Intervista a Angela Messina

Di un romanzo, di solito, la prima cosa da raccontare è la trama.

Per l’aperitivo racconta di Chiara, una donna quarantenne, moderna, spavalda e tenacemente convinta della sua condizione di single, il che non contraddice il suo innamorarsi di Alessandro. La personalità di Chiara registra la contemporanea presenza di un lato sentimentale e di uno più severo (risolto attraverso l’alter ego di Chiara-sulla-libreria), che prevalgono a turno. Il percorso che ne deriva vede Chiara agire, e reagire, per difendere la propria capacità di essere solitaria e cioè, in primo luogo, di assumere in prima persona la responsabilità delle sue scelte.

Leggendo il libro, peraltro, si ha la sensazione che la “storia” raccontata sia un elemento, in fondo, secondario rispetto alla descrizione di una condizione dell’anima.

Quel che ho cercato di descrivere è una strada femminile per uscire da schemi e modelli ancora forti, per emanciparsi dalla schiavitù dei tradizionali comportamenti affettivi ed intellettuali. Francamente, il problema di raccontare una storia, di creare un plot, non mi preoccupa affatto. Anche il prossimo lavoro sarà certamente meno complesso di Cent’anni di solitudine, e tuttavia penso si leggerà d’un fiato, come tutti – mi dicono – leggono d’un fiato Per l’aperitivo: probabilmente perché le donne in questo momento hanno interesse a capire più che a fare. Io la penso così, e sento il bisogno di scrivere secondo questa convinzione.

Come presenteresti il libro in poche parole?

Secondo me, la storia di Chiara è il diario di una donna a cui succedono delle cose (non meno cose che a Bridget Jones o a Cenerentola), tuttavia il libro parla soprattutto del rapporto con se stesse, tutto è visto “in soggettiva”; ma la novità è che, nonostante ciò, questo non è un libro intimista. Nello stesso tempo molti pensano che in questo libro “c’è anche troppa roba”, quindi forse la sensazione di “poca trama” dipende proprio dallo stile che ho scelto.

A pagina 25 chiedono a Chiara se davvero sta bene senza un fidanzato e lei risponde: “Io non sono sola, sono un tipo solitario, è diverso”. Perché la generalità delle persone sembra avere tanta difficoltà a comprendere che anche soli si può essere sereni?

Io sono la prima a non credere e a non voler teorizzare una “serena condizione di vita da soli”; per questo ho voluto che Chiara, single convinta, avesse una storia d’amore, per quanto sgangherata. Ciò che è difficile, difficilissimo, è avere un profondo dialogo con se stessi, che permette di farsi compagnia quando da soli, per cause di forza maggiore, ci si ritrova. Ma che ci deve sempre essere, anche quando si è accoppiati, sposati, con figli. E comunque Chiara non è sola, è, come dice lei stessa, solitaria: cosa diversa.

Il riassunto dell’incapacità di comprendere la dimensione autonoma della protagonista lo troviamo nel personaggio di Alessandro, individuo che si aggiunge alla lunga teoria di uomini (letterari e cinematografici) relativamente meschini, abbastanza egoisti, assai inconcludenti e, alla fin fine, francamente insopportabili.

Tutti gli uomini che hanno letto il libro dicono che questo Alessandro è una schifezza. Tutte le donne dicono che è un personaggio azzeccatissimo, certamente indeciso e presuntuoso ma anche affascinante. Chiara ne è innamorata, è dalla sua parte, lo difende, anche se alla fine non vuole sposarsi.

Sebbene un personaggio così precisamente incapace di comprendere Chiara svolga bene il suo compito rispetto all’idea di fondo del romanzo, non pensi di aver reso un’immagine di Alessandro troppo compatta nella sua insulsaggine e, perciò, meno credibile di Chiara? Insomma, non ti sembra di aver fatto un po’ troppo il tifo per la tua protagonista?

Io non faccio assolutamente il tifo per Chiara: il problema è che gli uomini di cui ci innamoriamo sono così…

Ti ringrazio a nome della categoria.

… anche se loro pensano di essere molto diversi da Alessandro.

Cambiamo argomento. Per l’aperitivo offre ampio spazio a discipline quali la danza e il nuoto, alla pratica della lettura, alla tua personale passione per le metropoli. Si tratta di pagine dotate di autonomia propria e, a dirla tutta, sono quelle che ho preferito.

Ormai è assodato: il capitolo sul nuoto è quello che piace di più, piace moltissimo.

Dal punto di vista tecnico, il dettaglio che salta all’occhio è l’uso delle note a fine capitolo, davvero insolito in un romanzo. Sei soddisfatta dell’esito letterario di questa scelta? Pensi di ripeterla?

L’uso delle note è stato un rischio calcolato, perché possono rallentare o disturbare la lettura. Per fortuna nessuno mi ha detto questo. Io non avrei mai potuto rinunciarvi in quanto questo esercizio tecnico mi ha permesso di creare le basi per lo stile che adotterò nel prossimo romanzo. Non più note quindi, ma un’altra scelta tecnica per me molto interessante.

Di pagina in pagina, la protagonista ci informa con dovizia (anche in modo divertente, come nel caso delle pagine sui posti “in capo al mondo” dove sarebbe disposta a seguire l’uomo della sua vita) su che cosa le piace e che cosa non le piace, su che cosa trova giusto e cosa no. Agli antipodi di Alessandro, Chiara non vacilla mai.

Curioso vedere in un personaggio che alla fine del libro attraversa una profonda crisi esistenziale un personaggio “che non vacilla mai”. Chiara è un personaggio con molti dubbi, titubanze, incertezze, litiga con se stessa, si prende in giro; è quanto di meno monolitico esista.

Forse è più esatto dire che vacilla intorno ad alcune certezze?

Vacilla, vacilla; ma alla fine può contare su se stessa. Il “passo a due” dell’ultimo capitolo non è, come nella danza, l’espressione dell’amore romantico con il principe azzurro, è la testimonianza che il suo alter ego le è vicino.

La mia “Seconda legge sulla scrittura” afferma che “ci si siede per scrivere come si vuole, e ci si alza avendo scritto come si sa”. Tu di mestiere fai la giornalista: quanto ti ha condizionato il tuo modo di scrivere abituale?

Lo stile di questo libro non ha niente a che vedere con lo stile giornalistico, neppure per contrapposizione. Io ho cercato di distaccarmi da uno stile letterario e di avvicinarmi a uno diretto, colloquiale, sempre all’interno di una ricerca sullo stile narrativo. A quanto pare ci sono riuscita: leggendo accanitamente negli ultimi cinque anni letteratura anglosassone con questo preciso scopo.

Una scelta che non sempre mi ha convinto è l’altissimo numero di citazioni. Anche se scampa con sicurezza, a parer mio, alla possibile critica di essere pedante, può sembrare che Chiara viva ogni sua sensazione (o certezza) attraverso il filtro costante del pensiero altrui.

Più un lettore è colto meno ha amato le citazioni. Sono contenta del mio amico R. che si è comprato Lodoli perché l’ho citato io; della mia amica L. che ha comprato Emicrania per come ne ho scritto: mi pare che questo dica tutto … Chiara ama leggere e lo esterna (anche questo rivela una sua sottile insicurezza, il bisogno che gli altri capiscano e condividano il suo pensiero: come vedi vacilla …).

Per l’aperitivo è il primo romanzo che pubblichi ma non è il primo che scrivi. Che differenze trovi fra i tuoi primi tentativi e questo lavoro pubblicato da Mazzanti?

Il primo romanzo che ho scritto era bello, ambizioso, l’ho amato; ma ero prigioniera di uno stile manzoniano (così ti insegnano a scrivere) che non poteva funzionare. Era una serie di esercizi di danza alla sbarra perfettamente eseguiti. Per l’aperitivo è già una piccola coreografia liberatoria che viene da una mia (solo mia) voce interiore. Non a caso la danza mi ha molto aiutato a liberare la scrittura: come è successo a Paul Auster, che cito all’inizio del libro.

Nel futuro della tua scrittura avremo ancora Chiara?

Per l’aperitivo è il primo volume di una trilogia. Nel prossimo non ci sarà più Chiara, ci sarà Lucilla, una vera peste!!

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 16/11/2002]

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Intervista a Ilaria Damiani

A quel che mi hai raccontato, scrivi anche tu da molto tempo, ma finora non avevi mai provato a far circolare i tuoi lavori. Che cosa ti ha spinto, o incoraggiato, a farlo adesso?

Potrei risponderti la mancanza di materiale in grado di essere letto, oppure la consapevolezza che i miei sono dei lavori introspettivi e, forse, poco comprensibili, o, ancora, la mancanza di contatti stimolanti da questo punto di vista … ma la conoscenza e le lunghe chiacchierate via cavo, tra un dribbling ed il comune destino di far finire i gol del sofferto pareggio sul palo, di un certo Antonio Messina, mi hanno ridonato un po’ di vigore artistico. Il resto è storia di oggi.

Parlare di calcetto mi fa venire in mente la palla, anzi le due che mi fa venire Baricco. E dai che scherzo! Comunque: vuoi spiegare che cosa ti appassiona nella sua scrittura?

La prima volta che lessi Baricco feci fatica a interpretare il suo modo di vedere le cose e, per conseguenza, di scrivere. L’unica cosa che mi fece continuare oltre le trenta pagine di Oceano mare fu che lo avevo visto in TV e mi aveva sedotto. E’ stato un amore a prima vista ed amare i suoi testi una cosa naturalissima. Novecento, che è l’opera tradotta in film da Tornatore, è un libriccino che si legge in poco più di un’ora, ma, ti assicuro, ci vuole una vita per dimenticarlo.

Quando parli della tua scrittura, insisti sempre sul fatto che è prima di tutto destinata a te stessa, che è introspettiva. In uno dei due pezzi tuoi che preferisco (e che appare nel mio sito, grazie) affermi perfino che l’unica estimatrice di Ilaria è Ilaria stessa. Il buffo, dal mio punto di vista, è che lo affermi proprio in un brano che tratta di un problema che hanno tanti di noi “aspiranti scrittori”, cioé la paura che prende quando sembra di non aver più idee. È esatta questa mia lettura? Non pensi che, in realtà, quanto più parli di te, tanto più riesci a parlare agli altri? E scusa per la lunghezza della domanda.

Domanda elaborata. Crisi per chi risponde. Riflessione.
La paura c’è, senza dubbio ed ogni volta che apro un libro dei miei autori preferiti non fa che aumentare. Credo che gli scritti migliori abbiano sempre da arrivare. Poi ripenso ad alcune righe di Hermann Hesse, il quale, una volta terminato un lavoro e ripensando a quelli antecedenti, si stringeva nelle spalle e si chiedeva come quelle cose potesse averle scritte lui. Andava migliorando, si diceva ed ogni volta si riconosceva un pochino meno. Ecco, io spero di fare come lui, solo che nel tragitto mi assalgono una serie infinita di dubbi ed incertezze, rendendo tutto tremendamente più difficile.
Comunicare di per sé trovo che sia un’impresa ardua e il saperlo fare bene ancora di più. Se, con le cose che scrivo, riesco a toccare qualcuno nel suo profondo e provocargli una benchè minima reazione, beh, allora credo di essere sulla via giusta.

Chiesero a Miguel Dominguin: “Perché uno decide di fare il torero”? Rispose: “Perché non sa fare altro”. Chiesero a Jonathan Coe (“La famiglia Winshaw”): “Perché lei scrive”? Rispose: “Perché sto male se non scrivo”. E tu? Perché hai deciso di scrivere?

