C’era una volta Facebook (1) – I miei saluti

Detto in breve, Facebook mi ha definitivamente annoiato. Ne ho sempre fatto un uso che, confrontato con quello più diffuso, era insolito: pochi “amici” e solo se conosciuti in carne ed ossa; uso della bacheca per dare notizie e notiziole su mie vicende personali e solo (molto) di rado per ragionamenti seri o prese di posizione; speranza di avere, tramite il social network, notizie dei miei amici. Con il tempo, Facebook ha reso lo scambio diretto fra persone simile alla ricerca del famoso ago nel pagliaio. Per un po’ ho pensato di essere furbo bloccando i profili più o meno strampalati che, in base a criteri a me sconosciuti, secondo Facebook avrebbero dovuto interessarmi. Ovviamente si è trattato di una gara persa. Dunque, ho alzato bandiera bianca e salutato tutti. Siccome mi dispiaceva perdere materiale frutto, in ogni caso, di un mio piccolo impegno, salverò qui in aigredoux gli interventi sul mio fu-profilo che mi interessano o divertono anche a distanza di tempo.

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“C’è ancora domani”, di Paola Cortellesi

Mi è accaduto spesso di far parte di una minoranza, in qualche caso veramente esigua, ma, a mia memoria, sono state rare le occasioni in cui ho camminato in perfetta e più o meno beata solitudine come sta avvenendo, in questi giorni, in relazione al film C’è ancora domani scritto, diretto e interpretato da Paola Cortellesi. Grande affluenza di pubblico (mentre scrivo queste righe, il film ha già incassato oltre sette milioni di euro), frequenti applausi in sala a fine proiezione, recensioni tutte positive (se ne trovate una negativa, fatemelo sapere) lungo l’arco che va dal pacato apprezzamento all’entusiasmo spinto fino a proporne la visione nelle scuole. Io, viceversa, sono uscito dal cinema quasi irritato da una sceneggiatura “sbagliata” nel suo punto decisivo, oltre che in qualcuno marginale.

Siamo a Roma nel 1946. Delia è moglie serva e vessata dal marito padrone e violento. Madre di tre figli, si arrabatta fra vari lavoretti per portare a casa i soldi che Ivano (il marito padrone, interpretato da un Valerio Mastandrea che non riesce a essere spregevole quanto pretenderebbe il personaggio) spende giocando a carte in osteria. Delia subisce molto ma sopporta tutto anche per amore di Marcella, la figlia fidanzata con un giovanotto, Giulio, di famiglia popolare ma, vista dalla posizione sociale di Ivano e Delia, benestante grazie alla gestione di un bar.
La futura unione fra Marcella e Giulio è apprezzata da Ivano per il tornaconto economico che ne deriverebbe. Delia, invece, sogna la felicità della figlia e, quando si accorge che anche Giulio mostra sintomi da marito padrone, decide che il matrimonio non s’ha da fare. Si colloca a questo punto il primo passaggio non riuscito della sceneggiatura. Per far saltare il matrimonio Delia convince William, un soldato statunitense, a far saltare con l’esplosivo il bar di Giulio. Come lo convinca non è mostrato né è dato sapere e però sorprende, visto che poche scene prima si evidenzia l’insormontabile barriera linguistica fra i due. Inoltre, se è vero che William si prende a cuore Delia vedendo i lividi procurati dalle botte del marito, sembra forzato che, anziché alla protezione di Delia, William si presti a un attentato dinamitardo per rovinare la famiglia di Giulio (che dovrà “tornare al paese”) e quindi cancellare la convenienza del matrimonio. Tutto si può immaginare ma, anche nel contesto del film, l’episodio appare gratuito.

Il passaggio a vuoto più evidente della sceneggiatura, tuttavia, mi è apparso precisamente quello che vorrebbe essere il senso del film, richiamato in modo esplicito nelle didascalie finali. Quella di Delia è una storia di oppressione e violenza. In questo genera di storie gli esiti raccontati sono sostanzialmente due: quelli tragici (la morte, l’impossibilità di riscatto ecc.) o quelli di superamento della propria condizione (il vessato che si ribella e, qualche volta, vince). Ciò che conta, a mio avviso, è che sia chiaro qual è la posta in gioco, l’oggetto del contendere. Di Delia, per intenderci, avrebbe dovuto essere narrato come e perché scatta la reazione, come e perché sceglie quella particolare via d’uscita. Come mi sembra ovvio, inoltre, tale via d’uscita deve essere coerente con i tratti che definiscono il personaggio. C’è ancora domani non fa niente di tutto ciò. Il desiderio di Delia di andare a votare è una carta tenuta deliberatamente coperta fino alla scena finale, perfino depistando lo spettatore lasciandogli pensare che il certificato elettorale sia una lettera di Nino, un amico meccanico e (ancora) innamorato di Delia. In tutto il film non c’è una parola sul referendum fra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946, né Delia lascia intendere perché identifichi proprio nel voto la sua occasione di riscatto. La conseguenza è che la scelta di Delia (andare a votare di nascosto dal marito) risulta un corpo estraneo rispetto alla storia nonché poco emblematica della prima occasione in cui le donne italiane parteciparono a una votazione politica.

Va da sé che una professionista di talento e esperienza come Cortellesi ha disseminato il suo film di momenti ben recitati e, presi a sé, anche riusciti. La spinta a scrivere alcune considerazioni, infatti, non mi è venuta dal fatto che il film sia irrimediabilmente brutto ma da una certa, e per me incomprensibile, atmosfera da film irrinunciabile e importante. Del resto, se bastasse l’importanza dell’argomento a rendere bella un’opera letteraria o cinematografica, il mondo sarebbe pieno di capolavori. Il che non è.

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Costruire una macchina a foro stenopeico

Che cosa c’entra una macchina fotografica a foro stenopeico autocostruita con, a suo tempo, il sito di uno scrittore e ora con questo blog? Forse niente, o forse più di qualcosa se l’autore delle istruzioni, con tanto di foto esplicative, è Pasquale Aiello, amico e già prestigioso ospite della seconda versione del sito antoniomessina.it (quella in linea ad oggi, 16 febbraio 2023, è la terza).
Per leggere le istruzioni di Pasquale Aiello per costruirsi una semplice (dice lui) macchina a foro stenopeico, clicca qui.

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Il Calendario dell’Avvento 1999

Dal 1° al 25 dicembre del 1999, al ritmo di una al giorno, nella versione che il sito antoniomessina.it aveva all’epoca apparvero storie e immagini ispirate al Natale. L’iniziativa ebbe un successo tale da indurmi, alla fine, a desistere dalla prima intenzione di non conservare il materiale che con tanto affetto mi avevano messo a disposizione amiche e amici, spesso elaborandolo appositamente per la mia iniziativa. È utile ricordare che l’amicizia fu anche l’unico criterio selettivo, dato che il mio Calendario voleva essere una sorta di scambio di regali anziché un’antologia artistico-letteraria. Il piacere del ricordo, ancora oggi supera ogni altro argomento e mi induce a conservare ancora, trasferito in questa nuova sede, il Calendario dell’Avvento 1999 e le scherzose note biografiche che presentavano gli autori dei diversi contributi. Di nuovo grazie a tutti loro.

