Nelle maglie del mio sito c’è un foro (stenopeico)

Rappresentazione del funzionamento del foro stenopeico

[Articolo pubblicato, con lievi differenze, per la prima volta il giorno 16/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Seguendo i consigli dei miei tre “angeli custodi” informatici, cioè Antonio Bonacchi, Alberto Balducci e Michele Catozzi, dall’inizio di questo mese di luglio 2013 sono tornato a avventurarmi nella rilevazione statistica degli accessi al sito www.antoniomessina.it.
La prima curiosità che mi son voluto togliere è stata quella relativa al totale giornaliero dei visitatori “unici”, cioè quante persone hanno visualizzato, di giorno in giorno, una o più pagine del mio sito.
Non mi aspettavo di sicuro grandi cifre, tuttavia la decina di persone che (in media!) passano ogni giorno da antoniomessina.it mi pare che possa giustificare la facilità con la quale ho tenuto a freno grida di gioia, salti ed altre consimili manifestazioni di esultanza.
Superata la lieve delusione, ignaro di quel che mi preparava l’avvenire, mi sono voluto togliere un’altra curiosità: quale pagina del sito aveva attirato di più l’attenzione? Un articolo del blog? Un racconto? La presentazione dell’ultima stesura del mio romanzo Un anno a Mussulmano?
Ebbene: grazie al sofisticato programma che elabora le statistiche degli accessi al sito posso rendere noto che oltre il 49% dei visitatori ci è finito cercando notizie sulla macchina fotografica a foro stenopeico. Dunque non per un mio racconto, non per un mio romanzo, non per una mia poesia e neppure per i racconti, i romanzi e le poesie scritti da altri autori che ho, con piacere, ospitato nel mio sito. No, la metà dei visitatori finora registrati è finita nel sito per errore e cercando tutt’altro che letteratura o opinioni di argomento cultural-politico. Cercava, trovandole, informazioni sulla macchina fotografica a foro stenopeico. Grazie alla pagina redatta dal mio amico Pasquale Aiello (la trovi cliccando qui) si può perfino sapere come costruirsene una da soli, usando materiali che ci si può procurare facilmente e sostenendo costi prossimi allo zero.
Smaltita la delusione e concluso l’esame delle mie statistiche, la domanda che più mi è ronzata in capo è stata questa: chi avrebbe mai detto che ogni giorno cinque o sei persone cercano informazioni sul foro stenopeico? E soprattutto: cosa mai vorrà dire “stenopeico”?

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Un fotogramma dal film The Van (1996, regia di Stephen Frears), tratto dall’omonimo romanzo, del 1991, di Roddy Doyle

[Articolo pubblicato, con lievi differenze, per la prima volta il giorno 10/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Alle elezioni politiche dello scorso febbraio un quarto degli aventi diritto ha scelto di non votare. Se esistesse un partito degli astensionisti, perciò, attualmente sarebbe la forza più consistente nel panorama politico italiano. Naturalmente è impossibile ricondurre la decisione di non votare di quasi dodici milioni di persone ad un unico denominatore. Ognuno avrà avuto le sue ragioni.
A ridosso delle elezioni mi venne da pensare che l’astensione dal voto (scelta legittima e anche da me lungamente praticata) ha una valenza positiva quando non è astensione dalla partecipazione alla vita della comunità. Non credere a partiti e istituzioni fino a decidere di non partecipare al rito stanco del seggio elettorale, cioè, ha valore culturale e sociale se si contribuisce in altra forma, e poco importa quale, alla “conversazione” e al soddisfacimento dei bisogni presenti nel piccolo o grande ambiente in cui viviamo. Altrimenti si tratta di cose diverse ma tutte ugualmente negative: indifferenza, inerzia, ignoranza.
La modesta riflessione post-elettorale mi è tornata in mente e ha trovato, secondo me, conferme dopo aver partecipato a due eventi culturali in quel di Pesaro, di assai diverse portata e partecipazione: il festival Popsophia e la sesta “Maratona di lettura” organizzata dalla Biblioteca San Giovanni.
Popsophia è un festival che nei cinque giorni della sua durata ha proposto in serie una sorta di talk show filosofico. Nella sua modalità di svolgimento tutto richiamava la televisione e i suoi programmi: le poltrone e il divano collocati sul palco; il megaschermo che ripropone le immagini di chi davanti a te ti sta parlando; il pubblico in posizione di spettatore passivo, separato, chiuso in sé stesso e nella sua isolante attività di ascolto. Stando alla mia esperienza diretta, è perfettamente credibile la notizia che Popsophia abbia richiamato in media circa quattromila persone al giorno.
Popsophia 2013 si è svolta dal 3 al 7 luglio. Il 9 seguente, invece, la Biblioteca San Giovanni di Pesaro organizzava la sua sesta maratona di lettura. La piccola condizione posta ai lettori era che il brano scelto fosse da un libro che avesse avuto una versione cinematografica. Io ho letto da Due sulla strada, di Roddy Doyle. Gli altri undici hanno variato molto: da Susanna Tamaro a Luciano Bianciardi, da Alessandro Manzoni a Dacia Maraini, da Umberto Eco a Michail Bulgakov e così via. Un’occasione piacevole, ma rimane il fatto che abbiamo letto in dodici, e poco più ad ascoltare e basta.
Ovviamente, pur trattandosi di due eventi entrambi di carattere culturale, non è neppure immaginabile una realtà rovesciata, con mille persone a leggere e una dozzina ad ascoltare Marc Augé. Tuttavia rimangono significativi lo straordinario scarto numerico ed il fatto che le persone accorrano in massa dove sono soltanto spettatrici, lasciando a un’esigua pattuglia di appassionati il luogo pubblico della partecipazione.
Insomma, sono tempi difficili e non soltanto per la crisi economica che ci attanaglia. Anzi, proprio questa crisi sta evidenziando come il cosiddetto tessuto sociale sia intriso di passività, all’apparenza privo della capacità di reagire a circostanze alle quali sembra assistere come se non lo riguardassero, seduto sul divano davanti all’ennesimo programma, sempre interrotto dalla pubblicità.
Alle elezioni politiche di febbraio 2013, insomma, si astennero undici milioni di persone, alla maratona di lettura si è astenuta una città. Le due cose non c’entrano fra loro? Per me sì o, quanto meno, sono un segnale leggibile dello stato attuale delle cose. Stato che non è bello ed io, per consolarmi, ricorro ancora alle storie dei miei libri che qualche volta provo a condividere. Della mia prima maratona di lettura alla Biblioteca San Giovanni ci sono tracce in Rete. Non sono quel che si definisce un fine dicitore, ma il testo supera i miei inciampi.
Buon ascolto, e buon futuro.