Io non ho deciso di scrivere. Ci sono cose che ti trovi dentro senza sapere da dove abbiano origine, ma, non per questa loro natura, le coltivi con meno amore e dedizione di altre. Diciamo che la scrittura è la mia figlia prediletta alla quale guardo con occhio benevolo e riesco a perdonare tutto. Potrei stare qui ad ore a parlarti di questo mio amore, ma non porterebbe a niente. Ho quaderni pieni di sfoghi di un’adolescente sempre alla ricerca di punti fermi ed ho quaderni di una ragazza, un po’ più matura di allora, che sta ancora cercando. Sono giunta a questa conclusione: scrivere è la mia linfa vitale.

“Io non ho deciso di scrivere” è una risposta bellissima e, ancora una volta, appartiene un po’ a noi tutti. Direi proprio che non potremmo concludere in modo migliore con l’intervista “letteraria”, consentendoci finalmente di passare alle cose serie: mercoledì ci sei all’allenamento?

Dopo la prestazione di sabato come potrei mancare. A proposito, non hai da farmi i complimenti? Uno più o uno meno cosa vuoi che conti?

Per quel passaggio smarcante agli avversari sul 3 a 2 per voi a un minuto dalla fine, vuoi dire? Complimenti … da parte degli avversari, certo. Quanto a noi due: non ricordo più se l’ultima volta ti ho fatto due o tre tunnel …

Lo hai detto tu stesso: “Non ricordo più. Si vede che mi hai confuso con qualcun altro. E, devo ammetterlo, è veramente difficile.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 25/03/1999]

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Intervista a Pasquale Aiello

Antonio: Le tue prime foto risalgono alla fine degli anni Settanta e sono di cronaca: manifestazioni e manifestanti soprattutto. Nei miei ricordi, il “compagno che scattava le foto per il giornale” era uno che, rimanendo mescolato a curiosi e passanti sparsi sui marciapiedi, aveva trovato il modo di non reggere l’asta dello striscione. E il tuo fotografare? Era un essere dentro o un tenersi fuori?

Pasquale Aiello: Sicuramente un essere dentro… il più possibile. Riprendevo gli eventi senza curarmi troppo dei dettagli tecnici poiché la cosa più importante era documentare quello che succedeva.

Dare meno importanza alla tecnica era una scelta o una necessità?

Una necessità. Durante il ’77 e negli immediati anni successivi, fotografare episodi politicamente caratterizzati, come i cortei, non era sempre facile dato che spesso, come ci racconta anche Erri de Luca, non erano propriamente delle semplici passeggiate.

Detto il periodo, qual è stato il luogo dei tuoi esordi come fotografo.

Il quartiere di Centocelle, nella periferia sud di Roma. Sicuramente una grande palestra di allenamento politico, sociale e anche fotografico. Ricordo che a volte, tornando da manifestazioni, feste, concerti o da iniziative in altre zone di Roma, sentivamo quasi un senso di sicurezza e, forse, protezione allorché i vecchi tram delle linee 12 o 14 varcavano la via Tor de’ Schiavi, confine (non disegnato su nessuna mappa) che ci divideva dal limitrofo quartiere Prenestino, presidiato spesso dai fascisti. Roma, lo ricordiamo sicuramente in molti, era fatta di zone “rosse” e “nere”: si adoperava molta cautela anche soltanto per scegliere un cinema o una pizzeria!

Nel corso della tua attività hai sperimentato tecniche diverse. Dopo tanti anni e centinaia di foto, c’è una tecnica alla quale ti senti più legato o nella quale ti sembra di ottenere risultati migliori?

Certamente la tecnica del bianco e nero. Seguendo i preziosi consigli di due vecchi amici, Pietro Pietrazzini e Corrado Rossetti, ho sperimentato da subito sia la ripresa che la stampa in camera oscura. Non ricordo se per una questione ideologica o per qualche altro inconscio pensiero o se, forse e più probabilmente, per questioni economiche, iniziai utilizzando una reflex Zenith E (per fotografare) e un ingranditore UPA5 (per stampare), rigorosamente sovietici ed in metallo! Oggi, come allora, utilizzo il piccolo formato (35 mm), soprattutto pellicole in bianco/nero, obiettivi grandangolari e, quando possibile, il cavalletto. Non avrei mai immaginato, peraltro, le potenzialità rivoluzionarie di quest’ultimo!

Dai non fotografi, la fotografia su pellicola è quasi sempre identificata con il momento dello scatto mentre si tende a ignorare lo sviluppo e la stampa.

In effetti hai giustamente rilevato quella che è una semplificazione. Dopo aver accuratamente sviluppato un negativo, la cosa veramente formidabile, quasi magica, dello stampare le proprie fotografie dopo averle “scattate” era (ed è) il vedere emergere nella vaschetta dello sviluppo l’oggetto, la persona o il paesaggio su cui ci si era concentrati nella fase di ripresa. Era il momento in cui ti rendevi conto che stava prendendo forma qualcosa di nuovo.

E’ possibile affermare che stampare una foto significhi “scattarla” un’altra volta?

Credo proprio di si. Molte volte ho la sensazione di creare qualcosa di diverso dalla semplice rappresentazione grafica dell’istante fermato nel fotogramma. Il negativo, ci insegna un vero maestro come Anselm Adams, è uno spartito da interpretare intelligentemente ed in maniera creativa in sede di stampa.

Secondo te, esiste una tecnica comunque più adatta a ritrarre un determinato soggetto?

Assolutamente no. La scelta estetica di come ritrarre una determinata realtà è frutto della combinazione di diversi elementi soggettivi quali la formazione, gli stimoli, la capacità, la fantasia… In altre parole: della cultura che forma il singolo fotografo. Molto semplicemente è questione di applicare una determinata sintassi fotografica (scelta e combinazione, da parte del fotografo, degli strumenti e delle tecniche disponibili) che, come detto, è estremamente soggettiva.

Nel suo libro Fermati tanto così, Matteo B. Bianchi inserì una frase che ho sempre trovato molto bella. Lasciando l’istituto per bambini con disabilità mentali dove aveva prestato servizio civile, dice a se stesso che c’è ancora qualcosa che può fare per loro: scriverne. Ti è mai accaduto di fotografare per un motivo simile?

Non nella stessa maniera di Matteo B. Bianchi. Lui cita un’esperienza precisa per la quale si sente di voler fare di più, scrivendone, mentre la mia scelta non è legata ad una situazione singola, definita. Tuttavia vedo un’analogia nell’aver voluto fotografare realtà considerate marginali con l’intento di renderle manifeste dando loro maggiore visibilità. Così, cercando di ottenere anche qualcosa di più della loro semplice rappresentazione iconografica, ho documentato periferie, lavoro, mondo giovanile, campi nomadi, scelte antagoniste, ecc… Tutto questo, spesso, in compagnia di due ottimi compagni di viaggio, Antonio De Carolis e Sergio Mauriello, fotografi anch’essi, con i quali condivido da oltre tre lustri progetti ed idee.

Come hai scritto con bonaria ironia in una tua nota autobiografica, gli anni Ottanta ti privano di molte opportunità di fotografare i lavoratori in piazza. Più tardi, il corso degli eventi ti ha privato anche di molte opportunità di fotografare i lavoratori. E’ per questo che in tempi più recenti ti sei dedicato a immagini di archeologia industriale?

La passione per l’archeologia industriale nasce dalla volontà e dalla curiosità di indagare gli ambienti nei quali il lavoro si svolgeva, sicuramente in maniera diversa da oggi. Per questo motivo mi sono recato presso vecchi siti minerari, ripercorso tracciati ferroviari abbandonati e visitato fabbriche dimesse, attraversandone le grandi navate neoromaniche in mattoni rossi. Ogni volta ho cercato di fotografare le soluzioni tecniche ed estetiche di questi ambienti (lungo le ferrovie: vecchie stazioni e ponti in ferro; nei villaggi minerari: pozzi di discesa e vecchie attrezzature per l’estrazione; nelle fabbriche: ciminiere, macchinari, laboratori, ecc.), e di cogliere le tracce del passaggio e della fatica dei lavoratori, i quali traevano da questi ambienti sia il sostegno economico che la forza per migliorare la propria condizione. Sono esperienze assolutamente straordinarie.

Ammesso che sia corretto dividere la tua attività in un primo periodo in cui ritraevi gli operai in fabbrica e in un secondo in cui ritrai le fabbriche senza operai; tu, in generale, preferisci ritrarre cose o persone?

Non ho una preferenza in tal senso. Certamente quando riprendi degli ambienti, oppure dei paesaggi, ti disponi a realizzare delle fotografie che, nella loro staticità di ripresa, ti consentono con calma di posizionare il cavalletto, inquadrare la scena, calcolare l’esposizione, insomma di “rilassarti” e previsualizzare la foto finale. Viceversa, fotografare persone comporta, secondo me, il fatto di entrare in sintonia con esse per evitare che la macchina fotografica diventi uno steccato, fonte di diffidenza o timidezza. Non mi piace assolutamente “rubare” un’immagine se essa rappresenta una persona. Preferisco, se possibile, rendere la persona stessa partecipe e complice dello scatto… Insomma, anche se posso aver fatto qualche buon reportage non sarò mai un buon reporter.

Memoria, desiderio d’eternità, testimonianza, stimolo… Che cosa è per te la fotografia?

La fotografia, nel mio personalissimo caso, soddisfa due esigenze fondamentali, una più razionale ed un’altra più istintiva. Da un lato, fotografia è memoria, documentazione e quindi testimonianza a cui si perviene proponendosi un metodo serio di lavoro (individuale o collettivo) e perseguendo la migliore combinazione di tecnica e materiali. Dall’altro, la fotografia è soprattutto stimolo e ricerca per trovare e sperimentare strade alternative nelle quali prevalga, nel conseguire il risultato, la trasmissione di una sensazione o di un’impressione.

Ti senti molto diverso rispetto a com’eri negli anni in cui hai iniziato a fotografare?

Fotografare era per me, già allora, il sentirmi inserito in un meccanismo in continua evoluzione e trasformazione. I volti, i luoghi, gli eventi (spesso drammatici) erano le manifestazioni esteriori della nostra ricerca e del nostro tentativo di modificare la realtà. Molte di queste cose le ho fotografate in un periodo in cui il rapporto tra movimenti, politica, informazione, televisione e stampa era sicuramente più problematico di adesso e non c’era una diffusione di massa della fotografia. Oggi, al contrario, con la spettacolarizzazione televisiva e la diffusione del digitale (strumento immediato e veloce per definizione) tutto è molto diverso. Basta guardare, ad esempio, quale valenza dirompente hanno avuto la presenza di migliaia di fotocamere e telecamere a Genova, durante il funesto G8 del luglio 2001, nella documentazione dei drammatici fatti di quei giorni. Ma, per concludere, ti posso dire che salve le esperienze della vita (accumulate in ambiti diversi e che parzialmente ti cambiano) di quei tempi conservo sicuramente ancora la curiosità, unica leva che ti porta a indagare continuamente il mondo che ti circonda e a cercare delle risposte… in fotografia come in altre campi.

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[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 16/11/2005]

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Intervista a Tommaso Monteleone

Io e te ci siamo conosciuti a Casa di Vela Elba, la scuola di vela fondata da tuo padre Gigi ormai trent’anni fa. Vorrei che spendessi qualche parola per presentarla.

Casa di Vela … una realtà che dura 30 anni. Un metodo (non un luogo, come può pensare qualcuno da un’osservazione superficiale) che permette di trasmettere passione per il mare e per l’ambiente. Casa di Vela è formata da istruttori e allievi, per questo credo che piaccia.

Capperi! Parli come uno spot. Ma sono d’accordo con te. Adesso toglimi una curiosità. Io trovo che lo sport della vela ha un’infinità di aspetti positivi: dal contatto con la natura alla possibilità di adeguare l’impegno alle proprie capacità; dalla ecologicità del mezzo alla soddisfazione che procura il saperlo manovrare efficacemente. In base alla tua esperienza, quando terminano il loro corso, che cosa hanno apprezzato di più gli allievi?