Gli Autori del Calendario dell’Avvento 1999

1° dicembre2 dicembre3 dicembre4 dicembre5 dicembre6 dicembre7 dicembre8 dicembre9 dicembre10 dicembre11 dicembre12 dicembre13 dicembre14 dicembre15 dicembre16 dicembre17 dicembre18 dicembre19 dicembre20 dicembre21 dicembre22 dicembre23 dicembre24 dicembre25 dicembre

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Due scritti di Alessandra Buschi e Raffaella Vicario

Con Alessandra Buschi e Raffaella Vicario accadde di parlare dell’erotismo nella letteratura ma, soprattutto, di come ciascuna di loro aveva provato a renderlo in forma scritta. Il risultato furono un racconto di Alessandra Buschi e cinque testi brevi di Raffaella Vicario. E dunque, buona lettura di Leopardi, di Alessandra Buschi, e di Sensi, di Raffaella Vicario.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 17/01/2001]

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L’aurora di Natale. Una storia illustrata.

Nel 1999, per il Calendario dell’Avvento realizzato per la seconda versione del sito antoniomessina.it, mia sorella Angela scrisse il racconto L’aurora di Natale. Dopo qualche tempo, alla storia si aggiunsero le illustrazioni realizzate da mio fratello Gianpaolo. Ripropongo qui storia e disegni.

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Intervista a Alessandra Buschi

Il libro che mi è rimasto in mente” viene proposto come un romanzo ma, in realtà, la struttura è tutt’altro che quella classica della storia con inizio, svolgimento e epilogo. Più che per successione di fatti, cioè, il libro procede per accumulo di riflessioni, spesso non collegate fra loro.

Infatti neanche io saprei dire se questo mio nuovo lavoro sia un vero e proprio romanzo. In realtà per Il libro che mi è rimasto in mente ho lavorato esattamente come per ogni altro mio testo, senza darmi limiti di spazio e di situazioni. Quello che ne è venuto fuori, stavolta, è questo.
Qui la vicenda (che poi è poca cosa, come dici tu) si svolge nell’arco di ventiquattro ore. Il tutto lo vedo come un “contenitore”, una specie di scatola in cui ho raccolto “cose”. La mia speranza è che chi la aprirà sarà contento di trovarvi almeno una sorpresa.

La misura dei tuoi scritti è stata finora quella del racconto (più o meno lungo), una formula espressiva di cui hai sempre rivendicato (anche in una recente intervista) l’importanza e l’attualità. Da cosa è nata, allora, la voglia di misurarsi con una “cosa” più lunga?

Difatti, come ho detto, io non riesco a fare questa distinzione tra Il libro che mi è rimasto in mente e i miei testi usciti in precedenza. Questo mi potrebbe far pensare che alcuni altri miei testi potrebbero allora essere considerati romanzi, soltanto un po’ più brevi, o questo un racconto lungo.

Il libro è uscito a novembre 2000, mentre gestazione e stesura risalgono a molti mesi mesi fa. In generale, fra l’idea di un libro e la sua uscita possono darsi intervalli di lunghezza biblica. A distanza di tempo, quanto ancora ti riconosci nelle riflessioni della protagonista?

Nelle riflessioni della protagonista ancora abbastanza, anche se c’è da dire che ho sempre avuto difficoltà ad emozionarmi in modo esagerato di fronte a un mio libro finalmente edito. Non credo si tratti di poca sensibilità da parte mia, piuttosto del fatto che per me un testo è “finito” quando, rileggendolo, non cambierei più neanche una virgola. Poi, si sa, il tempo che passa tra l’ultima stesura e la pubblicazione non è mai brevissimo, per cui per me avere fra le mani il “prodotto finito” è sì gratificante, ma non in modo particolare. Non mi sento mai distante dai miei testi, neanche dopo tempo; rileggendoli, credo di provare le stesse sensazioni che prova una madre che ha figli ormai grandi: li ama, ma con la consapevolezza che sono diventati altro da lei.

Fra i tuoi lavori letti di recente, la cosa migliore mi è parsa un testo breve intitolato “Io sono Barbara”. Nel tuo libro appena uscito, il momento più sorprendente e efficace è, a mio avviso, l’episodio della telefonata anonima. Questi due brani hanno in comune un senso di inquietudine e mistero che mi pare relativamente nuovo e insolito nei tuoi scritti.

Hai citato due brani che forse hanno in comune una cosa: sono entrambi di pura invenzione. Non so se questo sia un caso. Voglio dire: su Il libro che mi è rimasto in mente il “gioco” sta anche nel fatto che voglio mischiare le carte, far apparire come autobiografici certi particolari che in realtà non lo sono. L’espediente della telefonata è uno di questi momenti che, a mio avviso, risulta interessante proprio per il fatto che, rispetto ad altre situazioni, potrebbe sembrare reale quando invece non lo è.
Anche a me il racconto Io sono Barbara piace; qui la situazione è quasi paradossale: una tizia che vive raccogliendo particolari che altri non vedono, che sente di avere questo ruolo di “raccoglitrice”. Be’: sono contenta che ti sia piaciuto perché racconta un po’ la mia visione del senso acritico, di distacco, che per me uno scrittore deve avere quando riporta sulla pagina ciò che ha “raccolto”.

Pensando ai due brani che ho appena citato (ma anche al dramma profondo reso in un tuo racconto di anni fa, e cioè “Mario il Bini”) si ha la sensazione che questa, di un dolore che oltrepassi la tua persona, sia una direzione di possibile sviluppo della tua scrittura.

Appunto ciò che dicevo prima: la posizione di distacco di fronte ai fatti che deve avere chi scrive. Tutto deve coinvolgerti, ma sempre con la consapevolezza che tu sei un “mezzo”, un “media” che porterà anche il dramma a un lettore. Poco importa se si tratta di un dramma vissuto in prima persona oppure sorto da un’invenzione.

Hai esordito nel 1986 con Transeuropa in una raccolta ripubblicata da Mondadori. Nel ’90 è uscita una tua raccolta di racconti (oggi introvabile) per Il lavoro editoriale. L’editore di “Se fossi Vera” è Fernandel, che adesso fa uscire anche il tuo ultimo lavoro. Pensi di aver trovato finalmente casa?

Intanto vorrei dire che mi piacerebbe vedere ripubblicata la raccolta Dire fare baciare (consideriamolo un appello, quindi…), e questo perché mi sono accorta che chi l’ha letta la ricorda con affetto.
Ho sempre detto che mi piace trovare una casa per i miei scritti. In Fernandel, e in specifico nella persona di Giorgio Pozzi, ho trovato una buona casa per alcuni miei testi, una casa davvero comoda e confortevole. Scegliere di dare a Fernandel Il libro che mi è rimasto in mente è stato per me naturale: non sentivo l’esigenza di cambiare casa, mi stava comodissima quella che avevo appena trovato per Se fossi Vera.
Per me è molto importante il rapporto con le persone, e in Giorgio Pozzi ho trovato una persona amica e molto sensibile ed attenta. E quando una casa la senti amica e vicina, perché trasferirsi, almeno per il momento? Non posso dire di aver trovato una casa in cui abiterò per sempre; questo non lo posso dire perché credo che non si possa dar nulla per scontato nella vita.

Compito in classe. “Commentare questa frase di Hermann Melville: Un libro nella testa d’un uomo è meglio d’un libro rilegato in pelle di vitello. In ogni caso è più al sicuro dai critici”.