Antonio Messina legge, non bene ma con sincera riconoscenza per l’autore del romanzo, l’incipit de Il profumo, di Patrick Süskind
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Enrico Letta nel furgone

[Articolo pubblicato con lievi differenze per la prima volta il giorno 04/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
In un gradevole libretto di Alan Bennet, da me sfogliato ormai dieci anni fa, lessi con grande divertimento questo passaggio:
“Sapevo che aveva investito dei soldi presso la Abbey National, i cui dépliant multicolori mi arrivavano periodicamente con la posta, pieni di famigliole felici che varcano la soglia della loro casa per cominciare una beata vita di mutui.” (BENNET, Alan, La signora nel furgone, Milano, Adelphi, 2003, p. 76)
La Abbey National è una banca inglese specializzata nei mutui immobiliari. Per qualche anno operò anche in Italia e, a dirla tutta, uno dei due motivi per cui il passo di Bennet mi divertì era che anch’io (prima che nascesse Banca Etica!) mi ero indebitato con la Abbey. Il secondo motivo era l’immagine evocata. Si tratti di mutui, finanziamenti o cessioni del quinto dello stipendio, infatti, le foto che appaiono nei pieghevoli pubblicitari delle società finanziarie mostrano sempre persone o addirittura famiglie intere inspiegabilmente felici, con denti bianchissimi mostrati fino ai molari, per il fatto di essersi indebitate un altro po’.
Il passo di Bennet è riaffiorato alla mia memoria dopo aver letto le reazioni entusiastiche del Presidente del Consiglio Enrico Letta alla notizia che l’Unione Europea considererà (parola di José Barroso, Presidente della Commissione Europea) “di consentire deviazioni temporanee del deficit strutturale dal suo percorso verso l’obiettivo di medio termine”. Tradotto: a certe condizioni, gli Stati potranno spendere soldi per realizzare investimenti pubblici con impatto provato sulle finanze pubbliche.
Premesso quanto sopra, sono qui a chiedere aiuto a chiunque sappia darmelo rispondendo a queste domande:
1) Enrico Letta lo sa che il debito pubblico italiano ha superato i 2.041 miliardi di euro?
2) Enrico Letta ha capito che quando si parla di “impatto provato sulle finanze pubbliche” si intendono investimenti che migliorino lo stato delle finanze pubbliche e non certo, per esempio, la spesa senza ritorno per l’acquisto di navi e bombardieri militari?
3) Enrico Letta, si tratti di comprare aerei da caccia, traforare la Val di Susa o, con inspiegabile rigurgito di buon senso, migliorare l’efficienza energetica degli edifici, è a conoscenza del fatto che per spendere soldi bisogna averne? (vedi quesito 1)
4) e soprattutto: in una situazione come quella dell’Italia, si può sapere che cosa ha da ridere Enrico Letta?
Attendo risposte, grato in anticipo a chi vorrà darmene.

