, se avesse considerato l’ipotesi di una tempesta.
Non credo che le circostanze determinino i nostri comportamenti; sono convinto che ogni circostanza sia l’occasione per manifestare le attitudini, le qualità, i difetti, le pulsioni più o meno razionali che proprio oggi fanno di noi quel che siamo. L’elaborazione e il cambiamento, se e quando avvengono, sono cosa che avviene “dopo”, con fatica e neanche sempre.In altre parole, nelle circostanze correnti, penso che ognuno stia reagendo alla situazione nel modo consueto che gli è proprio: chi è credente prega il suo Dio; chi non lo è esprime sue convinzioni d’altro genere; chi non si è mai posto questioni di questo tipo non lo farà neanche adesso.
Penso che tutti trovino nella stessa nuova situazione oggi condivisa la conferma delle convinzioni che già avevano: è colpa dei cambiamenti climatici; i cambiamenti climatici non c’entrano col virus; è colpa delle migrazioni; è colpa della troppa igiene che ci rende più vulnerabili; è colpa della poca igiene che ci espone più facilmente ad attacchi e così via.
Penso che tutti siano d’accordo o in disaccordo con gli stessi politici, imprenditori, opinionisti, organi d’informazione e simili ai quali davano retta prima dell’epidemia: occorrono più Stato, oppure più privato; più severità; meno severità; bisognava chiudere tutto subito; bisogna lasciar uscire di casa; il Governo ha deciso tardi; bisogna riaprire presto; ci vuole più agricoltura; ci vogliono grandi opere…
Penso che tutti attribuiscano priorità alle stesse cose alle quali l’attribuivano prima che scoppiasse la pandemia: occorrono più regole; più sussidiarietà; bisogna controllare i movimenti delle persone; bisogna responsabilizzare le persone; ci vuole la polizia; che noia l’autocertificazione…
Penso che dei fatti veri prima dell’epidemia non possano che manifestarsi nella loro verità mentre l’epidemia è in corso. Una sanità ferita, un sistema di istruzione impoverito, una macchina amministrativa inefficiente non si trasformano nel giro di una notte. Un particolare, questo, ignorato soprattutto da chi critica questo Governo e, infatti, non dice che cosa avrebbe fatto al suo posto ma, soprattutto, come lo avrebbe fatto disponendo esattamente degli stessi ospedali, scuole, apparato amministrativo.
Penso che alcune questioni che io ritenevo e ritengo “fondanti” continueranno a essere ritenute inutili e noiose. Se un qualunque partito mettesse al primo punto del suo programma l’efficientamento della pubblica Amministrazione, alle elezioni prenderebbe gli stessi voti che ho preso io che non mi sono presentato.
Non critico nessuno, nel “tutti” includo anche me stesso che non mi appello a un qualsiasi Dio in cui non credo; che ritengo che i cambiamenti climatici abbiano anche cause “umane” ed effetti sull’ambiente che ci avvolge e permea; che non mi sentivo rappresentato da alcun politico già prima, figuriamoci adesso che, sempre a mio avviso, per la gran parte mostrano il consueto atteggiamento: sia splendore o catastrofe, il fatto è che a comandare ci sono (o: vorrei esserci) io, ora e domani.
Quel che dico e penso, cioè quel che mi fa essere tranquillo, è che il mondo sta andando come sempre, con persone splendidamente solidali ed altre che pensano a come guadagnare dalla crisi, con chi dimostra sguardo lungo e senso pratico e chi si agita solo leggendo il titolo di qualche sito informativo online, con chi fa ammenda dei propri errori e chi non ha proprio nelle corde il mettersi in discussione né il capire che, per esempio, si può essere adatti a certe situazioni e totalmente inadeguati in altre.
Anche domani come ieri e oggi, così, farò quel che ho sempre fatto: cercare il bene, gettare qualche seme sperando che germogli, scegliere ogni giorno di seguire con coerenza le idee grandi e piccole che popolano le mie giornate. Di diverso c’è soltanto che sto facendo di tutto per non ammalarmi.
Lo so, l’ho fatta lunga ma era per spiegare una volta per tutte perché da domani tornerò a scrivere le mie sciocchezze, a condividere dolori e sorrisi coi miei amici, a proporre qualche idea, ricordo o riflessione. Quando leggo quelle dei miei amici, me ne nutro e sto meglio.

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Il girotondo delle sardine viola

La novità politica di questo fine 2019 in Italia sembra essere l’aggregazione che si è scelta per nome 6000 sardine, presto abbreviato in soltanto “sardine”. Nel momento in cui scrivo, l’aggregazione non ha una struttura vera e propria e si raccoglie, coordina e attiva intorno a una pagina Facebook. Le “sardine” stanno riscuotendo l’attenzione, il sostegno ed a volte perfino l’impegno di persone per le quali tutte nutro grande rispetto, in molti casi anche stima e in alcuni anche un affetto incondizionato la qual cosa mi ha, per così dire, obbligato a dedicare qualche attenzione a questo nuovo fenomeno politico.

Avere la bella età di 60 anni (li compirò il prossimo gennaio) include il disporre di un piccolo bagaglio di ricordi. Pescando in quel bagaglio trovo i Girotondi (nati nel 2002, smisero di girare l’anno dopo); poi il Movimento 5 Stelle delle “origini” (i Meet Up degli amici di Beppe Grillo prima di diventare Movimento nel 2007, formalmente costituito nel 2009); quindi il Popolo Viola, nel 2009, da cui l’anno seguente nacque la Rete Viola. Peraltro, rimanendo in tema di movimenti variamente spontanei e impetuosamente cresciuti, risulta interessante anche la traiettoria degli Indignados spagnoli (2011) da un cui settore nacque il partito Podemos (2014) poi divenuto, in soli due anni!, il terzo partito per numero di eletti nel parlamento spagnolo.