Svolgimento. Si tratta un po’ anche del “gioco” che cerco di raccontare nel mio ultimo libro. In realtà io non ho paura della critica, anzi. Diciamo che sono abbastanza consapevole di ciò che potrebbe essere attaccato del mio lavoro di scrittura, ma proprio di questo mi faccio forza. Ho avuto periodi in passato in cui avevo molti dubbi, durante i quali avvertivo questa differenza tra me e gli scrittori che intorno a me emergevano, mentre io rimanevo (e rimango!) nell’ombra. Pian piano ho capito perché; sempre con il tempo, ho acquisito la consapevolezza che mai avrei voluto cambiare il mio percorso per avvicinarmi a qualcosa che rischiava di non farmi vivere la scrittura con felicità. Mi piace mettermi in gioco il più possibile, e quindi è naturale che accetti anche la critica. Il “gioco” implica anche questo.

Da pochi mesi hai una tua libreria in un piccolo centro marchigiano. Visto che Mondadori ha appena lanciato una promozione che recita (giuro!) “un chilo di libri a 9.900 lire”, tu, fatte le debite proporzioni, pensi di venderne un etto a 990?

Su questo sono ferrea e credo di poter parlare anche a nome di Petra, la mia socia in affari: noi i libri al chilo non li venderemo mai. Capirai poi se si tratta di libri scritti da me! E questo per il semplice motivo che il nostro progetto di libreria è proprio impostato sul fatto che vorremmo metterci in contrapposizione alla “macellazione del libro”, ovvero allo smercio dell’oggetto-libro come fosse un qualsiasi altro bene di consumo esposto anonimamente sugli scaffali di un supermercato. Non è positivo il modo in cui il libro viene venduto, considerandolo una merce alla stregua del tubetto di dentifricio o del chilo di patate, al di là del suo valore che, bene o male, preferirei ancora considerare culturale… Senza poi tener conto del fatto che nei grandi magazzini puoi trovare soltanto certi libri e non altri, soltanto quelli delle maggiori case editrici o, meglio, di quelle che hanno più possibilità di operare grossi sconti, libri che vengono sfornati appunto a peso. Il fatto che i libri oggi si possano vendere un po’ dappertutto non significa che il lettore abbia maggiore possibilità di scelta, anzi. Bisognerebbe a questo punto porsi la fatidica domanda: “Pesa più un chilo di libri o un chilo di fieno?”…

Le idee sono molto più veloci delle dita sulla tastiera e tu, davvero come la protagonista del tuo libro, spesso devi sacrificare la tua scrittura ai molti impegni di lavoro e familiari. Tuttavia: che cosa bolle in pentola?

Le solite cose, cioè il lavoro, gli impegni familiari, le amicizie, gli affetti, la scrittura… Cioè: tutto un calderone che, in condensato, è nient’altro che la mia vita. Ho un paio di testi iniziati ma non ancora finiti, e un altro a cui sto lavorando e di cui ho già fatto la prima stesura. Inoltre dovrebbero uscire fra poco alcuni miei testi su varie antologie.

Per finire, pensando nuovamente anche alla tua professione di libraia, quali letture, fra quelle da te fatte ultimamente, ti sentiresti di consigliare ai visitatori del mio sito?

Io sono una lettrice onnivora: leggo un po’ di tutto. Ora poi che ho la possibilità di approvvigionarmi di libri a piacimento, è una pacchia. Testi che consiglierei a un lettore sono L’educazione delle ragazze in Boemia, di Michael Viewegh, e Bambini nel tempo, di Ian McEwan. Di McEwan consiglio anche Il giardino di cemento. Per chi volesse andare un po’ più sul classico ma non troppo (in quanto come invenzione linguistica e stilistica non ha nulla da invidiare a testi più attuali), Natalia Ginzburg, con Lessico famigliare. Tra gli autori giovani consiglierei Paolo Nori. Un libro che ho appena iniziato a leggere ma che “sento” mi regalerà delle sorprese è L’appeso di Claudio Piersanti. Sempre di Piersanti, Luisa e il silenzio, secondo me un testo che, nel suo profondo dramma, non può non rimanere nel ricordo del lettore.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 26/11/2000]

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Intervista a Francesco Angelini

Hyakutake, Hale-Bopp, l’eclissi dell’11 agosto … A volte l’astronomia balza agli onori della cronaca. Per lei, invece, è una passione vera. A quando risale il suo interesse per stelle e pianeti?

Ho cominciato ad interessarmi di astronomia pochi anni fa, in età adulta, perché ho scoperto che attraverso l’astronomia si toccano tanti campi del sapere: innanzi tutto quello più prettamente scientifico dal quale, per le vicende della mia vita, sono rimasto a lungo estraneo. E’ curioso che, insieme all’astronomia, è cominciato anche il mio interesse per l’informatica. Come è iniziato? Semplice: guardando una fotografia di Saturno fatta da mio suocero, un astrofilo tedesco. Forse inconsapevolmente pensavo che fotografie dettagliate di pianeti, ammassi, galassie ecc. si facessero soltanto con potentissimi mezzi in uso negli osservatori dei professionisti, e invece mi resi conto che una semplice macchinetta fotografica avvitata al fuoco di un “telescopietto” era in grado di mostrare dettagli impensabili di oggetti così lontani. Si fece allora strada una seconda riflessione di carattere “filosofico”: guardando il cielo notturno, tanto più si riesce ad andare lontano, tanto più si va indietro nel tempo. Infatti, chi ci dice che tale stella, lontana 15, 20, 30 anni luce, esista ancora nel momento in cui la vediamo? Se esplodesse ora una stella distante 30 anni luce, noi ce ne accorgeremmo fra 30 anni.

Il che può condurre a pensieri sempre più “grandi”.

Dalla filosofia alla metafisica il passo è breve e, con un po’ di fantasia, rincorrendo le enormi distanze dell’universo, si potrebbe arrivare perfino a vedere il Big Bang. E allora i pensieri si intrecciano e coinvolgono anche l’aspetto religioso della nostra esistenza. Mettono seriamente in discussione la presenza di Dio, di un Dio, e le domande sul nostro divenire si moltiplicano.

E scommetterei, a questo punto, che c’è anche dell’altro.

Gli altri aspetti direttamente in relazione con la passione per il cielo sono di ordine più squisitamente culturale: storico e letterario. Gli stessi nomi dei pianeti ci ricollegano all’antichità classica, così come i nomi delle costellazioni più conosciute: Andromeda, Perseo, Pegaso, Ercole ecc. Infine, (ma solo per cercare di sintetizzare al massimo) tale passione ci consente di avere maggiore consapevolezza del nostro “stare” sulla Terra: quanti di noi si rendono veramente conto di “girare” continuamente, di andare a spasso nell’universo? Si potrebbe poi toccare l’aspetto dell’ecologia, quello dell’astrologia, della superstizione, ma il discorso rischierebbe di diventare troppo lungo.

Beh, ad accorciarlo ci pensa lo scarso interesse generale, mi sembra.

Riguardo all’interesse dell’opinione pubblica, questa si accende solo quando ci sono eventi macroscopici. Ma è utile sapere che tutte le notti, nell’universo, avviene qualcosa. Questa notte, per esempio, (l’intervista è stata realizzata alla fine di agosto 1999, N. d. R) con un semplice binocolo si può vedere una cometa simile ad Hale-Bopp. Solo che non si vede ad occhio nudo, dunque non fa notizia.

La prima cosa che scoraggia a diventare astrofilo è che … bisogna perdere delle ore di sonno. Ci sono altri inconvenienti? Ad esempio: si può coltivare questa passione impegnando poche risorse economiche?