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Restare umani per non morire soli


Una delle cartoline distribuite clandestinamente dai coniugi Hampel. Il testo tradotto è: “Stampa libera! Lontani dal miserabile sistema di morte di morte di Hitler! Il soldato di basso rango Hitler e la sua banda ci stanno precipitando nell’abisso! A questa banda Hitler Göring Himmler Goebbels dovrebbe essere concesso lo spazio per morire nella nostra Germania!
Nota: l’espressione “lo spazio per morire” allude all’idea nazista di “spazio vitale”, premessa della politica espansionistica tedesca degli anni Trenta e Quaranta del Noivecento

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 03/07/2013 nel sito antoniomessina.it]
Mentre il debito pubblico italiano stabilisce un nuovo record di mese in mese (e il record, va da sé, è negativo, con l’ultimo dato diffuso da Banca d’Italia che lo quantifica in 2.041,3 miliardi di euro) trovo ancora la forza di dedicarmi con passione alla lettura. Ed è ancora Hans Fallada a regalarmi un libro di intensità e verità commoventi.
Ognuno muore solo (Palermo, Sellerio, 2010, pp. 740), ispirandosi alla vicenda reale dei coniugi Otto ed Elise Hampel, racconta la storia di Otto Quangel e sua moglie Anna, una coppia tedesca che perde il figlio militare nella Seconda Guerra Mondiale. Il dolore innesca una presa di coscienza più umana che politica rispetto all’insensatezza della guerra, all’inutilità del sacrificio di tante vite imposto dal regime nazista. La reazione emotiva e morale dei due coniugi si incanala in una singolare, modesta, ma comunque rischiosa forma di resistenza: lasciare in vari punti della città delle cartoline postali contenenti critiche al regime e incitamenti a contrastarlo.
La semplicità, il tono e la pulizia dello stile di Fallada finiscono quasi col mascherare la grandiosità della vicenda, la grandezza dei suoi protagonisti e la ricchezza dell’affresco disegnato dallo scrittore, rischiando di non far capire che ci troviamo di fronte a un libro che, se non è un capolavoro, è molto vicino ad esserlo.
Fallada (che in questo mi ha ricordato il miglior Simenon) descrive precisamente gli stati d’animo dei personaggi, è credibile quando racconta come essi modifichino il loro abito mentale, è vero (oltre che verosimile) quando ci mostra come, alla fine di tutto, anche il cambiamento più profondo non può farci sfuggire del tutto a noi stessi, alla nostra natura più intima e radicata. Nell’epilogo tragico del racconto di Fallada, così, lo straordinario e commovente resoconto degli ultimi pensieri di Otto Quangel prima di essere decapitato mi ha ricordato uno degli sguardi cinematografici che più si sono impressi nella mia memoria: quello di Donald Sutherland (nel film: Benjamin du Toit) alla fine del film Un’arida stagione bianca, drammatica storia nel Sud Africa ai tempi della discriminazione razziale. Sia le pagine di Fallada, sia l’interpretazione di Sutherland, infatti, raccontano con efficacia emozionante la necessità interiore che alcuni esseri umani hanno di rimanere umani anche quando intorno tutto è malvagità. Ma raccontano anche, con duro realismo, come quella necessità interiore possa rendere quasi incapaci di considerare l’ipotesi che per altri esseri umani sia diverso. E questo, quando si tratta di combattere, colloca inevitabilmente in una posizione svantaggiosa.
(Nota editoriale: aigredoux.it riconosce i diritti sull’immagine a corredo di questo articolo, prelevata a questo URL: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Hampel_postcard.jpg)

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Il pubblico televisivo del Movimento 5 Stelle