La possibilità di misurarsi misurarsi con la natura sfruttando i suoi stessi elementi, lontano da tutto ciò che di artificiale abbiamo costruito in migliaia di anni. Solo l’uomo, su una barca che è frutto del suo ingegno, il vento ed il mare.

Il vento e il mare. Mi pare che fosse un gran bel romanzo … ma forse mi sbaglio. A proposito di vento: tu che lo conosci bene: perché il vento è così irregolare nella sua direzione? Voglio dire: che bisogno c’era? Non poteva limitarsi a soffiare sempre uguale per la gioia di grandi e piccini?

No, pensa che noia! Ci sono posti dove il vento soffia sempre dalla stessa direzione … una noia … Sempre lo stesso vento e una vita monotona senza mai niente di nuovo….. che barba. La capacità di un marinaio, di un velista, sta nel saper leggere il vento sull’acqua, nel cielo, prevedere da dove soffierà fra un attimo, prevedere nel suo piccolo, cosa farà la natura e prepararsi ad affrontarla. Io trovo che sia bellissimo. È questo il fascino della vela. Potrei dilungarmi molto … La barca è solo un mezzo, il mare pure, e il vento, una pura forza naturale che noi sfruttiamo per muoverci.

In trent’anni, di allievi, ne avete avuti centinaia. Quanti riuscite a ricordarne? E quanti si ricordano di voi?

Se rileggi il nome, senti la sua voce anche solo per telefono, ogni istruttore ricorda tutti o quasi tutti i suoi allievi. Ogni tanto li sogni la notte, spesso li incontri nei posti e nelle situazioni più impensate. Fa sempre piacere ascoltare le loro esperienze di mare, i loro ricordi. Credo che di noi, di Casa di Vela, si ricordino tutti. Ci rende felici sapere che l’85% dei nostri allievi ha continuato a fare vela dopo il suo corso. Per noi è un grande risultato, vuol dire che siamo riusciti a trasmettere una passione. Non importa che si ricordino di noi ma che veleggino felici per il mare.

Per la serie “il coraggio è senza vergogna” (riferito a me che pongo la domanda): come ero come allievo?

Tecnicamente potrei definirti un po’ rigido. Non ti sei ancora completamente affiatato con il mezzo, non consideri la barca come una naturale estensione del tuo corpo, come un semplice attrezzo. Credo che pensi la barca una creatura irrazionale che fa sempre cose imprevedibili.

Non sono io che lo penso, è la barca che è così!

Lei reagisce sempre e solo ai nostri comandi. Ma credo che hai buone possibilità, devi solo smettere di guardare la barca e concentrarti solo sul vento e sul mare. Oramai le basi le hai acquisite, se imparerai ad osservare vento e mare tutto ti verrà naturale perché ridurrai nel numero le reazioni che consideravi imprevedibili della tua barca, e riuscirai a governarla con soddisfazione e sicurezza.

Ci proverò. Adesso dimmi: in trent’anni, vissuti da te o raccontati da tuo padre, avrai accumulato una miniera di aneddoti. Riesci a trovarne uno veloce da raccontare?

Noi Istruttori abbiamo una regola: mai parlare in presenza di un allievo di situazioni che coinvolgono altri allievi. Tu sei un allievo … e noi speriamo che qualcun altro ci legga, no?

Ma non pretendevo mica che raccontassi di quella volta che mia sorella ha scuff … Ops! Sarà meglio cambiare rotta. Dicevo: da qui, dal mio sito, ci passa un po’ di gente che ama raccontare delle storie, e allora mi domandavo se non avevi mai pensato di fermare questi ricordi su carta?

No, preferisco viverne sempre di nuove e cercare di farle vivere anche ai miei allievi. Ci provo.

A maggior ragione, allora, ti ringrazio per aver accettato l’invito a scrivere qualcosa appositamente per il mio sito. Come ti sei sentito nella per te insolita veste di scrittore?

Un po’ impacciato, impreparato. Scrivere non è mai stato il mio forte.

In effetti, leggendoti, ti ho trovato tecnicamente un po’ rigido. Non ti sei ancora completamente affiatato con il mezzo, non consideri la penna come una naturale estensione del tuo corpo, come un semplice attrezzo. Credo che consideri la penna una creatura irrazionale che fa sempre cose imprevedibili.

Spiritoso.

Comunque, scherzi a parte, questo tuo esordio letterario ti avrà convinto che scrivere è una cosa possibile, anche se richiede un po’ d’impegno.

Penso che scrivere sia molto difficile, più di quello che dici tu. Chissà cosa penserebbe la mia Prof. di Lettere … Magari le mando una copia de “La Movimentazione”.

Fallo senz’altro. Si divertirà di sicuro.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 25/05/1999]

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Intervista a Matteo B. Bianchi su “Fermati tanto così”

Nota: Questa intervista è apparsa sul numero 148 di DM, rivista dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. Si ringraziano DM e Matteo B. Bianchi per l’autorizzazione alla pubblicazione su antoniomessina.it

Il tuo anno di servizio civile presso una struttura di assistenza per bambini psicotici viene raccontato, nel modo fedele e infedele dei romanzi, in Fermati tanto così. Era il 1992 e in molti per strada additavano i bambini che accompagnavi a spasso, ridendo di loro. A distanza di oltre dieci anni, noti qualche cambiamento nell’atteggiamento comune verso i “diversi”?

Non proprio. Ho notato che se ne parla leggermente di più in televisione e che questo lentamente può portare a una maggiore apertura nei confronti dei disabili. Però allo stesso tempo temo il rischio di un’ipocrita spettacolarizzazione: sono tutti lì ad applaudire l’handicappato sullo schermo, ma se ne incontrano uno per strada, lo ignorano, sentendosi comunque la coscienza a posto per essersi commossi la sera prima davanti alla tivù.

Nel tuo libro dichiari che, essendo omosessuale, capivi meglio questi bambini perché anche tu avevi già sperimentato sorrisi di scherno, insulti e il bisogno di riconquistare un’identità…

Sì, è un’affermazione forte, se vuoi anche molto “politica”. Viviamo in un Paese in cui gli onorevoli in tivù si permettono di dichiarare che gli omosessuali non dovrebbero avere il permesso di fare gli insegnanti o frasi aberranti del genere.
Per un omosessuale “normale” (vale a dire integrato nella società e nel posto di lavoro, con una vita di coppia stabile e con una buona dose di serenità personale), come posso esserlo io o la maggior parte dei miei amici, sentire simili affermazioni pubbliche è oltremodo insultante. In realtà, moltissimi gay hanno compiuto la scelta del servizio civile e hanno scelto di operare nel sociale. Molti, in seguito, l’hanno fatto anche come scelta professionale e io credo profondamente che proprio chi ha vissuto sulla propria pelle l’ipocrisia, l’emarginazione, il disagio sociale abbia una dose maggiore di consapevolezza ed esperienza per aiutare chi deve affrontare simili situazioni. E questo mi appare molto più un valore che un demerito!

Scrivi infatti che disabili e omosessuali sono uniti in quella che definisci “l’eredità di una sofferenza comune”. E però gli omosessuali ai quali accenni nel libro non sembrano sentirla. A parte uno…

Non è esatto. Nel romanzo illustro costantemente come la maggior parte della gente rifiuti di considerare gli handicappati, li elimini dal proprio campo visivo o abbia al limite un atteggiamento di patetismo nei loro confronti. Illustro questa situazione al supermercato, nei parchi cittadini, nelle discoteche gay: si tratta di un’indifferenza generalizzata, trasversale alle categorie, ai generi, ai sessi. Questo non entra in contraddizione col discorso che ho appena fatto, sull’eredità di sofferenza comune. Gli stronzi e gli indifferenti li trovi dappertutto, compreso negli ambienti gay, che sono uguali a tutti gli altri. Quello che intendevo dire piuttosto è che quando un omosessuale sceglie di operare nel sociale, spesso lo fa sulla base di un’esperienza personale di emarginazione, quindi è più pronto a percepirla in chi deve assistere. Ma lo stesso discorso si potrebbe fare per un extracomunitario, ad esempio, anche lui abituato da una vita a subire ingiustizie.

Ogni tanto si sente che gli omosessuali reclamano la tale legge o la tale altra. Considerata l’esperienza dei disabili con le leggi che li riguardano, viene da dire che gli sforzi devono puntare prima alla cultura e alla mentalità, piuttosto che alle leggi. Che ne pensi?

Concordo. Gli omosessuali non stanno combattendo una guerra per ottenere diritti, ma per abbattere pregiudizi. Del resto, a pensarci lucidamente, la richiesta di due persone (dello stesso sesso o di sesso opposto) che decidono di vivere insieme e che chiedono allo Stato che venga garantita loro giuridicamente questa possibilità, non ha in sé nulla di sconvolgente o di sbagliato. Eppure, appena se ne paventa l’idea, subito qualcuno tira fuori frasi del tipo: “Si vuole distruggere l’istituzione della famiglia!”. Ovviamente è un ricatto morale e religioso, esattamente come avveniva ai tempi del divorzio o dell’aborto.
Il fatto di rendere legali certe opportunità non equivale MAI a distruggere le istituzioni precedenti (oltretutto mi chiedo chi ne avrebbe interesse. Gli omosessuali no di certo). E’ evidente che non si sta parlando di diritti legali, ma di presunte questioni morali.

Verso la fine del libro si legge: “Fu allora, credo, mentre Pamela elencava continue varianti del termine puttana, che compresi che per questi bambini io avrei potuto fare ancora qualcosa: scriverne”. E’ una frase dal sapore definitivo come un addio. Eppure, in due versioni, la storia di Fermati tanto così ti accompagna da dieci anni…

Non credo che quella frase abbia il sapore di definitivo. Al contrario, apre delle prospettive. Questa in effetti è una storia che si presterebbe a numerose versioni. Pensa che quando ho consegnato il dattiloscritto definitivo alla Baldini&Castoldi, uno degli editor mi ha detto una frase illuminante: “Tu avevi fra le mani un altro libro, che hai scelto di NON scrivere”. Si riferiva al rapporto fra me e il ragazzo Guido, che poteva essere il tema centrale di questo romanzo e che invece io ho scelto di trasformare in una storia fra le tante. Quindi, come vedi, le prospettive sono infinite, tutt’altro che chiuse. A ciò aggiungi che ho avuto già diversi contatti per una possibile riduzione cinematografica. Se il progetto andasse in porto, si tratterebbe ancora di un’altra, ennesima riscrittura. Forse questo libro è nel mio karma…

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 21/06/2003]

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Intervista a Matteo B. Bianchi su “Generations of love”

“Questa è ‘tina, la rivistina del mio amico Matteo.”
Quella che mia sorella mi stava porgendo, in realtà, era poco più che qualche foglio stampato al computer e poi fotocopiato. Ma a detta di mia sorella conteneva dei racconti bellissimi e andava assolutamente letta. E fu così che Matteo andò a prendere il suo piccolo posto nella mia vita.
Io, lui, di persona non l’ho mai conosciuto. Non so neppure che faccia ha. Però ho continuato a seguire il suo lavoro attraverso internet (ormai da un po’, ‘tina ha anche una sua versione telematica) e dal suo lavoro ho ricavato una mia idea del personaggio (idea che, naturalmente, non ha alcuna pretesa di corrispondere al vero). E dunque: persona vittima di una per me inquietante iperattività, Matteo B. Bianchi si lancia con uguale entusiasmo, e sistematico disordine, nelle iniziative più disparate, purché collegate in qualche modo alla scrittura. Dalle cosiddette “fanzines” ai Millelire, dalle antologie di altri ai romanzi propri, dalla scrittura per la pubblicità alla ricerca di nuovi talenti letterari: niente che riguardi l’uso della parola a fini comunicativi gli è estraneo. Nutre un’insana passione per il cosiddetto “trash”, che lo porta a collezionare oggetti che sarei imbarazzato anche solo a toccare (provare per credere: collegatevi a ‘tina, osservate i frontespizi, e poi mi saprete dire). Il che non sarebbe poi così grave se non decidesse anche, quegli oggetti, di regalarli ai suoi amici. Su alcune cose siamo distanti (ad esempio nel rapporto che abbiamo con la televisione) ma questo è normale. Così com’è normale e giusto che anche i nostri gusti letterari non coincidano sempre. Però è un fatto che su ‘tina ho anche trovato delle vere perle. Su tutti, forse, i racconti di Alessandra Buschi. E, perdonate la vanità, ma anche i testi di due sorelle (cioè: la mia, Angela, e la sua, Francesca) si sono fatti apprezzare.
Tutto questo ed altro ancora, credo, basterebbe a distinguerlo, e tuttavia lo stesso tiene molto a quel B. nel nome, che secondo lui rende meno anonimo il Bianchi che lo segue. Ed è dunque Matteo B. Bianchi che ha scritto un romanzo, Generations of love, pubblicato da Baldini & Castoldi, in libreria dal 4 maggio 1999, e presentato nel mio sito dal giorno 3 in anteprima universale assoluta. Della qual cosa, ovviamente, lo ringrazio. E ora l’intervista.
____

L’occasione, per me, di fare la tua conoscenza (sia pure indiretta) è stata ‘tina, cioè “la rivistina di Matteo B. Bianchi”. Racconti ai miei amici di che si tratta?