Come ognun vede, si tratta di movimenti che differiscono per intenzioni e condividono una nascita”improvvisa”, originata da una reazione a situazioni specifiche più che dal coagularsi sociale attorno a una visione del mondo o anche, più modestamente, di come gestire concretamente (avverbio usato di proposito, dato che non considero sufficientemente identificativo l’appello a “onestà”, “trasparenza”, “giustizia” et similia, tutti bisognosi di una declinazione pratica) quella che una volta veniva definita “cosa pubblica”. Detto grossolanamente: i Girotondi nacquero per reazione alle ingerenze del potere politico nell’attività di quello giudiziario e, tendenzialmente, rimasero all’interno delle tematiche legate alla gestione del sistema giudiziario e alla difesa della Costituzione; il primo germe del futuro partito 5 Stelle, cioè il blog di Beppe Grillo, si impegnava in precise battaglie pacifiste (come il ritiro delle truppe italiane in Iraq), di tutela del consumatore (vicenda dei bond argentini; riduzione dei costi di ricarica dei cellulari ecc.), di diffusione della conoscenza delle soluzioni adottabili per il risparmio energetico; il Popolo Viola nacque in esplicita avversione alla persona e al governo di Silvio Berlusconi.

Oggi, dunque, abbiamo le sardine, quelle che dichiarano “Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie.

Premesso e ribadito che ho grande rispetto per chi decide di darsi da fare per migliorare la vita di tutti, constato la mia personale difficoltà a entusiasmarmi per questo nuovo esperimento politico. La frase che ho citato (la si può leggere nel “manifesto” pubblicato sulla pagina Facebook di cui sopra), stringi stringi non dice niente; non dichiara chi incarna il valore dell’attenzione al bene comune anteposta a quella per il proprio interesse personale né, soprattutto, quale sia il bene comune. Nella vita reale il “bene comune” è “bene di tutti” quasi soltanto quando ci si occupa delle regole di funzionamento della comunità, dei processi che sfociano in una decisione che possa essere accettata da ciascuno anche se quasi mai produce vantaggi per ciascuno. Si tratti di ambiente, pace, energia, consumo del suolo, diritto del lavoro, sistema fiscale, istruzione pubblica, sanità e quanto altro possa riguardare o interessare la comunità, la “politica” che gestisce è fatta di scelte che in quanto tali, attuano una fra le opzioni disponibili.

Non vi è dubbio che oggi in Italia si possa essere (io lo sono) stanchi di toni esasperati, magari buoni soltanto per coprire una modesta conoscenza di ciò di cui si parla. La soluzione al problema, tuttavia, non mi sembra un appello generico alle persone che “pur sbagliando ci provano”, laddove in politica avere un buon carattere può essere un accessorio positivo ma non credo che abbia mai risolto le grandi questioni sul presente e il futuro di tutti.

C’è poi un’ultima questione, che credevo soltanto mia ma ho scoperto di condividere con Tomaso Montanari. Mi riferisco alla reale capacità di “sporcarsi le mani” con la realtà del mondo in cui viviamo riuscendo poi a interpretarlo correttamente. Scrive Montanari: “… ammettiamo che il vero bersaglio [delle sardine] sia la Lega: io non credo che il successo di quest’ultima sia la malattia. Credo invece che quel consenso sia il sintomo mostruoso della vera malattia: l’enorme ingiustizia sociale che ha sfigurato questo paese. La destra estrema appare l’alternativa – nera, terribile, portatrice di morte – a un ordine mondiale che si predicava senza alternative.

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Senza fine, tu sei un debito senza fine