Il deputato pesarese Andrea Cecconi

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 25/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
In due articoli apparsi in questo mio blog ho considerato, interrogandomi sulla loro reale efficacia, due idee (l’impignorabilità della prima casa e la cittadinanza per nascita) del Movimento 5 Stelle che si sono già tradotte in altrettante proposte di legge. Con spiegabile interesse, così, lo scorso 21 giugno a Fano, nelle Marche, ho assistito a un incontro col deputato del Movimento Andrea Cecconi.
L’incontro era stato convocato per far conoscere l’attività parlamentare del Movimento 5 Stelle senza il filtro di stampa e televisione, cioè di quei media che, fino adesso, si sono occupati poco o nulla delle sue proposte e moltissimo dei toni di Beppe Grillo, delle a volte comiche incertezze nella condotta dei neo-eletti del Movimento e delle loro divisioni interne sfociate nella fuoriuscita, spontanea o forzata, di alcuni componenti dai gruppi parlamentari del M5S di Camera e Senato.
Prima dell’incontro, a tutto il pubblico era stato distribuito un volantino che citava il dato numerico (248) delle mozioni, risoluzioni, interpellanze e interrogazioni e che elencava le 22 proposte di legge presentate dal Movimento in questi primi quattro mesi scarsi di legislatura. Le proposte di legge riguardano argomenti di importanza a volte notevole e, almeno alcuni, di grande impatto potenziale sulla vita dei cittadini: dal reddito minimo garantito all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti; dalla reintroduzione del voto di preferenza all’impignorabilità della prima casa; e così via.
Andrea Cecconi mi ha fatto una buona impressione e ha risposto con grande disponibilità alle domande del pubblico. Ma scrivo questo articolo proprio per parlare del pubblico e, a dirla tutta, anche del gruppo fanese del Movimento 5 Stelle. È stato inevitabile notare infatti, sia la grande influenza che ancora hanno sul pubblico giornali e televisioni, sia che da questa influenza non riesce a sottrarsi neppure chi critica ogni giorno questi media, la loro predilezione per il pettegolezzo, il loro modo di travisare le notizie quando non di evitare affatto di darle.
Io non ho la televisione. Prima dell’incontro, trasmessi dagli organizzatori dell’incontro mentre attendevamo l’arrivo di Andrea Cecconi, mi sono dovuto sorbire tre monologhi estratti dal programma Ballarò mentre lo stesso giorno, per dire, i capigruppo del Movimento alla Camera e al Senato avevano diffuso un video con il resoconto della loro attività nell’ultima settimana. Quando ha potuto rivolgere delle domande, poi, il pubblico è intervenuto o ha chiesto chiarimenti sui toni di Beppe Grillo, sulle a volte comiche incertezze nella condotta dei neo-eletti e sulle divisioni interne sfociate nella fuoriuscita, spontanea o forzata, di alcuni componenti dai gruppi parlamentari del M5S di Camera e Senato.
L’agenda dell’incontro, a farla breve, l’hanno dettata più Repubblica e il TG1 che gli iscritti, i simpatizzanti e i semplici curiosi del Movimento 5 Stelle. Il che conferma di nuovo, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la strada per cambiare davvero è lunga, ripida e pure un po’ sconnessa.

Nota del 19/07/2018: A conferma della fallacia di cui possono essere vittime le prime impressioni o, comunque, di quanto possano cambiare le persone, Andrea Cecconi ha poi ripercorso in proprio lo stesso itinerario seguito dai parlamentari ex Movimento 5 Stelle e “attaccati ai soldi” che criticò nell’incontro di cui parlo nell’articolo. In particolare, diversamente da come si era impegnato a fare, si scoprì che Cecconi simulava soltanto la restituzione (a cui si erano impegnati i parlamentari del Movimento 5 Stelle) di una parte dell’indennità percepita come parlamentare. Poiché la cosa emerse dopo che già erano state depositate le liste elettorali, Cecconi si impegnò a dimettersi in caso di elezioni, dimissioni che poi non ha presentato preferendo rimanere parlamentare e sparire dai radar dell’informazione, intascando l’indennità e guadagnando, in caso di legislatura di durata completa, quanto non avrebbe mai potuto col suo lavoro da infermiere.
Nel momento in cui scrivo questa nota, Andrea Cecconi è deputato, membro della XII Commissione Affari sociali della Camera, iscritto al gruppo parlamentare Misto – Movimento Associativo Italiani all’Estero.

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Prima che se ne vada

Nelson Mandela (1918 – 2013)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
È di questi giorni la notizia di un aggravarsi dello stato di salute di Nelson Mandela. Citando un amico di Mandela, un quotidiano sudafricano ha titolato: “È tempo di lasciarlo andare”. Prima che se ne vada, e prima dei fiumi d’inchiostro che saranno versati alla sua morte, vorrei scrivere io appena un paio di cose.
Mandela è l’uomo dell’uscita pacifica dagli anni bui della segregazione razziale in Sud Africa. A un tale esito, tanto mirabolante quanto non scontato, è arrivato attraverso un percorso che ha sempre preteso il riconoscimento della verità. Col nemico si può anche trattare, ma il nemico deve riconoscerti come interlocutore alla pari.
Di Mandela si ricordano sempre i ventotto anni di detenzione, ma mai che fu a capo dell’Umkhonto we Sizwe, la formazione armata di fiancheggiamento dell’African National Congress. Mai un attentato contro le persone, ma molti contro strutture e installazioni.
Di Mandela si ricorda il premio Nobel condiviso col presidente sudafricano Frederic de Klerk, ma mai che la sera, a un ricevimento con oltre 150 fra capi di stato o di governo e diplomatici, Mandela riferì i dettagli più orribili su ciò che veniva fatto ai prigionieri del carcere di Robben Island, compreso l’interramento fino al collo, con le guardie che poi urinavano sulla testa del prigioniero. E dopo aver riferito queste cose, Mandela concluse: “Ecco, qui ci sono le persone che rappresentavano quel sistema”. La mattina, ricevendo il premio, de Klerk aveva ricordato che c’erano stati “errori da entrambe le parti”.
Mandela ha saputo guardare avanti senza dimenticare. Ogni perdono è forse possibile ma, sempre, se si rinuncia a mistificare, ammettendo ciò che si è fatto e ciò che si è stati.