Come esplicitamente suggerisce il sottotitolo, si tratta della mia personale rivista di letteratura. Era nata nel 1995 come semplice fanzine fotocopiata e poi si è diffusa ben al di là delle mie aspettative, sino ad approdare l’anno scorso su Internet. Non è una rivista seriosa e intellettuale, anzi è piuttosto un contenitore molto pop in cui pubblico racconti e stranezze letterarie. Pur rimanendo sempre in un ambito del tutto amatoriale, ‘tina sinora ha pubblicato sia brani inediti di esordienti assoluti che di autori piuttosto noti (come Matteo Galiazzo, Tiziano Scarpa, Gilberto Severini, Mario Fortunato …).

Nel mio sito ho deciso di ospitare i miei amici, o persone che comunque fanno capire qualcosa di me, indipendentemente dalla qualità letteraria dei loro testi. In ‘tina, invece, anche se non tutti mi sono piaciuti, è palese un buon livello dei testi pubblicati. Con che criterio li scegli, dunque? O hai tutti amici bravissimi a scrivere?

Effettivamente ho un sacco di amici scrittori, però il criterio con cui scelgo i brani da inserire in ‘tina è del tutto personale: pubblico solo le cose che mi piacciono e che trovo adatte allo spirito lieve della fanzine. Spesso inserisco pezzi di totali sconosciuti che mi hanno inviato i testi via email e dei quali non so nulla.

4 maggio 1999. Che cosa ti suggerisce questa data?

La morte di Napoleone? No, forse era il 5 maggio … Sarà mica il giorno di uscita in libreria di “Generations of love”, il mio romanzo pubblicato da Baldini & Castoldi?

Risposta esatta! Sei emozionato? In fondo, anche se non è il primo lavoro che pubblichi, un romanzo è in qualche modo un “salto di qualità”, se non altro sotto il profilo dell’impegno.

In effetti scrivere un romanzo è un impegno titanico, o almeno lo è stato per me. Ci ho messo un’eternità, anche perché non sono uno scrittore metodico, costante … anzi, mi perdo continuamente in altri progetti, come ‘tina per esempio, e la stesura del romanzo veniva continuamente interrotta o posticipata. Il vero salto di qualità è stato lavorare con una grande casa come Baldini, quindi conoscere da vicino i movimenti e le strutture dell’editoria ufficiale.

Piuttosto che la classica domanda su “di che cosa tratta il suo romanzo”, vorrei portene una sul mestiere di scrittore. E cioé: tu come vivi, se lo vivi, l’isolamento insensato in cui deve chiudersi chi decide di scrivere un romanzo? Voglio dire: nel mondo continuano a succedere le cose più belle, o più tragiche, e lo scrittore è lì a infischiarsene delle une e delle altre.

Ma non è vero, e poi, che diamine, non sono mica Moravia! Sono un esordiente che ha avuto la sorte di pubblicare per una grande casa editrice, ma per il resto non vivo alcun isolamento, anzi: vado a lavorare tutti i giorni, ho a che fare con gente quotidianamente… E poi io ritengo che il mio libro, anche se è un tipico romanzo di formazione, ha comunque una sua valenza politica (se mi concedi il termine), nel senso che parlo esplicitamente di omosessualità e delle problematiche connesse, con una franchezza e una disinvoltura che mi sono costate anche un certo impegno personale. È il mio modo per schierarmi, per portare avanti un una battaglia sociale.

Beh, a questo punto te la sei voluta. Di che cosa tratta il romanzo?

È uno dei cosiddetti “romanzi di formazione”, vale a dire una storia dal forte contenuto autobiografico sul tema del diventare adulti. Messa così sa veramente di banalissimo, me ne rendo conto, però sarebbe impossibile definirlo diversamente. Per salvarmi, dirò che l’approccio ironico e pop lo personalizza molto. In altre parole, quale altro romanzo di formazione ha come figura di riferimento principale Wanna Marchi?

Il tuo romanzo esce per una affermata casa editrice (quella delle “Formiche” e di “Va dove ti porta il cuore”, tanto per dire). Premesso che non si tratta di un colpo di fortuna o di raccomandazioni, visto che è da tanto che scrivi e “bazzichi l’ambiente”, vorrei rubare il mestiere al mio amico Maurizio J. Bruno e chiederti di dare un consiglio agli aspiranti scrittori. C’è, per te, un “modo migliore” per cercare di farsi conoscere?

Allora, potrei scrivere 20 cartelle su un argomento del genere. Intanto diciamo subito che ci sono molti modi che fanno sprecare inutilmente energie e denaro: per cominciare non partecipare MAI a nessun concorso a pagamento o accettare proposte di pubblicazioni che implichino un esborso di soldi. Sono tutte truffe, comunque te la mettano giù. Altro errore colossale, mandare i propri testi alle case editrici, così genericamente, nella speranza di essere letti. Non avviene praticamente mai, equivale letteralmente a buttare via i propri dattiloscritti. Al limite è più saggio inviarli personalmente agli editor delle varie case. Perlomeno leggeranno le lettere a loro indirizzate, e magari si faranno incuriosire sul contenuto del libro …
Io credo che una buona via sia compiere piccoli passi: cominciare a pubblicare sulle riviste, cercare di far circolare il proprio nome fra gli addetti ai lavori della piccola editoria, entrare in contatto con altri autori, scambiarsi opinioni ed esperienze. Io, perlomeno, ho fatto così.

E di una scelta un po’ folle come la mia, di partire da Monsummano (cioé da zero) alla conquista del mercato editoriale, cosa ne pensi?

Francamente credo che tutti partano da zero. Ognuno ha il suo Monsummano, per così dire. E, a meno che tu sia il figlio, il fratello, l’amante di qualcuno di influente, partire da un paesino sperduto o una grande metropoli non fa alcuna differenza. Anzi, l’Italia è un paese che culturalmente crede molto nelle realtà decentrate, provinciali … Prendi gli autori degli Under 25 curati da Tondelli, per esempio: venivano tutti dalla provincia e oggi sono autori affermatissimi.

E questo mi riempie di gioia e di speranza, anche se resta, a dire di molti, un ultimo scoglio. Mi spiego: nella vita sono serissimo, mentre come scrittore riesco a esprimermi realmente solo come umorista, il che, nella testa di quei molti, equivale ad un’autocondanna al purgatorio degli scrittori. Tu che ne pensi? Dell’umorismo come genere, intendo.

Ne penso tutto il bene del mondo. Pensa che in questo momento sto lavorando proprio a un progetto a quattro mani con Luciana Littizzetto, che secondo me è un’autrice comica straordinaria, quindi l’umorismo è proprio una passione che condivido. Anche nel mio libro ho cercato di filtrare tutto con una forte carica ironica, di sdrammatizzare anche i punti più traumatici, perché per natura sono molto più portato allo humor che al dramma. Comunque ci sono delle differenze sostanziali fra la narrativa con valenze ironiche (che è quella a cui credo di appartenere) o la scrittura comica vera e propria. E, alla faccia del purgatorio, i libri comici in Italia sono quelli che vendono più di tutti in assoluto!

La mia celebre “Prima legge sulla scrittura” afferma che: “Si scrive per soddisfare un’esigenza interiore, ci si fa leggere per vanità, e si pubblica per vendere”. Il tuo commento?

Diciamo che potrei essere d’accordo sulla prima parte, mi auguro proprio di non scrivere per la seconda motivazione, e quanto alla terza … beh, non mi illudo neanche.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 03/05/1999]

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Intervista a Franco Bomprezzi

Con tutte le cose che fai, è difficile scegliere da dove cominciare. Però mi viene in mente che tutti e due siamo… ehm … soci dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. Va bene, va bene, tu sei il Presidente (posso darti sempre del tu, vero?) e allora, anche per dovere d’ufficio, presenta brevemente l’associazione che ci ha fatto incontrare.

Sì, sono il presidente. E ovviamente puoi (devi) darmi del tu. Anche perché non so ancora bene perché sono il presidente. La Uildm è una delle più belle associazioni italiane sulla disabilità. È nata per tutelare le persone colpite dalle varie forme di distrofia, nei primi anni ’60, grazie alla testardaggine di un triestino tutto d’un pezzo, Federico Milcovich. Poi è cresciuta molto, perché anche senza muscoli si possono fare grandi cose. Ora ha 70 sezioni, quindicimila iscritti (siamo fortunatamente in calo) e una bella attività in molte città italiane. La cosa più originale? Avere la sede nazionale a Padova e non a Roma. Con quel che ne consegue. È

Giornalista professionista (“il Resto del Carlino”, “Il Mattino”), organizzatore d’eventi (Abilexpo) e molte altre cose, tutte con un risvolto “pratico” molto forte. Come ti senti nel tuo nuovo ruolo, diciamo così, “ufficiale”, all’interno della UILDM?

Un po’ in difficoltà. Non credo agli apparati, alle burocrazie. Credo ai progetti, alle buone idee, alle persone in gamba. Ma in questo senso la Uildm è una bella realtà, molto pulita. Sono anche convinto che ognuno di noi non deve mai dimenticare se stesso, quando si dedica a una nuova attività.

Diventare giornalista non è facile per nessuno. Ricordi di aver incontrato, in quanto disabile, delle difficoltà aggiuntive? E di che tipo?

Per “fare” il giornalista, no. Per “diventare” giornalista, sì. Ricordo il direttore dell’epoca del Resto del Carlino, si chiamava Tino Neirotti, un nome abbastanza famoso. Eravamo nel 1983, io da anni facevo il pubblicista part-time nella redazione di Padova. Chiesi di essere assunto come praticante, e lui si dimostrò molto imbarazzato. Temeva probabilmente che non fossi in grado di fare il cronista, non usando le gambe. Io risposi che effettivamente non potevo essere utile in un giornale fatto con i piedi … ma se serviva la testa, allora era un altro discorso. Gli devo dare atto che mi riconobbe d’ufficio il praticantato, consentendomi di presentarmi da “libero” agli esami di Stato per il professionismo, che poi superai tranquillamente a Roma nel gennaio del 1984. Un altro particolare curioso: la commissione giudicatrice, magistrato in testa, dovette scendere dalla saletta nella quale si riuniva ed esaminarmi al bar del Circolo della Stampa di Roma, perché era l’unico luogo senza barriere. Fu molto divertente.