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 11/06/2019 nel sito antoniomessina.it]
Per “debito pubblico” si intende il valore (nominale) di tutte le passività (lorde consolidate) delle amministrazioni pubbliche. Livello e composizione del debito sono misurati dalla Banca d’Italia che rende disponibili le relative informazioni nel proprio sito Internet (v. https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/finanza-pubblica/index.html).
Occuparsi del debito è importante perché, come ognun sa, quanto più si è indebitati, tanto meno si è liberi. Vale per le singole persone e vale anche per gli Stati sovrani. Di conseguenza, tutti, e specialmente chi si proclama attento al bene del Paese, dovrebbero avere a cuore il contenimento del debito pubblico entro livelli compatibili con la possibilità di adottare, senza vincoli o condizionamento alcuno, le proprie scelte di politica economica.
Siccome l’assenza del debito pubblico dal dibattito politico è seconda soltanto all’assenza delle tematiche ambientali, mi sono proposto di verificare da solo come sono andate le cose negli ultimi vent’anni. Potevo andare più indietro ma ho preferito non esagerare: l’articolo che state per leggere è già piuttosto lungo risalendo soltanto fino al 1999. In compenso, se volete inframezzare la lettura con qualche passatempo, potete giocare a riconoscere quale organizzazione politica si celi dietro le varie sigle che troverete nel testo.
Cominciamo col primo Governo D’Alema (21/10/1998 – 22/12/1999; maggioranza composta da: L’Ulivo – DS – PPI – RI – SD I-FdV – PdCI – UDR – Rete). A ottobre 1998, quando si insedia il Governo, il debito pubblico è di1.266.444,3 miliardi di euro. A dicembre 1999, quando il Governo cade, il debito è di 1.285.054,1miliardi.
A Massimo D’Alema succede Massimo D’Alema (22/12/1999 – 25/04/ 2000; maggioranza composta da: L’Ulivo – DS – PPI – Dem – UDEUR – SDI – FdV – RI – PdCI – UV) che perciò ha altro tempo per lavorare per il bene del Paese. Quando anche il D’Alema II conclude il suo percorso, però, il debito è arrivato (aprile 2000) a 1.309.783,6. Dopo i due governi D’Alema, quello seguente è presieduto da Giuliano Amato (25/04/2000 – 11/06/2001; maggioranza composta da: L’Ulivo – DS – PPI – Dem – FdV – PdCI – UDEUR – RI – SDI). Questo Governo rimane in carica poco più di un anno lasciando dietro di sé un debito pubblico di 1.359.083,2 (giugno 2001). Se l’aveste dimenticato, ricordo che stiamo parlando sempre di miliardi di euro.
A giugno 2001 Silvio Berlusconi forma il secondo dei quattro governi da lui presieduti (11/06/2001 – 23/04/2005; maggioranza composta da: Casa delle Libertà – FI – AN – LN – UDC – NPSI -PRI). Questo governo rimarrà in carica quasi quattro anni e otterrà una serie di risultati, fra cui un debito pubblico a 1.526.877,4 (aprile 2005). Per circa un altro anno, Berlusconi succede a se stesso e forma il Berlusconi III (23/04/2005 – 17/05/2006; maggioranza composta da Casa delle Libertà – FI – AN – LN – UDC – NPSI – PRI). In un anno si possono fare meno cose che in quattro ma questo Governo riesce comunque a farne qualcuna, fra cui portare il debito pubblico a 1.584.787,4 (maggio 2006).
Nel 2006 il pendolo elettorale si sposta dal centrodestra al centrosinistra. A Berlusconi succede Romano Prodi che va a formare il secondo governo da lui presieduto. Il Prodi II dura un paio d’anni (17/05/2006 – 06/05/2008; maggioranza composta da: L’Unione – DS – DL/PD – PRC – RnP (SDI-RI) – PdCI – IdV – FdV – UDEUR – SI – DCU – LpA – AL – SD – LD – MRE) e, almeno per quanto riguarda il debito pubblico, non può, non sa o non vuole invertire la rotta. Quando cade, infatti, il debito stesso è arrivato a 1.655.283,6 (maggio 2008).
Al posto di Prodi torna Silvio Berlusconi, al governo per la quarta volta (08/05/2008 – 16/11/2011; maggioranza composta da: PdL – LN – MpA – CN – PT – FdS – DC). Dopo tre anni e mezzo il Berlusconi IV chiude i suoi conti con un debito pubblico di 1.913.284,8 (novembre 2011).
Sta per finire il 2011, l’Italia decide di affidarsi a un Governo senza esponenti di partiti politici e impreziosito da numerosi docenti universitari. Lo presiede Mario Monti (16/11/2011 – 27/04/2013; governo “tecnico” che ottiene la fiducia da PdL – PD – UdC – FLI – ApI – RI – MpA – PID – PLI -PRI – LD – AdC – PSI – MAIE) che, insieme ai suoi ministri, nei ricordi di noi tutti rimarrà associato al superamento della soglia dei due miliardi di euro di debito pubblico, esattamente 2.093.594,0 (aprile 2013).
I partiti politici decidono di riprendere in mano in prima persona le sorti del Paese e si forma un nuovo governo presieduto da Enrico Letta (28/04/2013 – 21/02/2014; maggioranza composta da: PD – PdL/NCD – SC – UdC – PpI – RI). Dopo circa un anno e mezzo, Enrico Letta lascia al suo successore un debito pubblico a 2.108.813,4 (febbraio 2014).
Dopo Enrico Letta arrivano Matteo Renzi e il suo Governo (22/02/2014 – 12/12/2016; maggioranza composta da: PD – NCD – SC – UdC – Demo.S – CD – PSI). Dopo poco meno di tre anni, Renzi getta la spugna e passa il testimone insieme a un debito pubblico di 2.220.369,6 (dicembre 2016). A farsi carico di tale fardello è Paolo Gentiloni (12/12/2016 – 01/06/2018; maggioranza composta da: PD – NCD/AP – CpE – Demo.S – CD – PSI) che conclude il suo mandato con la fine della legislatura e lasciando un debito di 2.334.284,9 (giugno 2018).
Siamo, finalmente, ai giorni nostri. Le turbolenze politiche prendono una forma definita con il nuovo Governo presieduto da Giuseppe Conte (in carica dal 01/06/2018; maggioranza composta da: M5S – Lega – MAIE). Per quanto riguarda il debito pubblico, l’ultimo dato che ho reperito nel sito Internet di Banca d’Italia si riferisce a marzo 2019 e parla di un debito pubblico ancora cresciuto: 2.358.799,5 miliardi di euro.
Dopo aver debitamente ringraziato chi ha avuto la pazienza per leggere sin qui, gli chiedo un ultimo sforzo per leggere poche considerazioni a margine del mio excursus.
In primo luogo: è chiaro che si ragiona di grandezze enormi e influenzate da un numero elevatissimo di fattori, così come è chiaro che una inversione di rotta richiede tempo perché dia risultati, tuttavia rimane il fatto che da vent’anni a questa parte nessun Governo ha contenuto in modo significativo la crescita del debito e men che meno è riuscito a ridurlo.
In secondo luogo: l’ordine di grandezza delle cifre rischia, almeno per noi comuni mortali, di rendere astratto il concetto di debito. Purtroppo, il debito stesso è invece un elemento molto reale e con conseguenze pratiche (negative) tanto nel breve quanto nel lungo periodo.
In terzo luogo: il fatto che ogni giorno il Sole si levi all’orizzonte nonostante la crescita del debito rischia di far pensare che il debito stesso possa crescere indefinitamente, ché tanto si andrà avanti come sempre. Anche in questo caso, purtroppo, è vero il contrario. Ogni euro di debito in più toglie un anello alla catena che lega qualsiasi governo italiano, riducendo i suoi spazi di manovra, credibilità, autonomia. Il debito non è una nozione astratta, è un obbligo che si ha nei confronti di qualcuno. Se non si onora il debito ci sono conseguenze.
In quarto luogo: considererei splendido se tutti, quando ascoltano un qualsiasi politico promettere anche un bruscolino, gli chiedessero anche dove troverà i soldi per darlo e gli dicessero pure chiaramente che, almeno fino a quando le cose non saranno rientrate in un ordine di grandezza accettabile, dare il bruscolino a credito non vale.