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La gente comune che sterminò gli ebrei

Soldati tedeschi tagliano i capelli a un ebreo prigioniero nel campo di concentramento di Bergen-Belsen

[Articolo pubblicato, in forma quasi identica, per la prima volta il giorno 16/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
A distanza di 17 anni dalla sua prima uscita negli Stati Uniti, e di 16 dalla pubblicazione in Italia, ho letto anch’io I volonterosi carnefici di Hitler (Milano, Mondadori, 1997, pp. 636) di Daniel Jonah Goldhagen, un saggio divenuto celebre per le conclusioni, di cui dirò più avanti.
L’opera di Goldhagen esamina la vicenda dello sterminio degli ebrei fra il 1941 ed il 1945 da un’angolazione particolare. Secondo le stime più prudenti (forzatamente approssimative) in quel breve periodo i tedeschi (non sempre da soli) sterminarono oltre cinque milioni di ebrei. Un’operazione di tali dimensioni doveva necessariamente coinvolgere un numero elevatissimo di persone, direttamente o indirettamente. Dunque, posto che la teorizzazione dello sterminio e la sua organizzazione sono imputabili ai vertici dello stato e del partito nazista, la sua realizzazione pratica richiese e trovò la collaborazione attiva di migliaia di tedeschi comuni.
Dopo che molti si erano dedicati a studiare come e perché vennero dati gli ordini, così, Goldhagen prova rispondere alla domanda forse più drammatica: perché migliaia di persone ordinarie, operai, impiegati, padri di famiglia, si resero disponibili a eseguirli? Una domanda che diviene ancora più ingombrante quando si osserva, come risulta dalle ricerche di Goldhagen, la varia estrazione sociale degli esecutori materiali dell’Olocausto, il fatto che per la maggior parte non fossero neppure iscritti al Partito Nazionalsocialista, o la circostanza che le squadre incaricate degli eccidi fossero formate da volontari (una circostanza che appare più gravida di significati quando si apprende che, a quanto risulta, si poteva chiedere l’esenzione da quel tipo di missioni senza dover subire particolari conseguenze).
Le fonti per una ricerca del genere sono in buona parte rappresentate dalla documentazione deliberatamente omissiva degli organismi incaricati dello sterminio, dalle dichiarazioni degli imputati nei processi del dopoguerra (ovviamente mirate anche a limitare la portata e la consapevolezza delle proprie azioni), oltre che dalla pubblicistica dell’epoca. Goldhagen si muove su tale terreno sconnesso cercando di colmare deduttivamente le lacune informative mantenendo coerenza e igore interpretativo. Le sue conclusioni sono che nella Germania nazista si combinarono in modo unico questi elementi: l’antisemitismo eliminazionista che permeava l’opinione pubblica tedesca; la presa del potere da parte di un partito che fin dalla sua nascita aveva dichiarato la sua ferma volontà di risolvere la “questione ebraica”; la presenza della condizione materiale necessaria, cioè il controllo militare su un’area vasta dell’Europa e, conseguentemente, sui milioni di ebrei lì residenti.
Fra le molte annotazioni del libro, qui, per le riflessioni che può suscitare anche rispetto all’oggi, ricordo soltanto quella relativa alla percezione degli ebrei da parte della gente comune. Tale percezione fu il risultato di una propaganda secolare dato che la furia nazista seguì temporalmente le invettive religiose, tanto della chiesa cattolica quanto di quella protestante. Ma una “questione ebraica”, semplicemente, non esisteva. Tuttavia, sebbene in molte città e villaggi gli abitanti non avessero neppure mai visto degli ebrei, questi erano ritenuti responsabili di ogni nefandezza, portatori di minacce mortali al popolo tedesco. Questo approccio totalmente irrazionale fu la premessa di scelte altrettanto irrazionali fra le quali risaltano, per la loro insensatezza rispetto al contesto dato da una guerra ormai conclusa e perduta, le “marce della morte” con le quali migliaia di ebrei furono condotti senza meta per la Germania, al solo scopo di farli morire di fame e di stenti. L’ultima di queste marce cominciò il 7 maggio 1945, neppure 24 ore prima che il feldmaresciallo Keitel firmasse la resa incondizionata della Germania.
Ogni sintesi, naturalmente, non rende piena giustizia ad un saggio di oltre 600 pagine, nel quale l’autore si impegna ad argomentare ogni affermazione. A lettura ultimata, rimangono la certezza che il libro aiuti a capire e la sensazione che per noi, uomini comuni e di comune buon senso, l’Olocausto rimanga una realtà incomprensibile.