L’occasione per questa intervista è la pubblicazione del tuo primo romanzo, intitolato La contea dei ruotanti. Non è raro il caso di giornalisti che, a un certo punto della loro attività, decidono di misurarsi con la narrativa. Quale molla scatta, secondo te, a determinare questo passaggio? E nel tuo caso?

È  la necessità di confrontarsi con se stessi, con la propria cultura. Nel mio caso specifico sono stato spinto dal desiderio di non rompere le scatole a malcapitati lettori con una tiritera autobiografica, o con un saggio presuntuoso. Volevo rappresentare la realtà che vivo, che ho vissuto, che tanti vivono come me, in maniera diversa, diciamo pure da un altro punto di osservazione. Quando ho cominciato a scrivere pensavo a un racconto, per me, tutto privato. Poi, come spesso succede, la storia mi ha preso la mano, e mi ha condotto su strade che non avrei mai pensato di percorrere.

E veniamo (finalmente!, dirai) al tuo romanzo. Ci racconti brevemente la trama?

No. Non vorrei proprio. Ma se devo condensare, direi che è la storia di un sogno che si trasforma in un incubo, ma che fortunatamente torna ad essere un sogno. Ho cercato di inventare un mondo nel quale una persona senza handicap è costretta a vivere secondo le perfide regole dei “ruotanti”, ossia delle persone in carrozzina che hanno preso il potere in una piccola contea di un’improbabile Padania. E naturalmente ciò che fa saltare l’equilibrio di un regime dittatoriale alla rovescia è l’amore fra una donna (disabile) e un uomo (camminante).

Il libro l’ho letto. Mi sembra evidente che hai cercato un modo diverso (romanzo anziché articolo, o intervento a un convegno) per proseguire le battaglie che conduci da anni, in primo luogo quella per l’affermazione di una “cultura della normalità”. Potresti sintetizzare il significato di questa espressione?

Non è del tutto vero che volevo proseguire in altro modo le mie battaglie.

E vabbè: mica sempre ci prendo, no?

Forse volevo solo raccontarle in modo diverso, rivivere dentro di me emozioni e sentimenti in forma di racconto. La cultura della normalità è proprio l’idea che più mi sta a cuore. Tutto il mondo dei cosiddetti “normali”, nel migliore dei casi, sottolinea la “diversità” delle persone disabili, anche quando lo fa con spirito di apprezzamento e di solidarietà. Io invece voglio dire che la disabilità è una condizione umana che può capitare a tutti, come il colore dei capelli, o la pancia, o la miopia. La “normalità” è considerare una persona disabile così come è, né meglio né peggio. E le persone disabili, a loro volta, dovrebbero smetterla di sentirsi o vittime o eroi.

Inutile dire che condivido in pieno l’obiettivo di crearla, questa benedetta cultura della normalità. Riguardo al romanzo, invece, ho almeno due perplessità importanti sulle quali vorrei ti pronunciassi. In primo luogo: in più d’un brano ti ho trovato troppo “didascalico”, quasi che la volontà di affrontare certi temi si sia imposta sulla libertà d’invenzione letteraria.

Accetto il rilievo. È molto giusto. Il guaio è che mentre scrivevo mi rendevo conto che il mio ipotetico lettore “non esperto” (perché io in realtà vorrei che questo romanzo venisse letto soprattutto da chi disabile non è) non sa nulla di nulla, o crede di sapere, il che è peggio. Perciò mi sono trovato quasi costretto a prendere per mano questo ipotetico lettore. E non penso che questo sia di per sé un difetto. Casomai il problema è che sono stato troppo sintetico, mi sono fermato per paura di esagerare …

Un’altra cosa che non mi ha convinto appieno è la collocazione temporale della storia, in un futuro abbastanza prossimo. Non pensi che uno spostamento ancora più avanti nel tempo o, come pure era possibile, l’invenzione di una realtà diversa avrebbe esaltato il significato simbolico di alcuni passaggi? Ho in mente, per dirne uno, il celebre Fahrenheit 451 di Bradbury.

Può darsi. Però secondo me lo straniamento rappresentato proprio dalla vicinanza temporale (ma dall’assoluta lontananza mentale dei luoghi) potrebbe funzionare: insomma non è proprio fantascienza, anche se l’idea originaria mi è nata vedendo Il pianeta delle scimmie.

Un aspetto che, invece, ho trovato molto positivo, è l’equilibrio che riesci a mantenere nella prospettiva della narrazione. Voglio dire: il libro affronta il rapporto fra disabili e società senza mai essere un libro “per” i disabili o invece “per” i non disabili. È un libro e basta, insomma.

Ecco, è un libro e basta. Ad esempio, credo che sia una delle prime volte in cui si parla d’amore, anche in termini chiari, raccontandolo così come plausibilmente si può vivere, anche in situazione di disabilità. Questo è uno dei tabù più duri da abbattere. Non è un romanzo “per”, è il mio romanzo, nel quale oltre tutto il mio modo di pensare, di vedere le cose, si distribuisce fra vari personaggi, e non solo in una figura singola. L’editore, Luca Parisato, di Padova, che voglio davvero ringraziare per il coraggio, o l’incoscienza, che sta dimostrando, ha voluto proprio evitare, nella copertina, nella quarta di copertina che contiene una breve nota biografica, qualsiasi accentuazione della tematica del romanzo. Io ho molto condiviso questa scelta, anche se per ora vedo grandi problemi nella distribuzione, che invece si blocca di fronte alla paura di promuovere un prodotto editoriale atipico. Se si limitassero a considerarlo un romanzo come un altro, non sarebbe meglio?

Per finire: La contea dei ruotanti, come s’è detto, è il tuo primo romanzo. Che cosa ti ha lasciato questa esperienza? Pensi di proseguire su questa strada? In fondo, a ben vedere, per la conclusione del libro hai scelto un finale “aperto”.

Il finale è aperto, ma non perché già pensassi a un seguito. Anzi.  È aperto perché secondo me era giusto così, non avrei sopportato un “happy end” ma neppure una conclusione troppo amara. Penso di proseguire, in ogni caso, ma solo quando sarò sicuro di me stesso come narratore. Può darsi che cerchi invece, nel frattempo, di mettere ordine in tutte le cose che ho scritto, in maniera sparsa, sui tanti temi dei quali mi sono occupato. A 47 anni si comincia a tirare qualche somma, ma è anche bello sentirsi assolutamente giovani, e con la voglia di combattere. E vincere.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 13/10/1999]

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Intervista a Giulio Cristoffanini

Emergency nasce nel 1994 per curare le vittime civili dei conflitti armati. Io venni a sapere della sua esistenza circa quattro anni dopo (in un modo non particolarmente nobile, cioè attraverso il sito della squadra di calcio per cui simpatizzo, l’Inter). E dunque è dal 1998 che mi ronza nella testa una domanda: perché Emergency? Ci sono già la Croce Rossa, Medici Senza Frontiere e tante altre. Perché una nuova organizzazione?

Emergency agisce in completa indipendenza, con criteri suoi non sempre sovrapponibili a quelli di altre organizzazioni. La decisione di fondare l’associazione è progressivamente maturata in Gino Strada, effettivo fondatore, proprio durante la sua collaborazione con altre ONG, sollecitata soprattutto da due aspetti. Il primo riguarda l’impiego del denaro raccolto. Molte ONG (parlo di quelle “buone”, non di quelle truffaldine, che pure esistono) impiegano una percentuale spropositata del denaro raccolto per le proprie spese generali: sedi, stipendi, servizi e così via. Spesso più del 50% del loro budget complessivo. Ne deriva che il donatore finisce per finanziare inconsapevolmente più le organizzazioni stesse che le loro missioni umanitarie. Emergency è nata con la dichiarata intenzione di non impiegare a quei fini più del 10% delle somme raccolte e finora l’impegno è stato ampiamente assolto: dalla fondazione ad oggi le spese generali non hanno mai raggiunto il 6% del totale delle uscite, per precipitare sotto il 4% nel 2001, a causa del forte incremento delle offerte.
Il secondo aspetto ha a che fare direttamente con l’attività dei medici di guerra. Quando la necessità di aiuto è resa più acuta dalla guerra in atto, di norma le ONG ritirano il proprio personale internazionale dal teatro delle “operazioni”. Emergency cerca di rimanere, senza rinunciare a rigidi protocolli di sicurezza che regolano i comportamenti del personale. Proprio un frustrante episodio di questo tipo, vissuto da Gino – lautamente retribuito e completamente inattivo, in missione con la Croce Rossa Internazionale a Sarajevo,- ha determinato l’attuazione del progetto Emergency.

Specialmente negli ultimi mesi, è divenuto riconoscibile il volto di Gino Strada, il fondatore di Emergency e, a giudicare dalla televisione, suo unico componente. In realtà, qual è la vostra attuale consistenza numerica?

Attualmente Emergency impiega 35 collaboratori retribuiti presso la sede di Milano. Il personale internazionale che ruota sulle missioni oscilla tra le 25 e le 30 persone (medici, paramedici, amministratori, logisti). I collaboratori retribuiti reclutati (e addestrati, se del caso) tra la popolazione locale superano le 1600 persone. I volontari, che sono la vera forza di Emergency, sono sicuramente oltre il migliaio, organizzati in più di 100 Gruppi Territoriali disseminati in tutto il Paese.

Meno di un anno fa, se ben ricordo, fece scalpore la decisione di Emergency di rifiutare sovvenzioni dal Governo italiano in quanto quest’ultimo si era reso corresponsabile dei bombardamenti in Afghanistan. Questa decisione è tuttora operativa?

La decisione di rinunciare al contributo statale nel momento in cui il nostro Parlamento votava la partecipazione alla guerra suscitò effettivamente scalpore, ma fu del tutto automatica. Nel suo statuto Emergency dichiara il suo impegno contro ogni guerra e per la promozione di una cultura di pace e solidarietà. Ciò per noi rende incompatibile accettare qualsiasi forma di collaborazione da chi ammette il ricorso alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti e obbligatoria la netta divisione delle responsabilità. Capita, con meno clamore, anche con i privati, quando accompagnano le loro offerte con dichiarazioni che riteniamo non condivisibili.

Chiedo perdono per il cinismo, ma la sensazione è che chi lavora per Emergency non rischia di rimanere disoccupato in tempi brevi. Attualmente in quanti progetti siete impegnati?

Al momento abbiamo attività molteplici in 4 Paesi: Iraq, Cambogia, Afghanistan e Sierra Leone. Gestiamo 6 ospedali e numerose strutture di altro tipo, sanitarie e non. Ma sosteniamo anche programmi sociali, a favore delle vedove di guerra, degli orfani, dei prigionieri. Abbiamo appena firmato (16 dicembre) un protocollo di cooperazione con l’amministrazione sanitaria della città di Medea, in Algeria e progettiamo o abbiamo avviato forti incrementi delle missioni in corso, specialmente in Afghanistan e Sierra Leone. In Iraq, dove finora eravamo presenti solo nel nord, sottratto al controllo dell’amministrazione centrale, dovrebbe finalmente partire un vecchio progetto sanitario a Baghdad o a Bassora.

Come viene selezionato e retribuito il personale di Emergency?

I criteri di selezione sono ovviamente numerosi. Tra i principali citerei la comprensione e la condivisione del programma e della “filosofia” di Emergency, richieste anche al personale reclutato nei paesi di missione. Per il personale internazionale è richiesta una disponibilità ampia (la durata media della missione è di 5 mesi) e la conoscenza dell’inglese, oltre alla specifica e provata competenza, specialmente per il personale sanitario. La retribuzione è assolutamente decorosa e proporzionata alla esperienza internazionale, ma probabilmente un po’ sotto la media di mercato. Il quadro normativo è quello del Contratto di Collaborazione Coordinata e Continuativa.