Per le ore di sonno perse, si può dire ben poco. C’è chi è disposto ad usarle pensando che non siano perdute, anzi; c’è chi invece preferisce il dolce tepore delle coperte. Inutile, a questo proposito, ricordare il vecchio detto “chi dorme …”. Per la questione economica, credo che oggi si tratti solo di scelta. Il prezzo di una strumentazione soddisfacente oscilla dai 2 ai 4 milioni. Certo, si potrebbe spendere molto di più, ma la seconda cifra indicata è abbondantemente sufficiente per dare tutte le soddisfazioni da rincorrere nell’arco di un’intera vita. C’è chi gira in Ferrari e chi in Cinquecento ma, se funzionano, tutte e due ci portano a Roma.

L’immagine dell’astrofilo è, spesso, quella di un individuo che si estranea dal mondo che lo circonda, più disposto ad avere la testa fra le nuvole (meglio: sopra le nuvole) che ad interessarsi dei suoi simili.

Niente di più sbagliato. L’astrofilo è, al contrario, qualcuno che ha i piedi ben piantati per terra, e con essa gira, cosciente di girare.

L’eclissi recente è stato quasi un avvenimento mondano. Fra i fenomeni meno rari, osservabili nell’arco dell’anno, da quali si sente particolarmente affascinato?

Questa domanda ha senso solo perché abbiamo perduto completamente l’abitudine di alzare gli occhi al cielo (sia di giorno che di notte). Fino al secolo scorso la maggior parte degli avvenimenti della vita dei popoli era regolata dall’avvicendarsi degli astri nel cielo. I periodi di semina, di raccolto, il caldo, il freddo, le ricorrenze, gli anniversari, tutto veniva annunciato dalle stelle. Poi è arrivata la corrente elettrica che ci fa vivere come se la notte non esistesse più. Ben venga la corrente elettrica, intendiamoci, non sono contro il progresso, al contrario. Ma come tutto nella vita, bisognerebbe imparare a dosare, ad usare ciò di cui abbiamo bisogno. Uno dei fenomeni che si verificano con una certa frequenza e che si può osservare agevolmente senza nessuno strumento sono le eclissi di luna. Ce ne sono tante, ma spesso avvengono alle 2 di notte, e nessuno se ne accorge, e la televisione non lo dice. (La prossima ci sarà la notte tra il 20 e il 21 gennaio 2000, verso le 4 di notte e durerà fino all’alba). Oggi ben poche persone sanno che d’estate è visibile la via lattea, quella fascia luminosa che avvolge la volta celeste e che è formata da miliardi di stelle e che è la parte finale di un braccio della galassia alla quale apparteniamo. Un altro fenomeno spettacolare è l’occultazione di stelle e pianeti da parte della Luna. E mi sono limitato a citare solo ciò che si vede ad occhio nudo.

La mia recente passione per la vela mi ha fatto spesso pensare ai marinai dell’antichità, che regolavano la loro rotta seguendo le stelle.

Anche la vela, come l’astronomia, mette la gente a diretto contatto con la natura. A questa domanda ho in parte risposto precedentemente. Vorrei aggiungere che anche io sono molto affascinato dai viaggi in barca a vela, che conosco gente che ha ripercorso la rotta di Colombo e che si vive un sentimento molto strano stando in mezzo al mare con un “legnetto” (termine usato da Boccaccio quando parlava delle navi): da un lato si ha l’impressione di dominare la natura; dall’altro si ha l’impressione che in qualsiasi momento questa ci può schiacciare. E l’unica certezza veniva (e viene) dal cielo stellato.

L’occasione per fare conoscenza ci fu data non dalle stelle, ma dallo spagnolo. Qual è l’aspetto di questa lingua che la affascina di più?

Il primo impatto con lo spagnolo è sicuramente rassicurante. Pur non capendo nulla si ha l’impressione di capire tutto. Questo è ciò che mi affascina di più di tale lingua. Poi, se si ha occasione di frequentare gente spagnola o, ancor meglio, di vivere per un periodo in Spagna, allora ci si accorge che il castigliano è un misto di sostrati arabi e latini, due culture sicuramente a confronto, spesso nemiche, ma che hanno dato tantissimo allo sviluppo dell’umanità.

Un professore che ebbi all’Università, diceva che per un italiano “lo spagnolo è la lingua più facile da imparare male”.

Verissimo. Io stesso, insegnante di spagnolo, mi rendo conto di avere tante interferenze e ciò è dovuto alla prossimità fonetica delle due lingue. Con il francese succederebbe pressappoco lo stesso ma le interferenze sono minori, dovuto alla diversità fonetica. Se prendiamo una frase banale: “la primavera viene cantando”, ebbene questa stessa orazione può essere sia italiana che spagnola, e si pronuncia allo stesso modo (meno la “v” di “viene” che in spagnolo non è labiodentale). Ecco, queste straordinarie somiglianze danno a chi apprende un senso di rilassatezza che alla fine ostacola il corretto apprendimento dell’idioma.

L’insegnamento delle lingue è la sua professione. Fra i tanti che la affliggono, quale ritiene essere il problema più grave della scuola in genere, e dell’insegnamento delle lingue in particolare?

Il male più grande della scuola italiana è che noi italiani non sappiamo distaccarci dalla mentalità umanistica che per secoli è stata imperante nella nostra penisola. Noi riteniamo colta una persona che sa tutto dei classici, che sa chi era Giove, che cita a memoria la Divina Commedia, che elenca le opere di Pirandello. Poco importa, poi, se quella persona non ha idea di cosa sia un impianto idraulico, se per cambiare una lampadina chiama l’elettricista o se, forata una gomma, non sa nemmeno dove si trova il cric.
Altro male della scuola è quello di avere dei programmi che privilegiano l’astratto nei confronti del concreto, dunque è bravo chi, di una frase, sa riconoscere un dativo, meno bravo è quello che una lingua la sa parlare.
Terzo male della scuola è che ancora non si è capito che si lavora in una scuola di massa e che forse contenuti e metodi dovrebbero cambiare in funzione di questa trasformazione. E smetto qui perché il discorso non avrebbe mai fine.

Il caso ha voluto che facessimo conoscenza a ridosso dell’intervento “militare umanitario” in Kossovo. Entrambi eravamo schierati contro. I suoi motivi quali erano?

 Da una decina di anni a questa parte anche l’Italia è interessata dal fenomeno dell’immigrazione, dalla presenza dei cosiddetti “extracomunitari”. Ebbene, immaginiamo che in Sicilia si insedi un cospicuo nucleo di albanesi e che, con il tasso di natalità che diminuisce continuamente, da qui a 300 anni questa comunità diventi maggioranza etnica nell’isola e che chieda l’indipendenza. Cosa farebbe il governo italiano? E se ci fosse una “Nato” che desse una mano agli albanesi? Altro paragone lo si potrebbe fare con la “Padania”. Detto questo, io sono contro la guerra, non credo che ci possa essere una guerra giusta.

Ultima domanda. Le foto che ha scelto di mostrare a visitatori del mio sito sono semplicemente le più belle, o hanno anche un significato particolare?