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Il poco tempo che abbiamo per cambiare il mondo

L’economista inglese John Maynard Keynes (1883 – 1946)

[Articolo pubblicato, in forma quasi identica, per la prima volta il giorno 07/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
Lo scorso 2 giugno [2013] mia moglie ha pubblicato sul suo blog un pezzo intitolato Diamoci da fare. A lettura ultimata, fra tanti pensieri una constatazione: invecchiare mi ha reso molto meno “ideologico” di quanto lo fossi a vent’anni. Ho ancora delle idee, e qualcuna è perfino profondamente radicata nel mio animo ma, mentre guardo anche lontano, cerco di non perdere di vista quello che può toccare la mia mano.
Il motivo, credo, è che detesto perdere tempo, perciò desidero essere concreto, cambiando ciò che posso migliorare davvero, rinunciando volentieri a dibattiti oziosi sui massimi sistemi. E siccome invecchio, e il tempo che ho davanti si riduce, eccomi a preferire un passo concreto ai molti discorsi che pure potrei fare.
Se vogliamo, questo mio modo di vedere le cose ha almeno un riferimento autorevole in un vecchio saggio, pensate un po’, sulla riforma monetaria. Molti conosceranno già la frase celebre.
“Nel lungo periodo, probabilmente questo è vero. … Ma per le questioni contingenti, questa del lungo periodo è una guida ingannevole. Nel lungo periodo siamo tutti morti. Gli economisti si pongono un obiettivo troppo facile e totalmente inutile se, nelle stagioni di tempesta, riescono a dirci soltanto che ben dopo che la tormenta sarà cessata, l’oceano sarà di nuovo calmo.” (KEYNES, John Maynard, A tract on monetary reform, London, McMillan and Co., 1924, p. 80).
Non occorre essere ansiosi e tuttavia: diamoci da fare.

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Franca e Modesto, fra lacrime e futuro

Modesto Campos alla Biblioteca San Giovanni di Pesaro, nel 2003

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 01/06/2013 nel sito antoniomessina.it]
Il 29 maggio 2013 è morta Franca Rame, una di quelle persone tanto ricche d’umanità da rendere povera ogni definizione. Era un’attrice, ma non soltanto quello. Una scrittrice, ma non soltanto quello. Un’attivista politica, ma non soltanto quello. E l’elenco, appunto, potrebbe proseguire.
Fino a quando le è stato possibile, Franca Rame si è spesa per gli altri e per le idee nelle quali credeva, con quella passionalità che le aveva permesso di interpretare, accanto ai ruoli che esprimevano la sua cifra più comica, felicemente condivisa col compagno di una vita Dario Fo, personaggi dolorosi con un’efficacia da rendere difficile, almeno a me, sopportare fino alla fine la sofferenza che lei metteva in scena. Mi riferisco, per esempio, al monologo in cui interpreta la vedova ormai pazza di un contadino siciliano, ucciso dalla mafia per aver guidato con successo la lotta per ottenere l’acqua necessaria ad irrigare le terre.
Il 31 di maggio, con gli occhi umidi dopo aver ascoltato Dario e Jacopo Fo manifestare il loro amore per Franca, con mia moglie ho partecipato a un incontro con Amilcar de Jesùs del Aguila Mejia. Amilcar è un contadino guatemalteco. Più esattamente, un coltivatore di caffè. Da qualche tempo, Amilcar è anche il presidente dalla cooperativa Nueva Esperanza, della comunità di El Bosque, nel municipio di Santa Cruz Naranja.
Io di caffè ne consumo poco, mescolato col latte della colazione mattutina. Quel poco, dal 2003 è quello prodotto da El Bosque. Ne scoprimmo la bontà dopo aver partecipato a un’altro incontro, quella volta alla biblioteca San Giovanni di Pesaro. A raccontare la vita a Santa Cruz e il lavoro della cooperativa il presidente di allora, Modesto Campos. Se Amilcar ha l’aspetto paffuto e sorridente di una brava persona, Modesto era evidentemente, perfino nel modo di portare il sombrero, una persona dotata di un forte carisma personale.
Dopo l’incontro del 2003 ci fu un giro di caffè per tutti. Dopo l’incontro di ieri, invece, chi voleva poteva partecipare a una cena di sostegno alla cooperativa. La produzione di caffè, infatti, quest’anno sarà inferiore di quasi la metà a causa di una malattia che ha fatto morire un gran numero di piante che, dunque, dovranno essere sostituite.
A fine cena siamo andati a salutare Amilcar. Mia moglie gli ha raccontato di come, nel 2003, scoprimmo il caffè di El Bosque, e dell’incontro con Modesto. A quel nome, un velo di tristezza ha attraversato gli occhi di Amilcar.
Franca Rame e Modesto Campos neppure si conoscevano ma, a parer mio, erano fatti un po’ della stessa pasta, quella che inumidisce gli occhi di chi non li ha più accanto ma tenta ogni giorno, consapevole di non volare alla loro altezza, di proseguire il viaggio.