La questione dei finanziamenti, alla quale si accennava prima, mi suggerisce un’altra domanda. Pur ammettendo che un intervento transitorio è meglio di nessun intervento, la possibilità di dare continuità a un progetto è un criterio adottato per decidere se avviare o meno il progetto stesso?

Dipende dal tipo di progetto. Abbiamo sostenuto anche progetti brevi e circoscritti (es. in Etiopia, team chirurgico per 3 mesi in collaborazione con la Cooperazione Italiana), e tuttora abbiamo in corso progetti di cui è già previsto un termine temporale (es. Cambogia, dove il paese è pacificato e prevedibilmente in grado di sostenere autonomamente un progetto ben avviato).

Ho avuto l’impressione che da alcuni mesi a questa parte Emergency, oltre al camice del chirurgo, abbia indossato i panni del “politico” (in senso buono, naturalmente). Dalla campagna “uno straccio di pace” alla partecipazione di Gino Strada alla manifestazione di piazza San Giovanni del 14 settembre (coi cosiddetti “girotondisti”), all’appello contro la guerra in Iraq. E’ un’impressione esatta? E se sì, a che cosa è dovuto questo maggior impegno nella società civile italiana?

In realtà Emergency ha sempre rivendicato un ruolo politico: ha fatto e fa attività umanitaria rifiutando di farlo in silenzio, si oppone alla guerra in linea di principio, ma anche alle specifiche guerre che vengono effettivamente combattute, difende concretamente quello che è fondamentale tra i diritti, il diritto alla vita, però allarga “naturalmente” il proprio impegno alla difesa di tutti i diritti. Ma ammette unicamente quella politica che mantiene al centro dei propri valori l’uomo e la sua dignità. L’uomo come fine ultimo, mai subordinabile ad altri fini che si pretendono e non possono essere “superiori”. Poco o nulla a che fare con la politica come viene comunemente intesa, quella degli schieramenti e dei partiti. Quello che è venuto modificandosi nel tempo credo sia solo la visibilità dell’associazione e con essa l’efficacia del messaggio.

A proposito dell’appello contro la guerra. Tempo fa, un mio amico cattolico praticante mi ha spedito la copia di un appello di Pax Christi che, salvo alcuni riferimenti “interni” alla chiesa, nella sostanza è simile a quello di Emergency: condanna della violenza sui civili, denuncia delle vere ragioni della eventuale guerra contro l’Iraq, richiesta di rispettare l’art. 11 della Costituzione italiana. Non esistono canali di comunicazione? Possibile che ogni associazione debba farsi il suo appello privato?

Sarebbe certamente stato meglio unificare gli appelli, tanto più che il nostro era promosso anche da Lilliput, Libera e Tavola della Pace, di cui Pax Christi fa parte. Nessuna polemica però, credo proprio che si sia trattato di un problema di comunicazione.

Gino Strada è anche l’autore di un libro, “Pappagalli verdi”, che mi ha colpito sia per ciò che vi è narrato sia per il tono, sempre partecipe e sempre misurato. Gli episodi importanti non si contano. In uno, due ex rivali nella guerra civile a Gibuti, entrambi curati da Emergency, superano l’odio e diventano amici. Questo tipo di “successi” quanto è frequente? E, se è possibile stabilirlo, quanti dopo le cure riprendono magari a combattere?

Episodi come quello cui alludi non sono frequentissimi, ma accadono e più volte ne siamo stati testimoni. Il programma di sostegno ai prigionieri che conduciamo in Afghanistan è realizzabile solo con la collaborazione dei carcerieri e certamente è orientato a promuovere il rispetto tra le parti in conflitto e la difficile ricostruzione dei rapporti tra le persone, che la guerra inevitabilmente distrugge.

Un altro conflitto che ha occupato tutto lo spazio dell’informazione è stato quello nella ex Jugoslavia. In “Pappagalli verdi” si racconta di una cecchina che giustifica l’uccisione di un bambino di 6 anni dicendo che fra venti ne avrebbe avuti ventisei. Emergency è ancora presente nella ex Jugoslavia?

Gino ha lavorato in Jugoslavia prima della nascita di Emergency. Durante quella guerra una nostra offerta di intervento in Bosnia è stata cortesemente declinata: ci hanno detto che trovavano incongruo accettare un aiuto proveniente dallo stesso paese che li stava bombardando.

Dopo la cacciata dei talebani, il governo italiano ha dichiarato che avrebbe aiutato l’Afghanistan ad allestire la nuova rete televisiva. Emergency intravede altre priorità?

Certo! Prima di una rete televisiva sarebbe necessario organizzare la concessionaria per la pubblicità. Triste ironia a parte, l’Afghanistan è un paese poverissimo, devastato da 25 anni di guerra: se provassimo a esportarvi reali possibilità di sviluppo, magari trascurando il nostro diretto e immediato interesse?

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 25/12/2012]

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Intervista a Antonella Schiavon

Quando nasce Agronomi Senza Frontiere?

Ufficialmente Agronomi Senza Frontiere (ASF) nasce nel novembre del 2000. Prima, però, c’è stato un lungo lavoro di stesura del manifesto e dello statuto.

Chi ha preso l’iniziativa di questo lavoro?

Un gruppo di persone che, in anni differenti, ha condiviso l’esperienza del “Corso di perfezionamento in Sviluppo rurale nei Paesi del terzo mondo”, proposto dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Padova. Nonostante la differenza nelle esperienze, titoli di studio e attività lavorative, nonostante le diverse provenienze (dall’Italia, ma anche dall’estero), l’interesse comune per i Paesi del Sud del Mondo si è mantenuto ben oltre il termine del corso universitario e ci ha spinto a voler operare per la crescita ed il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni rurali di quei paesi, una volta definiti “Paesi in via di sviluppo” (PVS).

L’espressione “paesi in via di sviluppo” è solo apparentemente intuitiva. Che cosa s’intende esattamente con questa definizione?

Fino a qualche tempo fa si parlava di Terzo Mondo per indicare quei Paesi che non appartenevano al mondo occidentale ed al blocco comunista. In seguito alla scomparsa di quest’ultimo, il concetto è stato sostituito da quello di aree sviluppate ed aree non sviluppate, mentre ancora più appropriata risulta l’espressione Paesi del Sud del Mondo, entrata ultimamente in uso.

Rimanendo alla definizione meno recente: rispetto a quali parametri si consideravano certe aree sviluppate o meno?

Lo sviluppo di un Paese è stato spesso misurato utilizzando degli indicatori di tipo economico (il reddito, il prodotto interno lordo, ecc.) senza considerare però altri fattori più legati alla sfera spirituale dell’uomo. Negli anni ’80 si inizia invece a parlare di “sviluppo che deve sviluppare l’uomo, non le cose”. In seguito, questo concetto viene arricchito anche dall’aggettivo “sostenibile”, che richiama le problematiche ambientali, soprattutto la conservazione delle risorse naturali, ed implica in tal modo il processo di recupero delle conoscenze “tradizionali”, oltre alla tutela di condizioni di equità sociale. Da tutto questo deriva che una popolazione non necessariamente deve tendere a raggiungere un modello preconfezionato di sviluppo, ad esempio quello occidentale. Ogni società dovrebbe elaborare un proprio sistema specifico nell’ambito del quale ogni suo individuo veda soddisfatti non solo i bisogni più concreti (cibo, salute, educazione) ma anche le proprie aspirazioni spirituali, in sintonia con la propria cultura ed il proprio ambiente.

L’idea di sviluppo che hai esposto è quella attualmente accettata dagli organismi internazionali o quella per che cercate di affermare?

Sì, questo concetto di sviluppo è fermamente radicato soprattutto nel mondo delle Organizzazioni Non Governative (ONG), e sta alla base del modo di realizzare programmi.

Per stabilire delle priorità di intervento occorre che ogni idea sia, in qualche modo, misurabile. ASF si è posta questo problema?

Per la definizione delle priorità, proprio nel mondo delle ONG è stata elaborata, negli anni ’80, una metodologia di analisi definita “Approccio rurale partecipativo”. È una metodologia nata dall’esperienza sul campo, e dalla constatazione che molto spesso venivano realizzati interventi con obiettivi non condivisi dalle popolazioni beneficiarie. Ciò determinava sprechi di risorse, incapacità di risolvere i problemi e la non sostenibilità dell’intervento. In pratica: alla chiusura del progetto, le popolazioni non erano interessate a continuare le attività in maniera autonoma.
Con questo nuovo approccio “partecipativo”, la progettazione parte dall’analisi dei bisogni delle popolazioni fatta nell’ambito di riunioni informali alle quali partecipano i destinatari dell’iniziativa, le autorità locali (che se direttamente coinvolte possono appoggiare l’iniziativa) ed i tecnici, locali e/o stranieri. È importante il ruolo di “mediatori” che questi ultimi assumono. La loro funzione non è più quella di imporre soluzioni, ma è quella di facilitare la discussione e l’analisi, anche utilizzando delle tecniche estremamente semplici: disegni sul terreno, una passeggiata attraverso il territorio del villaggio per prendere visione della situazione, coinvolgimento di gruppi “privilegiati” (donne, vecchi, bambini, sciamani …), non disdegnando anche momenti “conviviali”.

Quasi sempre gli accordi migliori sono presi a tavola.

L’idea è quella di fare in modo che la popolazione interessata si senta a proprio agio, libera di esprimersi, senza limitazioni derivanti dall’imposizione di tecniche complicate o di un linguaggio troppo tecnico ed esclusivo. In questo modo risulta più semplice individuare i problemi e decidere delle strategie di intervento che mirino alla risoluzione di quelli più sentiti dalla popolazione. Ovviamente si tratta di ricercare una coincidenza tra le richieste dei beneficiari e le possibili proposte dell’organismo proponente l’iniziativa, oppure di giungere a un compromesso accettabile per entrambe le parti. E’ auspicabile, infine, lavorare in sintonia anche con le autorità locali.

Fra le cose che hai appena detto, mi sembra molto importante l’attitudine all’ascolto. In effetti, un possibile vizio degli interventi umanitari è quello di portare un aiuto di cui non c’è bisogno o che, comunque, non è quello sentito come più urgente dagli interessati.

Spesso dalla popolazione possono venire richieste anche molto semplici, e per questo a volte non considerate. Ad esempio: le donne di una comunità del Chiapas hanno fatto presente ad una ONG la necessità di disporre di macchine per cucire manuali. Il loro utilizzo è semplice, la riparazione di eventuali guasti è alla portata delle tecniche disponibili nella comunità e il loro uso permette di produrre tele e prodotti che possono facilmente essere venduti al mercato locale, consentendo un guadagno sufficiente al mantenimento della famiglia. Un cosidetto “micro-progetto”, che però interviene a soddisfare una richiesta concreta e, soprattutto, fornisce uno strumento per rendere le donne della comunità in grado di autosostenersi. E’ un’iniziativa “sostenibile”, che non sarà abbandonata alla conclusione del progetto. Il vantaggio di operare in tal modo risulta evidente: la popolazione non è più un soggetto passivo che subisce i progetti o che viene utilizzato per la semplice fornitura di manodopera, ma è coinvolta attivamente sin dalla fase di progettazione. Ciò garantisce anche il mantenimento dei benefici derivanti dalle attività di progetto anche dopo che esso è formalmente terminato ed i tecnici stranieri hanno concluso il loro intervento.

Dopo “sviluppo” e “sostenibilità”, vorrei che ci spiegassi come Agronomi Senza Frontiere intende il concetto di “cooperazione”?