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Sullo sfondo del quadro c’è un vegetariano che dice sempre no

La scheda di votazione per il referendum “Monarchia-Repubblica” del 2 e 3 giugno 1946

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 24/11/2016 nel sito antoniomessina.it]
Scrivo a poco più di una settimana dalla data del referendum sulle modifiche della Costituzione italiana, il che significa che negli organi d’informazione le argomentazioni sono ormai quasi estinte e hanno ceduto il campo ai due monosillabi SI e NO. Io, come al solito, sono attratto dalle cose che rimangono sullo sfondo e che secondo me, sebbene poco osservate da chi si concentra sul fuoco dell’immagine, sono ciò che la sostiene e il contorno che la inquadra.
Nel caso del dibattito (al solito, più gridato che ragionato) sul referendum, per esempio, mi colpiscono due “argomenti” che, a mio parere, non dimostrano nulla se non una certa immaturità nell’esercizio della democrazia. E vediamo di che si tratta.
“Voti SI? Ma non ti vergogni a essere in compagnia di Verdini?” “Voti NO? Ma non ti vergogni di essere in compagnia di Salvini?” Sostituite pure i due nomi con altri a vostro gusto, la questione è la stessa, cioè che si tratta di un argomento stupido. Un referendum offre soltanto due opzioni di risposta a un quesito specifico. È indubbio che il quesito si inscrive in un contesto ma ciò non evita che la risposta sfrondi se stessa da tutto ciò che è esterno alla questione in gioco. La democrazia rappresentativa è (anche) la ricerca di un equilibrio fra due esigenze di pari valore, cioè la rappresentatività e la funzionalità del sistema. Negli anni scorsi ci hanno frantumato i neuroni per convincerci della bontà e necessità del cosiddetto bipolarismo, mentre premi di maggioranza assai premianti provavano a contribuire alla riduzione della fauna partitica. Quale che sia il giudizio sulla bontà e sui risultati ottenuti dalle soluzioni adottate, rimane il fatto che un referendum è il massimo della semplificazione, che ciascuno avrà le sue ragioni per votare sì o no e che ha davvero poco senso, parlando di due agglomerati che conterranno vari milioni di individui, pretendere che il proprio schieramento sia migliore dell’altro perché l’altro comprende anche tizio o caio.
Un altro argomento che trovo poco sensato è la critica alle opposizioni (che, anche nel caso della riforma costituzionale, si oppongono) perché “sanno dire solamente no”.
Immaginiamo due persone, A e B, che si incontrano. A invita B al ristorante, uno vicino che A conosce bene e dove si mangia divinamente. Entrano, si siedono, A prende il menu e propone un antipasto di affettati misti, B declina perché, informa, è vegetariano. A passa al primo, suggerendo i tortellini specialità della casa ma B declina perché, come ha appena detto, è vegetariano. Forse una bistecca alla fiorentina? B ringrazia per il pensiero ma rifiuta. E via così. Del resto, al ristorante preferito da A, “La mandria al sangue”, il menu è fortemente caratterizzato.
Orbene, in una democrazia sana, supponendo che due o più schieramenti si siano proposti con posizioni differenti, che l’opposizione si opponga dovrebbe essere considerato normale e non un punto a sfavore. Quello che sarebbe da criticare sarebbe un atteggiamento di opposizione “a prescindere”, sistematica, senza neppure entrare nel merito. Ed è qui che, mi sembra di vedere, casca l’asino. Perché “entrare nel merito” richiede impegno, attenzione, preparazione, tempo. Una riforma della Costituzione complessa, come quella che si sta proponendo, meriterebbe un maggiore rispetto. Anche da coloro che la sostengono.

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Sostenere Telethon è una scelta azzardata?

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 26/02/2016 nel sito antoniomessina.it]
Le distrofie muscolari sono malattie genetiche degenerative. “Genetiche” vuol dire che ti capitano addosso senza motivo, semplicemente perché sei nato e un pezzetto del tuo patrimonio genetico ha deciso di funzionare male o di non esserci proprio. Comprendere i meccanismi di queste malattie non è semplice; individuare una cura efficace pare che lo sia ancor meno. Progressi minuti richiedono anni di studi condotti da specialisti di altissimo livello con l’ausilio di strumenti anche molto sofisticati. Tutte cose che costano un sacco di soldi, insomma.
Per finanziare ricerche e ricercatori nel campo delle malattie genetiche, nel 1990, sulla scia dell’omonima esperienza ideata negli Stati Uniti dall’attore Jerry Lewis, anche in Italia nacque Telethon, “maratona televisiva” di promozione della raccolta di fondi da destinare alla ricerca sulle malattie genetiche rare. Soldi raggranellati con migliaia di versamenti singoli, anche di importo modesto, andando idealmente casa per casa. Una sorta di Fra Galdino 2.0. Il marchio Telethon è poi divenuto quello della fondazione che si occupa di gestire i fondi raccolti anche attraverso le sottoscrizioni promesse durante la maratona televisiva. “Anche” vuol dire che, oltre a migliaia di privati cittadini che versano un paio d’euro, Telethon riceve il sostegno di varie aziende e diversi partner tecnici.
Siccome è da un po’ di tempo che nella mia testa si agitano idee strane, già vari anni fa, molto prima di diventare socio di Banca Etica, segnalai criticamente la decisione di Telethon di affidare la gestione della raccolta fondi alla Banca Nazionale del Lavoro, cioè di una banca che, all’epoca, compariva nell’elenco delle cosiddette “banche armate”, ovvero gli istituti di credito che veicolano le transazioni finanziare collegate al commercio di armamenti. Dopo aver appreso che l’ultima maratona televisiva pro Telethon (dicembre 2015) aveva raccolto oltre 31 milioni di euro, ho voluto aggiornare le mie informazioni. Forse, ho pensato, raccogliere tanti soldi da migliaia di sottoscrittori ha permesso a Telethon di sentirsi più libera di scegliere i propri partner, magari selezionandoli anche in base a principi etici. Così sono andato a vedere l’elenco dei partner di Telethon http://www.telethon.it/cosa-puoi-fare/come-azienda/partner
In questo elenco ho trovato due banche, BNL-Paribas e Intesa Sanpaolo, che sono da sempre e ancora oggi nelle prime posizioni della classifica delle “banche armate”. Ho trovato due aziende petrolifere: ENI (tangenti miliardarie in Nigeria) e Total Erg (sotto inchiesta dal 2013 per frode fiscale). Ho poi trovato (e, per certi versi, è stata la notizia peggiore) ben sei società di gestione del gioco d’azzardo: SISAL; Lottomatica; Intralot; HBG Gaming; Admiral Gaming Network; Cogetech. Cioè si cura la sofferenza fisica e morale degli affetti da malattie genetiche accettando soldi da chi se li procura creando le premesse per altre sofferenze fisiche e morali. E prima che qualcuno mi dica: “Ma è azzardo legale!”, lo invito ad informarsi sul fenomeno della ludopatia.
E dunque? Son io forse contrario alla ricerca scientifica? al sogno di trovare la cura per le malattie genetiche rare? Ovviamente no. Eppure, a ripristinare una gerarchia di valori, da qualche parte si dovrà pur cominciare.