Fotografare gli oggetti del cielo è bello, per me, soprattutto perché la fotografia ci permette di vedere ciò che non riusciremmo a percepire ad occhio nudo. Un pianeta lo vediamo, ad occhio nudo, come se fosse una stella brillante. Basta un secondo di posa con un ingrandimento adeguato per mettere in risalto gli anelli di Saturno o le bande equatoriali di Giove. L’astrofotografia è semplicemente fantastica.
Due delle foto che mostro ai visitatori del sito (la “polare ruotante” e uno scorcio della via lattea) sono state scelte in base a ciò che chiunque riuscirebbe a fare con una semplice macchinetta fotografica (provvista di posizione B), un cavalletto, un flessibile e un bel cielo non inquinato. Per fare la foto alla via lattea basta puntare la porzione di cielo interessata, spingere il flessibile, e contare fino a 15-20. Con un obiettivo da 50 mm il mosso non si nota fino a circa 25 secondi. La foto inviata è volutamente un po’ mossa per far risaltare la “nuvola” di stelle. Il posto in cui è stata scattata è la Sardegna.
Per la polare, ancora più semplice. Si inquadra la stella polare (se si può si mette qualcosa in primo piano) si blocca il flessibile e si lascia in esposizione. Più resta esposta, più le stelle “girano” (in realtà è la Terra a girare). In condizioni ottimali si può lasciare l’esposizione per circa 7 ore. La mia foto è rimasta solo 15 minuti (sempre in Sardegna).
Le altre quattro foto rappresentano per me i primi risultati soddisfacenti dopo un’infinità di prove infruttuose. Rappresentano anche ore ed ore di veglia (sonno non perso), di freddo, di ansia, di rabbia, di trepidazione, ma alla fine di un’enorme soddisfazione.
Né galassie né nebulose si vedono ad occhio nudo; bisogna imparare a cercarle con le coordinate celesti; poi occorre fare una messa a fuoco precisa ed infine occorre posare per 30, 40 minuti, rincorrendo il cielo. Il risultato dà una doppia soddisfazione: quella di mostrare qualcosa che esiste a miliardi di chilometri da noi e quella di appagare il nostro senso estetico.

Eclissi1

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[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 4/9/1999]

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Intervista a Angela Messina

Di un romanzo, di solito, la prima cosa da raccontare è la trama.

Per l’aperitivo racconta di Chiara, una donna quarantenne, moderna, spavalda e tenacemente convinta della sua condizione di single, il che non contraddice il suo innamorarsi di Alessandro. La personalità di Chiara registra la contemporanea presenza di un lato sentimentale e di uno più severo (risolto attraverso l’alter ego di Chiara-sulla-libreria), che prevalgono a turno. Il percorso che ne deriva vede Chiara agire, e reagire, per difendere la propria capacità di essere solitaria e cioè, in primo luogo, di assumere in prima persona la responsabilità delle sue scelte.

Leggendo il libro, peraltro, si ha la sensazione che la “storia” raccontata sia un elemento, in fondo, secondario rispetto alla descrizione di una condizione dell’anima.

Quel che ho cercato di descrivere è una strada femminile per uscire da schemi e modelli ancora forti, per emanciparsi dalla schiavitù dei tradizionali comportamenti affettivi ed intellettuali. Francamente, il problema di raccontare una storia, di creare un plot, non mi preoccupa affatto. Anche il prossimo lavoro sarà certamente meno complesso di Cent’anni di solitudine, e tuttavia penso si leggerà d’un fiato, come tutti – mi dicono – leggono d’un fiato Per l’aperitivo: probabilmente perché le donne in questo momento hanno interesse a capire più che a fare. Io la penso così, e sento il bisogno di scrivere secondo questa convinzione.

Come presenteresti il libro in poche parole?

Secondo me, la storia di Chiara è il diario di una donna a cui succedono delle cose (non meno cose che a Bridget Jones o a Cenerentola), tuttavia il libro parla soprattutto del rapporto con se stesse, tutto è visto “in soggettiva”; ma la novità è che, nonostante ciò, questo non è un libro intimista. Nello stesso tempo molti pensano che in questo libro “c’è anche troppa roba”, quindi forse la sensazione di “poca trama” dipende proprio dallo stile che ho scelto.

A pagina 25 chiedono a Chiara se davvero sta bene senza un fidanzato e lei risponde: “Io non sono sola, sono un tipo solitario, è diverso”. Perché la generalità delle persone sembra avere tanta difficoltà a comprendere che anche soli si può essere sereni?

Io sono la prima a non credere e a non voler teorizzare una “serena condizione di vita da soli”; per questo ho voluto che Chiara, single convinta, avesse una storia d’amore, per quanto sgangherata. Ciò che è difficile, difficilissimo, è avere un profondo dialogo con se stessi, che permette di farsi compagnia quando da soli, per cause di forza maggiore, ci si ritrova. Ma che ci deve sempre essere, anche quando si è accoppiati, sposati, con figli. E comunque Chiara non è sola, è, come dice lei stessa, solitaria: cosa diversa.

Il riassunto dell’incapacità di comprendere la dimensione autonoma della protagonista lo troviamo nel personaggio di Alessandro, individuo che si aggiunge alla lunga teoria di uomini (letterari e cinematografici) relativamente meschini, abbastanza egoisti, assai inconcludenti e, alla fin fine, francamente insopportabili.

Tutti gli uomini che hanno letto il libro dicono che questo Alessandro è una schifezza. Tutte le donne dicono che è un personaggio azzeccatissimo, certamente indeciso e presuntuoso ma anche affascinante. Chiara ne è innamorata, è dalla sua parte, lo difende, anche se alla fine non vuole sposarsi.

Sebbene un personaggio così precisamente incapace di comprendere Chiara svolga bene il suo compito rispetto all’idea di fondo del romanzo, non pensi di aver reso un’immagine di Alessandro troppo compatta nella sua insulsaggine e, perciò, meno credibile di Chiara? Insomma, non ti sembra di aver fatto un po’ troppo il tifo per la tua protagonista?

Io non faccio assolutamente il tifo per Chiara: il problema è che gli uomini di cui ci innamoriamo sono così…

Ti ringrazio a nome della categoria.

… anche se loro pensano di essere molto diversi da Alessandro.

Cambiamo argomento. Per l’aperitivo offre ampio spazio a discipline quali la danza e il nuoto, alla pratica della lettura, alla tua personale passione per le metropoli. Si tratta di pagine dotate di autonomia propria e, a dirla tutta, sono quelle che ho preferito.

Ormai è assodato: il capitolo sul nuoto è quello che piace di più, piace moltissimo.

Dal punto di vista tecnico, il dettaglio che salta all’occhio è l’uso delle note a fine capitolo, davvero insolito in un romanzo. Sei soddisfatta dell’esito letterario di questa scelta? Pensi di ripeterla?

L’uso delle note è stato un rischio calcolato, perché possono rallentare o disturbare la lettura. Per fortuna nessuno mi ha detto questo. Io non avrei mai potuto rinunciarvi in quanto questo esercizio tecnico mi ha permesso di creare le basi per lo stile che adotterò nel prossimo romanzo. Non più note quindi, ma un’altra scelta tecnica per me molto interessante.

Di pagina in pagina, la protagonista ci informa con dovizia (anche in modo divertente, come nel caso delle pagine sui posti “in capo al mondo” dove sarebbe disposta a seguire l’uomo della sua vita) su che cosa le piace e che cosa non le piace, su che cosa trova giusto e cosa no. Agli antipodi di Alessandro, Chiara non vacilla mai.

Curioso vedere in un personaggio che alla fine del libro attraversa una profonda crisi esistenziale un personaggio “che non vacilla mai”. Chiara è un personaggio con molti dubbi, titubanze, incertezze, litiga con se stessa, si prende in giro; è quanto di meno monolitico esista.

Forse è più esatto dire che vacilla intorno ad alcune certezze?

Vacilla, vacilla; ma alla fine può contare su se stessa. Il “passo a due” dell’ultimo capitolo non è, come nella danza, l’espressione dell’amore romantico con il principe azzurro, è la testimonianza che il suo alter ego le è vicino.