ASF nasce anche dalla consapevolezza che fare cooperazione non significa operare a senso unico, ma significa cercare e sviluppare sinergie e complementarietà tra le richieste e i bisogni manifestati dai PVS e le opportunità offerte dal nostro sistema. Altro aspetto importante è la proposta di un approccio multidisciplinare alla questione dello sviluppo rurale. La maggior parte dei soci sono tecnici del settore agro-forestale, ma ci sono anche biologi, biotecnologi, operatori del settore sociale, economico, eccetera.
Aggiungerei che negli ultimi anni il concetto di cooperazione è comunque andato modificandosi. Fare cooperazione non significa operare esclusivamente all’estero; fare cooperazione significa anche cercare di modificare il nostro sistema culturale, renderci conto che comunque viviamo in un sistema globalizzato e che ogni nostra scelta (anche la spesa al mercato!) può avere delle ripercussioni in molti Paesi del Sud del mondo.

Come ha scritto Michele Serra: oggi si fa politica non con gli scontri ma con gli scontrini.

Quindi fare cooperazione significa anche porre grande attenzione alle attività di sensibilizzazione, formazione ed educazione allo sviluppo da realizzare proprio nelle nostre realtà.

Torniamo ad occuparci di ASF. Perché costituire una nuova associazione?

Le associazioni esistenti in Italia e all’estero sono effettivamente molte, soprattutto quelle operanti nel settore agricolo, strategico nell’ambito dello sviluppo di un Paese e quindi nella cooperazione. Uno degli obiettivi che ci siamo posti è quello di creare un punto di incontro, di riferimento e di consulenza per tutte quelle realtà associative che operano nell’ambito dello sviluppo rurale. Non vogliamo quindi sovrapporci a soggetti che già sono attivi in questo campo operando con grande efficienza ed esperienza, ma vorremmo creare delle sinergie tra gli operatori del settore.

Il nome dell’associazione sembra ispirarsi a quello di Medici Senza Frontiere. Avete anche la stessa filosofia di intervento?

Ci accomuna la consapevolezza che la solidarietà, la difesa e la promozione dei diritti umani non possano e non debbano conoscere frontiere. La nostra è però un’associazione molto più “giovane”, con una base associativa e di sostegno molto più ridotta, e quindi operiamo anche su una scala decisamente molto più limitata!

Fino ad oggi, che iniziative siete riusciti a realizzare?

Innanzitutto è da sottolineare il fatto significativo che tutti i soci di ASF sono volontari e dedicano all’associazione il loro tempo libero ed il loro grande entusiasmo, quindi anche le attività realizzate dipendono dal fatto che nessuno di noi opera nell’associazione a tempo pieno. Abbiamo operato molto nell’ambito della formazione, grazie anche alla collaborazione con l’Università di Padova; sono state realizzate alcune esercitazioni nell’ambito di corsi di perfezionamento universitari e abbiamo contribuito ad attuare iniziative di sensibilizzazione presso la Facoltà di Agraria e nella città di Padova. Tra queste ultime, nell’ambito della Rete di Lilliput di cui siamo soci, è stata organizzata una serata di presentazione del vertice mondiale FAO sull’alimentazione.

Per chi ha pochi mezzi, in alcuni casi Internet rappresenta un’opportunità in più per agire e comunicare.

Alcuni soci hanno lavorato alla redazione di un metarchivio, una raccolta aggiornata di informazioni ed indirizzi utili per chi voglia introdursi nel mondo della cooperazione. Il lavoro sarà pubblicato dall’Università di Padova nell’ambito di un corso di laurea triennale, e spero sarà presto disponibile nella nostra pagina WEB.

Altre iniziative?

Insieme ad altre associazioni italiane, è stata costituita la sezione italiana del “Forest Stewardship Council”, organismo internazionale con sede a Oaxaca (Messico) ed operante nell’ambito della certificazione sostenibile del settore forestale.
Un altro ambito di operatività è rappresentato dall’attività di progettazione: in questo caso è stata molto fruttuosa la collaborazione con l’ONG “Associazione Cooperazione Sviluppo” e con Etimos, il consorzio per il microcredito con i Sud del mondo, entrambi con sede a Padova. Abbiamo infatti partecipato alla stesura di un progetto di cooperazione attualmente in fase di approvazione presso il Ministero Affari Esteri italiano, progetto che sarà realizzato in Palestina. Con gli stessi partner abbiamo partecipato ad un bando della Regione Veneto con un progetto molto particolare nell’ambito dell’immigrazione nel Veneto.

Di recente sollevò scalpore la decisione di Emergency, l’associazione per la cura delle vittime di guerra, di non accettare finanziamenti dal governo italiano che, in Afghanistan, appoggiava l’intervento militare. Vi siete già posti il problema di se e come discriminare gli eventuali finanziamenti ai vostri progetti?

Personalmente ho apprezzato molto la decisione di Emergency (e di Medici Senza Frontiere) di non accettare finanziamenti da governi coinvolti nell’intervento militare. Come ASF non ci siamo ancora trovati nella situazione di dover fare una scelta di questo tipo.
Nel nostro piccolo, una scelta etica l’abbiamo però fatta: il conto corrente dell’associazione è stato aperto presso Banca Popolare Etica, convinti che anche scelte di questo tipo siano un piccolo segnale per costruire una società più solidale ed etica.

Come si descrive un ipotetico progetto di ASF?

È nostra intenzione coordinare, appoggiare e promuovere microrealizzazioni all’interno di progetti che risultino in sintonia coi principi ispiratori dell’Associazione. Tali progetti devono partire da iniziative locali o essere concertati tra l’Associazione e le controparti sul posto, nell’ottica di un approccio partecipativo. Ciò significa che vogliamo rispondere a delle esigenze espresse direttamente dalle popolazioni beneficiarie e che queste devono essere coinvolte attivamente non solo nella fase realizzativa, ma anche nella fase decisionale. Questo è avvenuto, per esempio, per il progetto Palestina.

Puoi dire brevemente in che cosa è consistito questo progetto. E soprattutto, dopo i fatti recenti, ne è rimasto qualcosa?

L’idea del progetto è nata da una sollecitazione all’Associazione Cooperazione e Sviluppo e ad Etimos da parte dei Palestinian Agriculture Relief Commitees (PARC), una ONG palestinese operante nella promozione dello sviluppo sostenibile nelle aree rurali della Palestina. Il progetto è stato elaborato seguendo il metodo dell’approccio rurale partecipativo e vede coinvolti l’ONG “Overseas”, l’Associazione Italiana Agricoltura Biologica e l’Associazione Trans Fair Italia. L’obiettivo generale è quello di migliorare in modo sostenibile e permanente le condizioni di vita e di reddito di un gruppo di famiglie palestinesi attraverso l’avvio, da parte delle famiglie stesse, di microprogetti generatori di reddito. L’intervento locale sarà affiancato da attività di coordinamento e dalla promozione di istituzioni a livello nazionale palestinese.

Più in dettaglio?

Il progetto sarà centrato sul ruolo delle donne contadine, che con il loro lavoro sono in grado di sostenere il reddito familiare soprattutto in periodi di chiusura delle frontiere e di scarsa disponibilità di posti di lavoro (ricordo che la maggior parte degli uomini lavora in territorio israeliano). Ci si propone di lavorare in tre aree: quella delle produzioni agricole vegetali ed animali, con particolare attenzione al metodo di coltivazione biologico attraverso l’introduzione dei disciplinari e la costituzione di un ente palestinese di certificazione biologica riconosciuto sulla base della normativa internazionale; l’area della commercializzazione a livello locale ed internazionale, attraverso il commercio equo e solidale; ed infine il settore del risparmio e del credito.

A che punto siete?

Il progetto è attualmente in fase di valutazione presso il Ministero degli Affari Esteri. Nonostante la delicata situazione politica in cui versano i territori palestinesi, la richiesta di attivazione del progetto da parte della controparte locale è molto forte. Soprattutto in questi momenti, infatti, la chiusura della frontiere provoca altissimi livelli di disoccupazione, sia per l’impossibilità di raggiungere Israele, sia per il blocco delle attività nei territori palestinesi a causa della mancanza di comunicazioni. Molte famiglie sono prive di qualsiasi fonte di reddito. E’ quindi importante proporre e promuovere delle attività che garantiscano l’autosufficienza in situazioni di isolamento dall’esterno. Inoltre è di rilievo la costituzione di istituzioni di supporto e di enti di intermediazione finanziaria a sostegno dell’economia rurale, attualmente assenti.

Un sincero, caloroso augurio di buon lavoro.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 28/07/2002]

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Intervista a Mauro Casanova

Quando sei stato in barca a vela per la prima volta?

Nell’estate del 1999.

A chi ti sei rivolto per imparare?

All’Assonautica di Livorno. Il mio istruttore è Giorgio Majoli.

Quante volte sei andato a vela fino ad ora?

Sei o sette, più o meno.

Che tipo di barca usi?

Un 2.4.

Tradotto in italiano?

Il 2.4 è un’imbarcazione lunga appunto 2 metri e 40 centimetri. È un “singolo” (cioé è destinata a una sola persona d’equipaggio) e dispone di un albero, due vele (il fiocco e la randa), timone, scotte, strozzascotte e tutto il resto. La caratteristica costruttiva più tipica, però, è la deriva, che è fissa e zavorrata. Per l’esattezza, sotto la barca sono “appesi” sotto forma di deriva 280 chili di piombo. In questo modo il rovesciamento…

La famosa “scuffia” …

Esatto. Con la deriva zavorrata, la scuffia, nelle giuste condizioni di mare, è praticamente impossibile.

Il che contribuisce a rendere il 2.4 un’imbarcazione adatta anche a chi ha problemi motori. Nel tuo caso, che è quello di una persona affetta da distrofia muscolare, quali difficoltà hai incontrato nel governare l’imbarcazione?

A volte il timone è un po’ troppo duro, cosa che accade se non è ben lubrificato. Poi devo ancora trovare la giusta posizione all’interno della barca. Nel 2.4 si sta un po’ sdraiati (tipo Formula 1, diciamo) e io devo riuscire a sporgere con la testa quel tanto che basta per avere una buona visuale ma, al tempo stesso, non picchiare col boma.

Chiariamo per i non velisti. Il boma è il braccio orizzontale al quale viene fissata la base della randa. È vincolato all’albero ma può ruotare attorno ad esso di circa 180 gradi. Nella rotazione, può accadere che passi sopra la testa del velista. Questo, naturalmente, quando il velista medesimo è abbastanza furbo da abbassarsi in tempo.

Esatto. Nel mio caso, stando nella posizione sdraiata di cui ti dicevo, la base del collo appoggia sul bordo posteriore dell’abitacolo e, dopo poco, in quel punto avverto un dolore fastidioso. Per evitarlo ho provato a stare meno sdraiato e quindi a sporgere di più. In questo modo non è più il collo ad appoggiare sul bordo della barca, bensì la schiena, all’altezza delle scapole. Così evito il dolore al collo ma devo oscillare ogni volta che il boma ruota, per evitare un dolore… alla testa.

Forse, se avessi un 2.4 tutto tuo, potresti adottare qualche accorgimento per “personalizzarlo” un po’ ed ovviare ad almeno qualcuno dei problemi che incontri.

Di sicuro cercherei una posizione più ergonomica delle scotte, in particolar modo di quelle del tangone che sono quelle che mi hanno sempre creato più problemi. Per il resto va piuttosto bene, a parte la posizione del corpo di cui dicevo prima.

Questa è un intervista e non un corso di vela, così lasciamo i lettori nel mistero di cosa siano scotte e tangone e invece ti domando: la prima volta ti ha forse spinto la curiosità ma, dopo, perché sei tornato in barca?

È vero, le prime volte c’erano la curiosità e lo spirito d’avventura. Poi, vedendo che qualche manovra riuscivo anche a farla bene mi sono incoraggiato, ho sentito diminuire un po’ la tensione della “prima volta” e ho cominciato a divertirmi. Adesso la barca non va proprio dove e come voglio io, c’è una specie di sfida fra me, lei e il mare.

Una sfida? Non è una parola un po’ grossa?