Aggiornamento del 25/08/2019: Rileggo l’articolo, rivado a vedere nel sito di Telethon e fra i finanziatori non trovo più le compagnie petrolifere ENI e Total Erg. Fra le società di gestione del gioco d’azzardo, l’unica ancora in elenco è Lottomatica. Compare la Federazione Italiana Tabaccai che, se è pur vero che raccoglie esercenti che trattano anche altre merci oltre le sigarette, è comunque abbastanza singolare che si trovi fra i finanziatori della ricerca sulle malattie genetiche anziché sui tumori, magari.

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Lezioni di greco

Alexīs Tsipras, Primo Ministro della Grecia dal gennaio 2015 al luglio 2019

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 19/07/2015 nel sito antoniomessina.it]
Più o meno come accadde a suo tempo per Gaza, nel breve volgere di pochi giorni la Grecia è passata da notizia egemone a trafiletto e forse già domani non ne sentiremo più parlare in favore di qualche altro dramma internazionale scelto fra i tanti che, purtroppo, non mancano. Fatto sta che già oggi, a neppure una settimana dal voto del Parlamento greco sull’accettazione delle proposte formulate dalle controparti internazionali, è possibile rileggere con sufficiente distacco l’infinito dibattito italiano su quel che è accaduto in Grecia o, per dir meglio, alla Grecia; un dibattito che, è mia impressione, è stato caratterizzato da una quantità abnorme di consigli (non richiesti) e giudizi (tanto netti quanto severi) indirizzati al popolo greco, alla coalizione Syriza e al Primo Ministro Alexīs Tsipras. Consigli e giudizi, va da sé, espressi stando comodamente seduti davanti al computer, con un bicchiere e, considerato il caldo, qualche bevanda fredda a portata di mano, ragion per cui desidero condividere di nuovo il bell’articolo del giornalista greco Alex Androu dove, mi pare, ci sia un contributo interessante per inquadrare correttamente un paio di faccendine di qualche conto.
Ma, come mi accade troppo spesso, sto divagando e ancora non arrivo al punto. Che è questo: mi pare che molti abbiano detto ai greci che cosa fare a casa loro, e nessuno o pochissimi abbia provato a dire che cosa, qui in Italia, dobbiamo imparare dalla lezione greca. Eppure sarebbe importante, per non dire decisivo. Perciò provo umilmente a dire la mia.
Dalla vicenda greca dovremmo almeno imparare che:

  • oggi gli Stati non si invadono coi carri armati ma coi prestiti;
  • se si vuole essere liberi di scegliere fra due opzioni, bisogna che entrambe siano realmente praticabili;
  • le soluzioni praticabili sono quelle che si è potuto e voluto preparare, il che richiede tempo ed azioni coerenti;
  • il debito nazionale è un dato che tutti noi dovremmo conoscere e seguire nel suo andamento perché da quel valore possono dipendere il nostro futuro, la nostra libertà, la nostra indipendenza;
  • già che ci siamo, non sarebbe male imparare a distinguere fra “saldo primario” (che per l’Italia è positivo, cioè lo Stato, al netto degli interessi passivi, incassa più di quel che spende) e “debito pubblico” (che comprende la spesa per gli interessi sul debito);
  • tutti i partiti e gli esponenti politici che, con l’azione o con l’inerzia, fanno crescere l’indebitamento sono partiti e persone che stanno lentamente serrando le manette ai nostri polsi;
  • al livello dell’azione “dal basso”, la costruzione di un futuro possibile (e, possibilmente, luminoso) passa attraverso la creazione di circuiti di scambio che riducano la quantità di denaro necessario per vivere: gruppi di acquisto solidale; banche del tempo; moneta complementare ecc.

Mi rendo conto che tutto ciò non basta. So anche che dovrei dedicare un po’ di spazio a chiarire che quando parlo di riduzione del debito pubblico non mi riferisco agli insensati tagli lineari, né alla soppressione dello Stato “sociale” o all’assenza di politiche pubbliche di sviluppo. Spero, tuttavia, di aver lasciato intendere l’essenza del mio pensiero, cosa che ho fatto mentre il debito pubblico italiano ha stabilito il nuovo, ennesimo, record storico raggiungendo la cifra di 2.218 miliardi di euro. Il dato è disponibile nel sito della Banca d’Italia che, a leggere le ultime dichiarazioni, non rientra fra le fonti consultate dal nostro Consiglio dei ministri e dal suo Presidente.

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Salviamo la Germania!