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I miei curiosi incroci fra finanza etica e reparto pediatria

Ritratto del predicatore Michele Carcano (1427 – 1484)

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/05/2013 nel sito antoniomessina.it]
Certi incroci delle nostre vite sono così articolati da suscitare un moto inevitabile di sorridente stupore. Ecco quel che mi sta capitando in questi giorni.
Da bravo socio attivo, nonché azionista, parteciperò alla prossima assemblea nazionale di Banca Etica (a Firenze, sabato prossimo 18 maggio). A questa assemblea, per la prima volta, parteciperanno i soci della “quinta area”, cioè i soci spagnoli che si affiancano a quelli delle quattro aree italiane (Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud).
Da bravo lettore, nella mia borsa non manca mai un libro. In questo periodo sto leggendo un saggio intitolato I volonterosi carnefici di Hitler. La prima parte del libro è dedicata anche a come si è formata l’opinione comune dei tedeschi sugli ebrei. A tale opinione (negativa oltre ogni misura) si associarono anche le chiese tedesche del tempo, tanto cattolica quanto protestanti.
Da bravo appassionato di finanza etica, ieri ho sfogliato subito il numero appena ricevuto della rivista Valori, promossa da Banca Etica. Nell’editoriale leggo che l’attuale esperienza della Banca ha precedenti storici nell’attività dei frati francescani che, nel XV secolo, promossero in Spagna le Arcas de Misericordia e in Italia i Monti di Pietà. Questi istituti erogavano prestiti di modesta entità in cambio di un pegno, che si poteva riscattare alla scadenza stabilita.
La soluzione operativa escogitata dai Monti di Pietà per venire in soccorso dei poveri nasceva anche per superare il rifiuto cattolico del prestito a interessi. Tale tipo di prestito, a volte spinto fino all’usura, era invece lecito e praticato dagli ebrei. Questi ultimi, perciò, erano assai mal visti sia perché operavano in un modo che i cattolici consideravano moralmente spregevole, sia perché si ricorreva a loro quando la persona era in difficoltà. Nell’opinione comune, dunque, l’ebreo era un essere immorale che speculava sulle disgrazie altrui.
Fra i francescani più impegnati nella istituzione dei Monti di Pietà scopro che vi fu Michele Carcano. A Firenze (dove sabato prossimo si svolgerà l’assemblea di Banca Etica), nel 1493 fu vietato a frate Carcano di proseguire la sua predicazione a causa delle violenze sugli ebrei che essa aveva provocato.
Oltre che dedicarsi al sostegno economico ai poveri, Michele Carcano si adoperò nel campo dell’assistenza sanitaria, in particolare per concentrare in strutture di dimensioni adeguate i piccoli ospedali dell’epoca. Fra queste nuove strutture, l’ospedale Sant’Anna di Como, istituito nel 1468 e dove, 492 anni dopo, sono nato io.
Oltre che il mondo, dunque è piccola anche la storia!

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Meglio solis che male accompagnati