La mia “Seconda legge sulla scrittura” afferma che “ci si siede per scrivere come si vuole, e ci si alza avendo scritto come si sa”. Tu di mestiere fai la giornalista: quanto ti ha condizionato il tuo modo di scrivere abituale?

Lo stile di questo libro non ha niente a che vedere con lo stile giornalistico, neppure per contrapposizione. Io ho cercato di distaccarmi da uno stile letterario e di avvicinarmi a uno diretto, colloquiale, sempre all’interno di una ricerca sullo stile narrativo. A quanto pare ci sono riuscita: leggendo accanitamente negli ultimi cinque anni letteratura anglosassone con questo preciso scopo.

Una scelta che non sempre mi ha convinto è l’altissimo numero di citazioni. Anche se scampa con sicurezza, a parer mio, alla possibile critica di essere pedante, può sembrare che Chiara viva ogni sua sensazione (o certezza) attraverso il filtro costante del pensiero altrui.

Più un lettore è colto meno ha amato le citazioni. Sono contenta del mio amico R. che si è comprato Lodoli perché l’ho citato io; della mia amica L. che ha comprato Emicrania per come ne ho scritto: mi pare che questo dica tutto … Chiara ama leggere e lo esterna (anche questo rivela una sua sottile insicurezza, il bisogno che gli altri capiscano e condividano il suo pensiero: come vedi vacilla …).

Per l’aperitivo è il primo romanzo che pubblichi ma non è il primo che scrivi. Che differenze trovi fra i tuoi primi tentativi e questo lavoro pubblicato da Mazzanti?

Il primo romanzo che ho scritto era bello, ambizioso, l’ho amato; ma ero prigioniera di uno stile manzoniano (così ti insegnano a scrivere) che non poteva funzionare. Era una serie di esercizi di danza alla sbarra perfettamente eseguiti. Per l’aperitivo è già una piccola coreografia liberatoria che viene da una mia (solo mia) voce interiore. Non a caso la danza mi ha molto aiutato a liberare la scrittura: come è successo a Paul Auster, che cito all’inizio del libro.

Nel futuro della tua scrittura avremo ancora Chiara?

Per l’aperitivo è il primo volume di una trilogia. Nel prossimo non ci sarà più Chiara, ci sarà Lucilla, una vera peste!!

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 16/11/2002]

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Intervista a Ilaria Damiani

A quel che mi hai raccontato, scrivi anche tu da molto tempo, ma finora non avevi mai provato a far circolare i tuoi lavori. Che cosa ti ha spinto, o incoraggiato, a farlo adesso?

Potrei risponderti la mancanza di materiale in grado di essere letto, oppure la consapevolezza che i miei sono dei lavori introspettivi e, forse, poco comprensibili, o, ancora, la mancanza di contatti stimolanti da questo punto di vista … ma la conoscenza e le lunghe chiacchierate via cavo, tra un dribbling ed il comune destino di far finire i gol del sofferto pareggio sul palo, di un certo Antonio Messina, mi hanno ridonato un po’ di vigore artistico. Il resto è storia di oggi.

Parlare di calcetto mi fa venire in mente la palla, anzi le due che mi fa venire Baricco. E dai che scherzo! Comunque: vuoi spiegare che cosa ti appassiona nella sua scrittura?

La prima volta che lessi Baricco feci fatica a interpretare il suo modo di vedere le cose e, per conseguenza, di scrivere. L’unica cosa che mi fece continuare oltre le trenta pagine di Oceano mare fu che lo avevo visto in TV e mi aveva sedotto. E’ stato un amore a prima vista ed amare i suoi testi una cosa naturalissima. Novecento, che è l’opera tradotta in film da Tornatore, è un libriccino che si legge in poco più di un’ora, ma, ti assicuro, ci vuole una vita per dimenticarlo.

Quando parli della tua scrittura, insisti sempre sul fatto che è prima di tutto destinata a te stessa, che è introspettiva. In uno dei due pezzi tuoi che preferisco (e che appare nel mio sito, grazie) affermi perfino che l’unica estimatrice di Ilaria è Ilaria stessa. Il buffo, dal mio punto di vista, è che lo affermi proprio in un brano che tratta di un problema che hanno tanti di noi “aspiranti scrittori”, cioé la paura che prende quando sembra di non aver più idee. È esatta questa mia lettura? Non pensi che, in realtà, quanto più parli di te, tanto più riesci a parlare agli altri? E scusa per la lunghezza della domanda.

Domanda elaborata. Crisi per chi risponde. Riflessione.
La paura c’è, senza dubbio ed ogni volta che apro un libro dei miei autori preferiti non fa che aumentare. Credo che gli scritti migliori abbiano sempre da arrivare. Poi ripenso ad alcune righe di Hermann Hesse, il quale, una volta terminato un lavoro e ripensando a quelli antecedenti, si stringeva nelle spalle e si chiedeva come quelle cose potesse averle scritte lui. Andava migliorando, si diceva ed ogni volta si riconosceva un pochino meno. Ecco, io spero di fare come lui, solo che nel tragitto mi assalgono una serie infinita di dubbi ed incertezze, rendendo tutto tremendamente più difficile.
Comunicare di per sé trovo che sia un’impresa ardua e il saperlo fare bene ancora di più. Se, con le cose che scrivo, riesco a toccare qualcuno nel suo profondo e provocargli una benchè minima reazione, beh, allora credo di essere sulla via giusta.

Chiesero a Miguel Dominguin: “Perché uno decide di fare il torero”? Rispose: “Perché non sa fare altro”. Chiesero a Jonathan Coe (“La famiglia Winshaw”): “Perché lei scrive”? Rispose: “Perché sto male se non scrivo”. E tu? Perché hai deciso di scrivere?

Io non ho deciso di scrivere. Ci sono cose che ti trovi dentro senza sapere da dove abbiano origine, ma, non per questa loro natura, le coltivi con meno amore e dedizione di altre. Diciamo che la scrittura è la mia figlia prediletta alla quale guardo con occhio benevolo e riesco a perdonare tutto. Potrei stare qui ad ore a parlarti di questo mio amore, ma non porterebbe a niente. Ho quaderni pieni di sfoghi di un’adolescente sempre alla ricerca di punti fermi ed ho quaderni di una ragazza, un po’ più matura di allora, che sta ancora cercando. Sono giunta a questa conclusione: scrivere è la mia linfa vitale.

“Io non ho deciso di scrivere” è una risposta bellissima e, ancora una volta, appartiene un po’ a noi tutti. Direi proprio che non potremmo concludere in modo migliore con l’intervista “letteraria”, consentendoci finalmente di passare alle cose serie: mercoledì ci sei all’allenamento?

Dopo la prestazione di sabato come potrei mancare. A proposito, non hai da farmi i complimenti? Uno più o uno meno cosa vuoi che conti?

Per quel passaggio smarcante agli avversari sul 3 a 2 per voi a un minuto dalla fine, vuoi dire? Complimenti … da parte degli avversari, certo. Quanto a noi due: non ricordo più se l’ultima volta ti ho fatto due o tre tunnel …

Lo hai detto tu stesso: “Non ricordo più. Si vede che mi hai confuso con qualcun altro. E, devo ammetterlo, è veramente difficile.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 25/03/1999]

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Intervista a Pasquale Aiello

Antonio: Le tue prime foto risalgono alla fine degli anni Settanta e sono di cronaca: manifestazioni e manifestanti soprattutto. Nei miei ricordi, il “compagno che scattava le foto per il giornale” era uno che, rimanendo mescolato a curiosi e passanti sparsi sui marciapiedi, aveva trovato il modo di non reggere l’asta dello striscione. E il tuo fotografare? Era un essere dentro o un tenersi fuori?