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 07/07/2015 nel sito antoniomessina.it]
Il bersaglio di questo mio piccolo scritto è l’uso corrente dell’aggettivo “rigorosa” riferito alla politica economica praticata dalla Germania.
La parola “rigorosa” vuol suggerire l’idea di uno Stato parsimonioso, attento ai propri equilibri di bilancio, finanziariamente virtuoso anche se un po’ rigido, compunto e tenero come un bambino che, dopo averci pensato su, decide di non comprare lo zucchero filato e mettere il soldino nel salvadanaio. La Germania, insomma, viene presentata come fautrice di una gestione sana dell’economia, magari un po’ noiosa ma rassicurante.
In questi ultimi giorni, parlare di “rigore” della Germania sottintendeva un confronto con le cicale greche, ieri indebitatesi fino al collo e oggi riottose a pagare il fio delle loro spese allegre. L’espediente retorico, dunque, era quello, non nuovo, di accreditare nell’opinione comune la verità di un’idea semplicemente limitandosi a evocarla, come se si trattasse di un fatto così evidentemente e notoriamente vero da non richiedere spiegazioni e approfondimenti. Perciò ho voluto curiosare un poco, scoprendo alcune cose.
Nel 2014 (fonte Eurostat) la Germania ha registrato un debito pubblico di 2.170 milioni di euro, con un rapporto “debito/prodotto interno lordo” del 74%. Per fare un confronto: a dicembre 2014 l’Italia aveva un debito di 2.134 milioni di euro e un rapporto debito/PIL del 132%. L’Italia è messa peggio ma, per rimanere in tema col dibattito di questi giorni, “se Atene piange, Sparta non ride”.
In Germania il 45% del sistema bancario è ancora in mano pubblica, cioè di proprietà dello Stato o dei Länder (per chi se lo fosse dimenticato: la Germania è uno stato federale). Lo Stato tedesco, per esempio, è il più forte azionista (17% del capitale sociale) della Commerzbank, la seconda più grande banca tedesca.
Come stanno le banche tedesche? Nel 2014 esse hanno tutte superato i cosiddetti “stress test” dell’Unione europea sulla base della singolare considerazione che le attività finanziarie sono meno rischiose di quelle creditizie. In sostanza, la banca è stata ritenuta solida quando il suo patrimonio era pari ad almeno l’8% dei crediti erogati. Gli investimenti finanziari nel portafoglio delle banche europee, invece, non necessitavano di una corrispondente base patrimoniale neppure se si trattava di investimenti ad alto rischio.
In altre parole, gli stress test sono stati un po’ come un esame del sangue eseguito per controllare i rischi di occlusione dei vasi sanguigni ma che non misura il livello di colesterolo. Così, per fare due esempi, la citata Commerzbank ha superato il test riferendosi ai 200 miliardi euro di crediti e non anche ai 361 ulteriori miliardi impegnati in attività finanziarie mentre la HSH Nordbank (altra banca in mano pubblica) è stata considerata a rischio per 38 miliardi di euro di crediti e non per gli ulteriori 72 di investimenti finanziari.
Il criterio seguito negli stress test è tanto più strano quando si consideri il livello quantitativo del rischio finanziario assunto da certe banche. La prima banca tedesca, Deutsche Bank, sarebbe esposta (uso il condizionale perché la fonte che ho rintracciato non è ufficiale ma di una società di analisi) in investimenti sui cosiddetti “derivati” per 54.7 trilioni di euro (non chiedetemi a quanto diavolo possa corrispondere una cifra del genere nella realtà). Il giorno che esploderà qualche bolla, si salvi chi può, dunque.
Insomma, la “rigorosa” Germania è indebitata fino al collo, il suo sistema bancario è abbondantemente partecipato dallo Stato, le sue banche superano dei test eseguiti da un controllore che si copre gli occhi, la sua economia reale è messa a repentaglio dai livelli stratosferici toccati dalle attività speculative e il “rigore” sembra poco più che una favola che si racconta ai cittadini europei per addormentarli mentre fra gli scenari possibili, fantasticando un po’, ci sono code di tedeschi alla frontiera con la Grecia pronti a barattare le loro Mercedes con due forme di feta.
Come sentenzia il detto: non è tutto oro quel che luccica.

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Di cosa parliamo quando parliamo di Grecia

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 05/07/2015 nel sito antoniomessina.it]
Mi metto a scrivere alle 18.06 del 5 luglio 2005. Fra un’ora o poco più, nella Grecia non troppo distante dal luogo in cui vivo e così vicina al mio cuore, si chiuderanno i seggi del referendum per approvare o respingere la proposta “presentata da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale nell’Eurogruppo che si è tenuto il 25 giugno 2015, composto da due documenti: il primo documento è intitolato ‘Riforme per il completamento dell’attuale programma e oltre’ e il secondo ‘Analisi preliminare per la sostenibilità del debito’.”
Fra poco, dunque, molte delle parole spese qui in Italia fino ad oggi non avranno più senso, valore, utilità pratica. Nei giorni scorsi ne ho spesa qualcuna anch’io, qualcun’altra ne ho fatta circolare e c’è perfino stato chi, come il mio amico Giulio Stumpo, ha dedicato parte del suo tempo a approfondire, ragionare, esprimersi. Cito Giulio perché quel che ha (assai ragionevolmente) scritto mi ha suscitato un pensiero prima indistinto poi più definito e che, devo dire, ha soltanto parzialmente a che vedere col merito delle soluzioni possibili, giuste o giustificate per risolvere il problema del debito greco.
Quest’ultimo, dice anche Giulio, è un problema complesso. Il problema dei problemi complessi, dico io, è che avendo molte sfaccettature è facile, se non inevitabile, dedicare attenzione a quella che ci sembra più importante o decisiva. Se due persone hanno opinioni diverse sul grado di importanza delle varie questioni, dunque, è facile, se non inevitabile, parlare della stessa cosa senza capire che si sta parlando di cose diverse.
La premessa fin qui fatta, nel caso del mio amichevole confronto con Giulio deve applicarsi al pensiero che si è formato leggendo queste sue parole: “Se leggessimo tutto il documento con le “correzioni” (che anche a me danno fastidio), pubblicato da Internazionale, ci renderemmo conto che quei cattivoni della Troika hanno chiesto a Tsipras di raddoppiare i tagli alla spesa militare; hanno chiesto di non aumentare le entrate provenienti dalle istallazioni di nuove slot machine e video lottery, di eliminare molti privilegi della classe dirigente, di prevedere un inasprimento delle norme anti corruzione; di prevedere una agenzia autonoma per la riscossione dei tributi e contrastare l’evasione fiscale che in Grecia è pazzesca. Solo per fare qualche esempio che ricordo a memoria. In merito al discorso relativo alle pensioni, ti segnalo che in sostanza quel documento chiede l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 anni a 67 o (dico “o”) 40 anni di contributi. Non mi sembra così vergognoso per un paese che paga le pensioni per il 50% con entrate sulla fiscalità generale chiedere questo “sacrificio” che tutti in Europa stanno facendo. Difendere questo punto vuol dire secondo me difendere un privilegio insopportabile che graverà sempre di più sulle spalle dei greci e degli altri partner europei.”
Dopo un po’, infatti, penso d’aver capito perché con qualcuno, quando ho parlato di Grecia, non mi sono capito. Semplicemente, stavamo esaminando due facce diverse della questione. Intendo dire che forse (dico “forse” perché personalmente non ho conoscenza diretta della questione) è vero che la Grecia è vittima di corruzione e privilegi e welfare eccessivo; ed è sicuro che io, se fossi un cittadino greco, mi batterei contro la corruzione, i privilegi e il welfare eccessivo ma, ed è qui il punto che per me è più importante, non sono greco io ma neppure la Commissione europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale. E allora: un conto è chiedere la restituzione di un debito, un altro è dire che tu, oltre a non essere padrone dei tuoi soldi, non sei neppure padrone di decidere come e dove procurarti quelli che ti occorrono.
Accettare non tanto la proposta attuale ma qualsiasi proposta che non discuta di quantità di soldi, scadenza delle restituzioni e altri aspetti tecnici significherebbe che oggi la Grecia, domani chiunque altro, non sarebbe più uno Stato sovrano e che i suoi cittadini potrebbero soltanto giocare alle elezioni. Ha un che di profondamente simbolico il fatto che questo esperimento, in Europa, lo si tenti là dove è nata la parola stessa che definisce la collettività delle decisioni e la loro origine nella comunità che le deve attuare.
I seggi in Grecia chiudono fra poco. Viva la democrazia.