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 12/05/2013 nel sito antoniomessina.it]
In un paese che abolì nel lontano 1977 l’insegnamento del latino dai programmi delle scuole medie, i quotidiani ospitano le fiere dichiarazioni dei contendenti che inalberano le opposte bandiere dello ius soli e dello ius sanguinis. Per intenderci, il paese è lo stesso nel quale fra il 2008 e il 2012 sono aumentati di oltre il 20% i suicidi dovuti a motivazioni economiche (dato fornito dall’Osservatorio nazionale sulla salute) [N.d.A. del 15/07/2019 Lo studio dell’Osservatorio non è più raggiungibile dal link a suo tempo indicato nell’articolo. Il dato sui suicidi per motivazioni economiche è comunque ripreso e confermato da altre fonti attendibili.], e nel quale il Ministro dell’Interno partecipa entusiasta a una manifestazione dove si critica la magistratura (attività, di per sé, più che legittima) perché un pubblico ministero, il tribunale di primo grado e il tribunale d’appello hanno ritenuto una persona colpevole di frode fiscale. Ma tant’è, ai problemi che abbiamo dobbiamo aggiungere, e subito, la scelta del presupposto giuridico per l’attribuzione della cittadinanza.
Secondo lo ius soli, diventa cittadino chiunque sia nato nel territorio dello stato. Secondo lo ius sanguinis, i genitori cittadini trasmettono la cittadinanza al figlio, ovunque sia nato. Così, un bambino figlio di genitori cittadini di un paese dove vige lo ius sanguinis, ma che nasce in un paese dove vige lo ius soli diventa cittadino di entrambi i paesi. A leggere i giornali, non trova sostenitori agguerriti quanto serve per finire in prima pagina lo iure communicatio (cittadinanza trasmessa da un componente della famiglia, per esempio per matrimonio o adozione. Sistema che offre lo spunto al bel film Il matrimonio di Lorna, dei fratelli Dardenne), con il quale si esauriscono i termini latini ma non i criteri di attribuzione della cittadinanza ai quali, per completezza, bisogna aggiungere il beneficio di legge (cittadinanza concessa automaticamente sulla base di presupposti predeterminati dalla legge) e la naturalizzazione (cittadinanza concessa a discrezione dell’autorità, per esempio, per meriti acquisiti).
La cittadinanza, cioè la condizione che permette di godere pienamente dei diritti civili e politici riconosciuto da uno Stato, non è un fatto di natura ma una figlia delle regole, cioè una costruzione della mente umana e, in particolare, del pensiero dedicato alla gestione del vivere sociale. Ogni regola, così, è giusta o sbagliata, efficace o debole, in relazione ai principi scelti e ai risultati che si desidera conseguire. Le condizioni per la concessione della cittadinanza (cioè dei diritti e dei doveri che essa porta con sé) sono perciò più o meno “giuste” in base a quello che si crede e che si vuole ottenere. Così, quel che ancora una volta non mi piace nel dibattito (termine generoso) attuale sulla cittadinanza è l’uso parziale (nel senso di limitato a una parte del tutto) di concetti complessi per battaglie pseudo-ideologiche che di quei concetti riprendono solo una delle molte facce.
Per esempio: alcuni difensori dello ius sanguinis scagliano strali contro lo ius soli sulla base del fatto che quest’ultimo porterebbe in Italia orde di gestanti asiatiche e africane, ansiose di far nascere i loro bebè in talia per poter, fra diciotto anni, alterare i risultati delle elezioni e, da subito, usufruire della nostra superba assistenza sociale e del noto lassismo della pubblica amministrazione. Lo scarso realismo tradotto in una simile paura irrazionale, però, viene contrastato con delle considerazioni ancora più astratte, trasformando lo ius soli in una sorta di procedura automatica di accoglienza dei profughi stranieri, senza alcuna valutazione degli effetti che avrebbe sullo sviluppo demografico dell’Italia, con tutto quel che segue in termini di assistenza sociale, previdenziale e via dicendo.
Mi piacerebbe, cioè, che qualcuno si prendesse la briga di dire quale sarebbe, in pratica, la differenza fra un sistema e l’altro, magari aggiungendo la base di fatto delle valutazioni. Per dire: quanti sono i bambini nati in Italia da genitori stranieri? Perché se sono dieci, o anche cento o mille, i giornali hanno sprecato molto inchiostro, i politici molte parole, e io circa un’ora del mio tempo.
P.S.
La vignetta è di Mauro Biani ed è ripresa da qui.

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Il piccolo trotto dei lipizzani di Frank Westerman

Cavallo lipizzano durante un’esibizione

[Articolo pubblicato per la prima volta il giorno 04/05/2013 nel sito antoniomessina.it]
Nel 1580 l’arciduca Carlo II d’Asburgo raccolse nella cittadina di Lipizza (nel Carso sloveno vicino Trieste) cavalli andalusi e giumente locali per dare vita a una nuova e selezionata stirpe equina che, anche attraverso ulteriori incroci, diventerà il lipizzano, lo splendido cavallo bianco capace di danzare. Un cavallo talmente prezioso da diventare bottino di guerra, protagonista di esodi avventurosi (e raccontati anche dal cinema) per salvare da bombe e razzie i preziosi esemplari che dovevano garantire la continuità della razza, oggetto di furti a fini speculativi e simbolo di riscosse nazionali nei martoriati territori ex jugoslavi.
Nel suo libro Pura razza bianca (Milano, Iperborea, 2010, pp. 371), il giornalista olandese Frank Westerman racconta le notizie e suggestioni accumulate nel corso di una lunga ricerca sulla storia del lipizzano e dei suoi esemplari più famosi. Le linee genealogiche si intersecano con la storia dell’uomo e dei suoi conflitti: bellici, scientifici, etici.
La selezione di un cavallo dalle caratteristiche sempre più uniche, così, è l’occasione per raccontare i trasferimenti forzati dei cavalli per allontanarsi dalle zone di guerra, ma anche le altalenanti fortune, e le conseguenze a volte terribili, delle idee su come si siano naturalmente modificate le specie e, soprattutto, su come si possano modificare secondo uno schema preordinato dall’uomo, ricorrendo a tecniche che spostano sempre di più il confine fra evoluzione e manipolazione.
Il libro è interessante e ricco di informazioni, restituite con uno stile più vicino al reportage che al saggio. Terminata la lettura, tuttavia, rimane la sensazione di una possibilità letteraria parzialmente sprecata. Il libro è scritto in prima persona, raccontando eventi anche assai minuti dell’inchiesta di Westerman (di cui veniamo a sapere, per esempio, che aveva Skype ma non la webcam); la storia dei lipizzani non è resa seguendone in modo rigorosamente cronologico le vicende; gli interrogativi sui confini etici dei processi di selezione della razza umana si alternano alle vicende degli animali in un modo che a volte appare quasi estemporaneo. Così, alla fine della lettura non appare chiaro chi sia il vero protagonista del libro: se l’elegante lipizzano o le domande sull’uomo che ha iniziato a credersi creatore di vita, e ad agire come se lo fosse.

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