Pasquale Aiello: Sicuramente un essere dentro… il più possibile. Riprendevo gli eventi senza curarmi troppo dei dettagli tecnici poiché la cosa più importante era documentare quello che succedeva.

Dare meno importanza alla tecnica era una scelta o una necessità?

Una necessità. Durante il ’77 e negli immediati anni successivi, fotografare episodi politicamente caratterizzati, come i cortei, non era sempre facile dato che spesso, come ci racconta anche Erri de Luca, non erano propriamente delle semplici passeggiate.

Detto il periodo, qual è stato il luogo dei tuoi esordi come fotografo.

Il quartiere di Centocelle, nella periferia sud di Roma. Sicuramente una grande palestra di allenamento politico, sociale e anche fotografico. Ricordo che a volte, tornando da manifestazioni, feste, concerti o da iniziative in altre zone di Roma, sentivamo quasi un senso di sicurezza e, forse, protezione allorché i vecchi tram delle linee 12 o 14 varcavano la via Tor de’ Schiavi, confine (non disegnato su nessuna mappa) che ci divideva dal limitrofo quartiere Prenestino, presidiato spesso dai fascisti. Roma, lo ricordiamo sicuramente in molti, era fatta di zone “rosse” e “nere”: si adoperava molta cautela anche soltanto per scegliere un cinema o una pizzeria!

Nel corso della tua attività hai sperimentato tecniche diverse. Dopo tanti anni e centinaia di foto, c’è una tecnica alla quale ti senti più legato o nella quale ti sembra di ottenere risultati migliori?

Certamente la tecnica del bianco e nero. Seguendo i preziosi consigli di due vecchi amici, Pietro Pietrazzini e Corrado Rossetti, ho sperimentato da subito sia la ripresa che la stampa in camera oscura. Non ricordo se per una questione ideologica o per qualche altro inconscio pensiero o se, forse e più probabilmente, per questioni economiche, iniziai utilizzando una reflex Zenith E (per fotografare) e un ingranditore UPA5 (per stampare), rigorosamente sovietici ed in metallo! Oggi, come allora, utilizzo il piccolo formato (35 mm), soprattutto pellicole in bianco/nero, obiettivi grandangolari e, quando possibile, il cavalletto. Non avrei mai immaginato, peraltro, le potenzialità rivoluzionarie di quest’ultimo!

Dai non fotografi, la fotografia su pellicola è quasi sempre identificata con il momento dello scatto mentre si tende a ignorare lo sviluppo e la stampa.

In effetti hai giustamente rilevato quella che è una semplificazione. Dopo aver accuratamente sviluppato un negativo, la cosa veramente formidabile, quasi magica, dello stampare le proprie fotografie dopo averle “scattate” era (ed è) il vedere emergere nella vaschetta dello sviluppo l’oggetto, la persona o il paesaggio su cui ci si era concentrati nella fase di ripresa. Era il momento in cui ti rendevi conto che stava prendendo forma qualcosa di nuovo.

E’ possibile affermare che stampare una foto significhi “scattarla” un’altra volta?

Credo proprio di si. Molte volte ho la sensazione di creare qualcosa di diverso dalla semplice rappresentazione grafica dell’istante fermato nel fotogramma. Il negativo, ci insegna un vero maestro come Anselm Adams, è uno spartito da interpretare intelligentemente ed in maniera creativa in sede di stampa.

Secondo te, esiste una tecnica comunque più adatta a ritrarre un determinato soggetto?

Assolutamente no. La scelta estetica di come ritrarre una determinata realtà è frutto della combinazione di diversi elementi soggettivi quali la formazione, gli stimoli, la capacità, la fantasia… In altre parole: della cultura che forma il singolo fotografo. Molto semplicemente è questione di applicare una determinata sintassi fotografica (scelta e combinazione, da parte del fotografo, degli strumenti e delle tecniche disponibili) che, come detto, è estremamente soggettiva.

Nel suo libro Fermati tanto così, Matteo B. Bianchi inserì una frase che ho sempre trovato molto bella. Lasciando l’istituto per bambini con disabilità mentali dove aveva prestato servizio civile, dice a se stesso che c’è ancora qualcosa che può fare per loro: scriverne. Ti è mai accaduto di fotografare per un motivo simile?

Non nella stessa maniera di Matteo B. Bianchi. Lui cita un’esperienza precisa per la quale si sente di voler fare di più, scrivendone, mentre la mia scelta non è legata ad una situazione singola, definita. Tuttavia vedo un’analogia nell’aver voluto fotografare realtà considerate marginali con l’intento di renderle manifeste dando loro maggiore visibilità. Così, cercando di ottenere anche qualcosa di più della loro semplice rappresentazione iconografica, ho documentato periferie, lavoro, mondo giovanile, campi nomadi, scelte antagoniste, ecc… Tutto questo, spesso, in compagnia di due ottimi compagni di viaggio, Antonio De Carolis e Sergio Mauriello, fotografi anch’essi, con i quali condivido da oltre tre lustri progetti ed idee.

Come hai scritto con bonaria ironia in una tua nota autobiografica, gli anni Ottanta ti privano di molte opportunità di fotografare i lavoratori in piazza. Più tardi, il corso degli eventi ti ha privato anche di molte opportunità di fotografare i lavoratori. E’ per questo che in tempi più recenti ti sei dedicato a immagini di archeologia industriale?

La passione per l’archeologia industriale nasce dalla volontà e dalla curiosità di indagare gli ambienti nei quali il lavoro si svolgeva, sicuramente in maniera diversa da oggi. Per questo motivo mi sono recato presso vecchi siti minerari, ripercorso tracciati ferroviari abbandonati e visitato fabbriche dimesse, attraversandone le grandi navate neoromaniche in mattoni rossi. Ogni volta ho cercato di fotografare le soluzioni tecniche ed estetiche di questi ambienti (lungo le ferrovie: vecchie stazioni e ponti in ferro; nei villaggi minerari: pozzi di discesa e vecchie attrezzature per l’estrazione; nelle fabbriche: ciminiere, macchinari, laboratori, ecc.), e di cogliere le tracce del passaggio e della fatica dei lavoratori, i quali traevano da questi ambienti sia il sostegno economico che la forza per migliorare la propria condizione. Sono esperienze assolutamente straordinarie.

Ammesso che sia corretto dividere la tua attività in un primo periodo in cui ritraevi gli operai in fabbrica e in un secondo in cui ritrai le fabbriche senza operai; tu, in generale, preferisci ritrarre cose o persone?

Non ho una preferenza in tal senso. Certamente quando riprendi degli ambienti, oppure dei paesaggi, ti disponi a realizzare delle fotografie che, nella loro staticità di ripresa, ti consentono con calma di posizionare il cavalletto, inquadrare la scena, calcolare l’esposizione, insomma di “rilassarti” e previsualizzare la foto finale. Viceversa, fotografare persone comporta, secondo me, il fatto di entrare in sintonia con esse per evitare che la macchina fotografica diventi uno steccato, fonte di diffidenza o timidezza. Non mi piace assolutamente “rubare” un’immagine se essa rappresenta una persona. Preferisco, se possibile, rendere la persona stessa partecipe e complice dello scatto… Insomma, anche se posso aver fatto qualche buon reportage non sarò mai un buon reporter.

Memoria, desiderio d’eternità, testimonianza, stimolo… Che cosa è per te la fotografia?