Nota del 23/08/2019: il referendum del 5 luglio 2015 vide la prevalenza dei NO (61,31%) alle proposte dell’Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea.

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Tutto quel che ho da dire è già stato detto

Una scena del film “Brian di Nazareth” (1979, regia di Terry Jones)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 15/06/2015 nel sito antoniomessina.it]
Non ho un libro (o un film) “che mi ha cambiato la vita”, però ci sono libri e film che rappresentano opinioni che sento mie e lo fanno in un modo che ritengo, per dir così, “definitivo”. È per questo, per esempio, che in un post di alcuni mesi fa mi riferii al saggio di George Orwell Elogio del rospo come ad un testo che “… che dice tutto quel che c’è da dire sulle ragioni e il senso dell’impegno politico e sociale. Perlomeno, dice tutto quel che io avrei da dire sull’argomento.”
Altri esempi? Credo che Decalogo 5, del regista polacco Krzysztof Kieślowski, abbia reso inutile ogni ulteriore riflessione sulla pena di morte, spiegando orrore e insensatezza a tutti e per sempre.
Poi c’è la fulminante descrizione di un tipo umano contenuta nei Promessi sposi. Ci sono persone che costruiscono la propria fortuna sulla tendenza che hanno le persone a credere vero ciò che è solo un frutto della propria immaginazione o dei propri desideri. Basterebbe poco per smascherare l’inganno, basterebbe ancor meno a lasciare dove sono certi accenni sospesi e misteriosi, eppure sono molti quelli che assecondano ciò che credono vero e non ciò che verificano che sia vero. Le due parti protagoniste di questo meccanismo mentale sono espresse da Alessandro Manzoni in modo insuperabile nella descrizione manzoniana del Conte Zio. “Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega.”
Sono convinto che la nullità umana di certi (tanti) politici fanfaroni e pieni di sé sarebbe meglio evidenziata dall’ignorarli anziché metterli comunque, sia pure per criticarli nel modo più feroce, al centro della scena. Ed è un esempio fin troppo alto quello fornito da Lev Tolstoj in uno strepitoso passaggio di Guerra e pace che, nel modesto contesto di questo mio blog, posso citare (si tratta dei capitoli XIX e XX della Parte Terza dell’opera) solo per estratti:
“L’atteggiamento di magnanimità col quale [Napoleone] aveva intenzione di comportarsi a Mosca ormai trascinava lui stesso. Già fissava in mente sua, i giorni di réunion dans le palais des Czars, dove si sarebbero incontrati i dignitari russi con i dignitari dell’imperatore francese. Nel suo fantasticare, già nominava un governatore che sapesse accattivarsi le simpatie della popolazione. Avendo saputo che a Mosca c’erano molte istituzioni di beneficenza, aveva già deciso, tra sé, che avrebbe colmato di generosi favori tutte quelle istituzioni.

Intanto, nel seguito dell’imperatore, nelle file più arretrate, si stava svolgendo a bassa voce un concitato consulto fra generali e marescialli. Quelli che erano stati inviati a chiamare la deputazione avevano fatto ritorno con la notizia che era deserta, che tutti erano partiti e l’avevano abbandonata. Le facce delle persone riunite a consulto erano pallide e agitate. Non li spaventava tanto il fatto che Mosca fosse stata abbandonata dagli abitanti (per quanto importante sembrasse quest’avvenimento), quanto il pensiero di come annunciare la cosa all’imperatore; come annunciargli, senza mettere Sua Altezza nella terribile situazione che i francesi definiscono
ridicule, che inutilmente aveva atteso i boiardi così a lungo, che a Mosca era rimasto qualche gruppetto di ubriachi, ma nulla di più.

“… era vuota Mosca mentre Napoleone, stanco, inquieto e accigliato, camminava avanti e indietro lungo il Kamerkolležskij Val, in attesa di quell’esteriore, ma indispensabile osservanza del cerimoniale, ossia il presentarsi di una deputazione di moscoviti.
Nei vari angoli di Mosca, ormai, la gente continuava a muoversi e a camminare senza chiedersi il perché, senza alcun motivo, conservando le vecchie abitudini, ma senza rendersi conto di quello che faceva.
Quando, con la dovuta cautela, fu annunciato a Napoleone che Mosca era vuota, egli guardò con ira colui che gli dava la notizia e, voltandogli le spalle, continuò a camminare su e giù in silenzio.
«La carrozza,» ordinò.
Si sedette in carrozza accanto all’aiutante di servizio e si recò al sobborgo.
«
Moscou déserte. Quel évenement invrainsemblable,» diceva fra sé.”
E, con stile ovviamente assai diverso, non trovo meno geniale, efficace e “definitiva” la feroce ironia con la quale i Monty Python riassumono in poche battute la storica attitudine dei progressisti rivoluzionari di spaccare il capello della “purezza ideologica”, attitudine assai più forte delle azioni pratiche in favore di quelle masse per le quali proclamano di battersi. La scena è in un film quasi tutto memorabile come Brian di Nazareth. Chi, come me, ha frequentato la sinistra italiana degli anni ’70 (mamma mia!: del secolo scorso!) , soprattutto quella cosiddetta “extraparlamentare”, non potrà non riconoscere, per sempre, la verità raccontata dallo storico gruppo inglese. Sarebbe bello, anche in questo caso, avere l’onestà di dire che certe attitudini mentali non sono però sparite nei decenni successivi.

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La sinistra che mi va stretta

Immagine di Lenin durante un comizio

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 02/01/2015 nel sito antoniomessina.it]
Riferito al mondo delle idee politiche, il termine “sinistra” è divenuto quasi inservibile per quanto è stato esteso o compresso, tirato da una parte o dall’altra, piegato agli scopi più diversi da un gran numero di persone che, senza neppure dover scavare molto, si scopre che condividono poco o nulla su che cosa sia giusto per il consorzio umano. Nonostante questo, nell’opinione comune rimane viva la vaga sensazione che sia “di sinistra” difendere i diritti dei lavoratori e preferire il “progresso” alla “conservazione” (salvo non precisare più di tanto in che cosa consistano concretamente l’uno e l’altra).
Quando, appena ragazzo, iniziai a interessarmi dei problemi del mondo, fu a “sinistra” che pensai di trovare l’abito della mia misura. Dopo quarant’anni, quell’abito ho cominciato a sentirmelo un po’ stretto. Provo a dirne i motivi dopo aver avvertito, peraltro, che mi riferirò volutamente a un’accezione amplissima del termine “sinistra”, senza addentrarmi nelle mille sfaccettature che distinguono, tanto storicamente quanto al giorno d’oggi, i suoi interpreti italiani dagli anni Settanta in poi.
Una prima idea che mi va stretta è la centralità del lavoro che, immediatamente, diventa centralità della produzione, con quel che segue in termini di modello sociale, sfruttamento di risorse e via dicendo. A mio avviso, questa idea sta alla base dell’incapacità, da parte della sinistra, di assumere integralmente nel proprio bagaglio le tematiche ambientali, così essenziali da affrontare per definire un’idea di futuro equo e sostenibile. Come se non bastasse, la sinistra ha spesso visto le scelte di tutela dell’ambiente come alternative o addirittura in contrasto con la tutela del lavoro dimostrando, una volta di più, di non aver compreso i termini del problema. Lo schema della sinistra, così, spesso è stato il seguente: i posti di lavoro vanno salvaguardati; se si inquina, pazienza; se bonificare è costoso e il privato non se lo può permettere, intervenga lo Stato perché i posti di lavoro vanno salvaguardati. Che quel lavoro, e il prodotto che ne deriva, siano insensati economicamente e insostenibili ambientalmente, poco conta, perché i posti di lavoro vanno salvaguardati.
Una seconda idea che mi va stretta è la centralità dei lavoratori. I lavoratori sono importanti ma la loro non è l’unica categoria (tanto sociale, quanto interpretativa) su cui fa perno la comunità delle persone. Se si può opinare sulla validità teorico-operativa della categoria dei “poveri” cara al pensiero cattolico, per esempio, dovrebbe raccogliere maggiori consensi, a mio parere, la categoria “persone” o, provando a focalizzare un po’, quella di “soggetti deboli”. Viceversa, nella mia esperienza ho incontrato spesso una “sinistra” che organizzava scioperi di chi lavorava e reclamava il lavoro per chi non l’aveva; non ho incontrato mai, o quasi, una sinistra che organizzava gruppi di acquisto o reti solidali dedicate alle persone anziane, ai ragazzi che avevano bisogno di un doposcuola, ai disabili o ai senza tetto. Volendo forzare un po’ l’immagine, la sinistra si è occupata dei lavoratori e si è dimenticata delle loro famiglie.
Le modeste riflessioni che avete appena letto sono figlie della mia esperienza di questi ultimi anni, fortunatamente ricca di momenti schierati, partigiani, concreti e trasversali. Sia nel Gruppo di Acquisto Solidale a cui partecipo, sia nella rete dei soci di Banca Etica di cui mi onoro di far parte, infatti, convivono persone dalle storie politiche e personali più diverse. Queste persone, tuttavia, riescono a incontrarsi sul terreno comune delle azioni a difesa della dignità delle persone e a sostegno della loro possibilità di esprimersi e realizzarsi. Più in generale, queste persone si ritrovano nel provare a disegnare un’idea di futuro sostenibile ma ancor più, se possibile, a praticare già oggi quell’idea di futuro.
Non dubito che, fra le autoproclamate persone “di sinistra”, in molti storceranno il naso e, chissà con una punta di disprezzo, mi diranno che quel che dico non basta e addirittura è grave, perché non mette in discussione “i rapporti di forza” o perfino il “modello di società capitalista”. Per questo primo articolo del 2015, però, ho già scritto molto. Replicherò alla critica in un’altra occasione, prima o poi. Buon anno a tutti.

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