La fotografia, nel mio personalissimo caso, soddisfa due esigenze fondamentali, una più razionale ed un’altra più istintiva. Da un lato, fotografia è memoria, documentazione e quindi testimonianza a cui si perviene proponendosi un metodo serio di lavoro (individuale o collettivo) e perseguendo la migliore combinazione di tecnica e materiali. Dall’altro, la fotografia è soprattutto stimolo e ricerca per trovare e sperimentare strade alternative nelle quali prevalga, nel conseguire il risultato, la trasmissione di una sensazione o di un’impressione.

Ti senti molto diverso rispetto a com’eri negli anni in cui hai iniziato a fotografare?

Fotografare era per me, già allora, il sentirmi inserito in un meccanismo in continua evoluzione e trasformazione. I volti, i luoghi, gli eventi (spesso drammatici) erano le manifestazioni esteriori della nostra ricerca e del nostro tentativo di modificare la realtà. Molte di queste cose le ho fotografate in un periodo in cui il rapporto tra movimenti, politica, informazione, televisione e stampa era sicuramente più problematico di adesso e non c’era una diffusione di massa della fotografia. Oggi, al contrario, con la spettacolarizzazione televisiva e la diffusione del digitale (strumento immediato e veloce per definizione) tutto è molto diverso. Basta guardare, ad esempio, quale valenza dirompente hanno avuto la presenza di migliaia di fotocamere e telecamere a Genova, durante il funesto G8 del luglio 2001, nella documentazione dei drammatici fatti di quei giorni. Ma, per concludere, ti posso dire che salve le esperienze della vita (accumulate in ambiti diversi e che parzialmente ti cambiano) di quei tempi conservo sicuramente ancora la curiosità, unica leva che ti porta a indagare continuamente il mondo che ti circonda e a cercare delle risposte… in fotografia come in altre campi.

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[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 16/11/2005]

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Intervista a Tommaso Monteleone

Io e te ci siamo conosciuti a Casa di Vela Elba, la scuola di vela fondata da tuo padre Gigi ormai trent’anni fa. Vorrei che spendessi qualche parola per presentarla.

Casa di Vela … una realtà che dura 30 anni. Un metodo (non un luogo, come può pensare qualcuno da un’osservazione superficiale) che permette di trasmettere passione per il mare e per l’ambiente. Casa di Vela è formata da istruttori e allievi, per questo credo che piaccia.

Capperi! Parli come uno spot. Ma sono d’accordo con te. Adesso toglimi una curiosità. Io trovo che lo sport della vela ha un’infinità di aspetti positivi: dal contatto con la natura alla possibilità di adeguare l’impegno alle proprie capacità; dalla ecologicità del mezzo alla soddisfazione che procura il saperlo manovrare efficacemente. In base alla tua esperienza, quando terminano il loro corso, che cosa hanno apprezzato di più gli allievi?

La possibilità di misurarsi misurarsi con la natura sfruttando i suoi stessi elementi, lontano da tutto ciò che di artificiale abbiamo costruito in migliaia di anni. Solo l’uomo, su una barca che è frutto del suo ingegno, il vento ed il mare.

Il vento e il mare. Mi pare che fosse un gran bel romanzo … ma forse mi sbaglio. A proposito di vento: tu che lo conosci bene: perché il vento è così irregolare nella sua direzione? Voglio dire: che bisogno c’era? Non poteva limitarsi a soffiare sempre uguale per la gioia di grandi e piccini?

No, pensa che noia! Ci sono posti dove il vento soffia sempre dalla stessa direzione … una noia … Sempre lo stesso vento e una vita monotona senza mai niente di nuovo….. che barba. La capacità di un marinaio, di un velista, sta nel saper leggere il vento sull’acqua, nel cielo, prevedere da dove soffierà fra un attimo, prevedere nel suo piccolo, cosa farà la natura e prepararsi ad affrontarla. Io trovo che sia bellissimo. È questo il fascino della vela. Potrei dilungarmi molto … La barca è solo un mezzo, il mare pure, e il vento, una pura forza naturale che noi sfruttiamo per muoverci.

In trent’anni, di allievi, ne avete avuti centinaia. Quanti riuscite a ricordarne? E quanti si ricordano di voi?

Se rileggi il nome, senti la sua voce anche solo per telefono, ogni istruttore ricorda tutti o quasi tutti i suoi allievi. Ogni tanto li sogni la notte, spesso li incontri nei posti e nelle situazioni più impensate. Fa sempre piacere ascoltare le loro esperienze di mare, i loro ricordi. Credo che di noi, di Casa di Vela, si ricordino tutti. Ci rende felici sapere che l’85% dei nostri allievi ha continuato a fare vela dopo il suo corso. Per noi è un grande risultato, vuol dire che siamo riusciti a trasmettere una passione. Non importa che si ricordino di noi ma che veleggino felici per il mare.

Per la serie “il coraggio è senza vergogna” (riferito a me che pongo la domanda): come ero come allievo?

Tecnicamente potrei definirti un po’ rigido. Non ti sei ancora completamente affiatato con il mezzo, non consideri la barca come una naturale estensione del tuo corpo, come un semplice attrezzo. Credo che pensi la barca una creatura irrazionale che fa sempre cose imprevedibili.

Non sono io che lo penso, è la barca che è così!

Lei reagisce sempre e solo ai nostri comandi. Ma credo che hai buone possibilità, devi solo smettere di guardare la barca e concentrarti solo sul vento e sul mare. Oramai le basi le hai acquisite, se imparerai ad osservare vento e mare tutto ti verrà naturale perché ridurrai nel numero le reazioni che consideravi imprevedibili della tua barca, e riuscirai a governarla con soddisfazione e sicurezza.

Ci proverò. Adesso dimmi: in trent’anni, vissuti da te o raccontati da tuo padre, avrai accumulato una miniera di aneddoti. Riesci a trovarne uno veloce da raccontare?

Noi Istruttori abbiamo una regola: mai parlare in presenza di un allievo di situazioni che coinvolgono altri allievi. Tu sei un allievo … e noi speriamo che qualcun altro ci legga, no?

Ma non pretendevo mica che raccontassi di quella volta che mia sorella ha scuff … Ops! Sarà meglio cambiare rotta. Dicevo: da qui, dal mio sito, ci passa un po’ di gente che ama raccontare delle storie, e allora mi domandavo se non avevi mai pensato di fermare questi ricordi su carta?

No, preferisco viverne sempre di nuove e cercare di farle vivere anche ai miei allievi. Ci provo.

A maggior ragione, allora, ti ringrazio per aver accettato l’invito a scrivere qualcosa appositamente per il mio sito. Come ti sei sentito nella per te insolita veste di scrittore?

Un po’ impacciato, impreparato. Scrivere non è mai stato il mio forte.

In effetti, leggendoti, ti ho trovato tecnicamente un po’ rigido. Non ti sei ancora completamente affiatato con il mezzo, non consideri la penna come una naturale estensione del tuo corpo, come un semplice attrezzo. Credo che consideri la penna una creatura irrazionale che fa sempre cose imprevedibili.

Spiritoso.

Comunque, scherzi a parte, questo tuo esordio letterario ti avrà convinto che scrivere è una cosa possibile, anche se richiede un po’ d’impegno.

Penso che scrivere sia molto difficile, più di quello che dici tu. Chissà cosa penserebbe la mia Prof. di Lettere … Magari le mando una copia de “La Movimentazione”.

Fallo senz’altro. Si divertirà di sicuro.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 25/05/1999]

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