So che detta in questo modo sembra che io sia un vecchio lupo di mare che sfida venti e mari forza 7, ma è proprio così… con le dovute proporzioni.

Che sensazioni ti ha dato la navigazione in “solitario”?

Non so se si può parlare di navigazione in solitario dato che l’istruttore mi ha sempre seguito da vicino con il gommone. Se per solitario s’intende che da solo governo la barca, allora potrei dire d’aver provato un senso di responsabilità. Tutto dipendeva da me: se la barca andava o non andava, se l’assetto era quello giusto, se le vele erano “cazzate” bene o meno, ecc. Poi ho provato anche sensazioni di piacere, quando la barca andava dove volevo io o quando l’istruttore mi diceva che andava bene così.

E salire su una barca a vela da passeggero? Pensi che ti darebbe emozioni più forti, più belle o soltanto diverse?

Penso che mi darebbe emozioni anche più forti e più belle di quelle della navigazione in solitario. Immagino un diverso comportamento della barca (rollio, assetto, ecc.), una maggiore velocità e l’organizzazione dell’equipaggio con ogni persona che svolge il proprio compito. Probabilmente nel ruolo di passeggero sarei più attento ed avrei modo di osservare anche altre cose, sia della barca sia del mare, piuttosto che essere concentrato sulle manovre da fare. Me la godrei di più, insomma.

Perché il vero obiettivo è sempre quello di spassarsela.

Facendo un paragone con le auto, dovrebbe essere un po’ come un neopatentato che, se trasportato da qualcuno, ha modo di osservare il paesaggio e tutto il resto, mentre se è alla guida è un po’ teso e concentrato sulla strada.

Sette “uscite” sono già un piccolo bagaglio di ricordi. A quale di essi sei più legato?

Alla prima uscita in assoluto. La sensazione di essere spinti sull’acqua col solo rumore del vento, la barca che s’inclina di brutto a ogni virata (con la paura di scuffiare anche se l’istruttore mi ha spiegato che col 2.4 è praticamente impossibile), le vele che si tendono sotto la spinta del vento e qualche onda impertinente che ce la mette tutta per farti la doccia… non si dimenticano.

Molto romantico. La mia piccola esperienza di velista, però, è stata anche ricca di spunti assai più comici (o tragicomici, per essere più esatti).

Io ricordo simpaticamente quando iniziammo un’altra uscita (la seconda o la terza, non ricordo) con vento leggero. Il 2.4 procedeva lentamente con le vele a farfalla quando il poco vento che c’era decise di cessare del tutto e la barca si fermò in mezzo al mare. Giorgio, il mio istruttore, si avvicinò col gommone per trainarmi verso la darsena ma anche il motore del gommone, solidale col vento, decise di fermarsi. Restammo così per un’oretta finché qualcuno dalla sede dell’Assonautica ci vide in panne e venne a rimorchiarci.

Meno male! Ora l’ultima domanda. Il 2.4 è un singolo, e navigare da soli è una tappa dell’apprendimento della navigazione. Ti incuriosisce l’esperienza della navigazione in equipaggio?

Credo di averti già risposto, comunque ti ripeto: sì, parecchio. Mi piacerebbe anche partecipare a una regata.

Allora, come si dice, buon vento!

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[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 05/07/2001]

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Intervista a Marco Pastonesi

Iniziamo con le smentite: il rugby è uno sport violento per persone tutte muscoli e niente cervello.

Il rugby è uno sport violento giocato da gentiluomini.

Si racconta che il rugby nacque durante una partita di calcio. Un giocatore si esasperò perché il risultato non si schiodava dallo zero a zero, così prese il pallone in mano e lo depositò oltre la linea di porta. È una storia vera?

Il giocatore si chiamava William Webb Ellis, il campo era quello della Rugby School (che non era la scuola del rugby, ma la scuola della cittadina di Rugby), dove adesso una lapide ricorda l’antica trasgressione. Il resto sa un po’ di leggenda.

Vera o no, è una storia che mi piace, per tanti motivi. Ad esempio: ci sono le regole e una persona che decide di romperle, cioé il rugby nasce da una ribellione.

Tutte le novità nascono da ribellioni, trasgressioni, rotture. Poi ricomincia la codificazione, i regolamenti, le leggi. Scritte e non scritte.

Altro motivo: ci sono regole che non piacciono e, anziché eluderle, ci si colloca apertamente fuori di esse e se ne creano di nuove, cioé il rugby nasce da una assunzione di responsabilità finalizzata a rompere per costruire.

Appunto.

Uno dei motivi di fascino del rugby è l’equilibrio perfetto che c’è fra il talento individuale e la necessità del gioco di squadra.

Di talento, in giro, ce n’è sempre poco. Per fortuna il gioco di squadra, anzi, lo spirito di squadra riesce a colmare questo vuoto.

Anche a questo riguardo, puoi spiegare in poche parole il concetto di “sostegno”?

Di giocatori con il pallone in mano ce n’è uno solo. E di strada, in genere, ne fa poca. Per questo ha sempre bisogno di qualcuno che gli venga dietro, che lo aiuti quando lui verrà placcato e dovrà mettere il pallone a terra. Non solo. Siccome il pallone non si passa mai avanti, almeno con le mani (in verità neanche con i piedi, perché i compagni si trovano sempre dietro), allora il riferimento è sempre dietro. Come in guerra: gli uomini della prima linea, a contatto con i nemici, gli uomini delle linee arretrate, pronti a intervenire. O come diceva Paolo Rosi, giocatore e giornalista Rai, la fanteria e la cavalleria.

Un’altra cosa strana e bellissima del rugby è il rispetto per l’arbitro.

C’è una regola, convincente: a ogni protesta l’arbitro può dare i dieci metri, cioè sottrae dieci metri di campo (terreno, trincea…) alla squadra. E solo chi gioca a rugby sa che cosa significano dieci metri di campo conquistati corpo a corpo.

Una cosa forse ancora più strana e più bella è che a volte l’arbitro non interviene. Alludo a certi falli subiti da un giocatore che ha commesso una scorrettezza, il quale viene così “punito”, sotto gli occhi di tutti, per la sua slealtà.

È una di quelle regole non scritte, ma vigenti. Un uomo viene calpestato in mischia solo se si trova in fuorigioco, cioè al di là della linea determinata dal pallone, semplicemente perché in quel momento non si doveva trovare lì. Quindi gli avversari hanno fatto finta che lui non fosse lì.

Ce ne sono altre, di regole non scritte?

Fra le regole non scritte, quella del calpestamento è esemplare, ma puoi aggiungere quella del capitano che è sempre il primo a entrare in campo e l’ultimo a uscirne.

Il rugby lo scoprii in televisione. Si trattava di una partita del Torneo delle Cinque Nazioni, giocava il Galles di Gareth Edwards.

Un’ottima occasione. Gareth Edwards è stato uno dei più brillanti interpreti di questo sport. Figlio di un minatore, la statua di Gareth – che è vivo e vegeto – sta nel mezzo di Cardiff.

In un tuo pezzo, lessi che fu proprio di Edwards la più bella meta che hai visto realizzare in vita tua. La puoi raccontare in poche parole?

Presente uno slalom di Alberto Tomba?

Tutti gli appassionati di rugby hanno un mito: gli All Blacks.

La nazionale della Nuova Zelanda, mito un po’ per il nome, un po’ per il gioco, un po’ per la divisa, un po’ per passione.

È anche il tuo mito?

Sì, insieme al Frascati.

Tu a che livelli hai giocato?

Quattro anni da riserva, però in serie A. E nove anni in serie B.

Complimenti! E ora, per un assaggio della scrittura di Marco Pastonesi, clicca pure qui.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 22/08/2010]

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Intervista a Maria De Rosa

Ho diciannove anni, ma è già da molto che scrivo. Potrei dire che lo faccio da sempre, fin da quando ero piccola. A scrivere poesie, però, mi spinse la gelosia. Mio nonno stava guardando la televisione. Quale programma non saprei più dirlo, ed io ero ancora poco più che una bambina. Però ricordo che a un certo punto mio nonno si voltò e disse: “Hai visto, così giovane è già diventato un poeta”. Chissà chi era, quel giovane di cui stavano parlando, ma ebbi l’impressione che mio nonno lo preferisse a me. Così presi carta e penna e provai anch’io a scrivere una poesia. Poi ho continuato.
Il nonno è stata una presenza importante. Provengo da una famiglia di origini molto umili, dove pochi hanno più della terza media e libri non se ne sono mai letti troppi. Però il nonno ci teneva alle mie poesie, mi faceva sentire che per lui erano importanti, e forse è stato l’unico che mi ha davvero incoraggiato a continuare.
Gli altri no. Certo, a casa mi vogliono bene, e quando per le feste ci riuniamo con tutti i parenti, so qual è il regalo che tutti si aspettano da me: una poesia per ciascuno, accompagnata da una foto. Ma so anche che apprezzano più l’affetto che esprime che la poesia in se stessa.
No, non c’è nessun altro. Che condivida con me questo interesse, intendo, o che lo apprezzi in modo particolare, neanche fra le mie compagne. La mia classe è tutta femminile e trovo che fra donne si crei più facilmente la competizione che la solidarietà. Ma forse un po’ dipende anche dagli insegnanti, che non seguono abbastanza gli studenti, non li stimolano. Quando a scuola affissero il bando di un concorso di poesia, il professore che avevo al ginnasio quasi mi scoraggiò. Io decisi di partecipare lo stesso, di nascosto. Volevo provare. Vinsi il primo premio, e il professore cambiò idea. Poi andai al liceo, cambiai insegnante, e a quella che trovai, delle mie poesie, non importava molto. Ma ormai avevo preso la mia strada.
I concorsi di poesia. Ho avuto molti riconoscimenti. Comunque non scrivo per ottenere quei premi. Vedo il bando, e se ho qualcosa che può andar bene, partecipo, senza ansie. Forse i concorsi mi servono semplicemente per dare uno scopo alle parole che fermo sulla carta, o forse per avere un rapporto con l’esterno, visto che intorno non ho con chi scambiare idee su questa mia passione.
Se non scrivo sto male. Ho saputo che queste stesse parole le ha dette un grande scrittore inglese contemporaneo, Jonathan Coe. Io non l’ho mai letto, ma mi ha fatto piacere condividere con lui questa sensazione. Comunque, non ho mai pensato: “Voglio diventare una scrittrice”, e la scrittura, almeno oggi, è uno dei miei interessi. Importante, ma non l’unico.
Scrivo di notte, quando finalmente riesco a isolarmi dagli altri e dalla mia vita quotidiana, che è ancora, in buona parte, fatta di compiti e interrogazioni. Il tema che forse ricorre di più è la natura, della quale amo specialmente il mare. L’amore, ancora no. Una poesia d’amore l’ho scritta, a dire il vero, ma ero così piccola … Credo che l’amore sia un’altra cosa.
La tecnica è un problema che non mi sono mai posta. Non ritocco mai i miei testi. Per ora mi va bene così.
Mi diverte farmi conoscere, specialmente andare nelle scuole. Fu buffa una volta che i bambini si aspettavano un personaggio serioso e adulto, invece sono arrivata io.
Dei grandi poeti che ho letto a scuola mi piace molto D’Annunzio, che trovo molto musicale e pieno di fascino. Negli ultimi tempi mi sono dedicata un po’ alla lettura di Wordsworth e Coleridge. In inglese. Non conosco benissimo la lingua, ma mi sforzo. Un po’ mi aiuta mia madre che ha vissuto in Inghilterra. Poi Ungaretti, per il suo ermetismo. Sì, proprio per il fatto che è così difficile da capire, anche se io, al contrario, mi sforzo di essere semplice e comprensibile.
Forse, semplicità e comprensibilità sono le uniche cose che cerco davvero, sempre. Non solo quando scrivo poesie, voglio dire. Anch’io come persona, infatti, vorrei essere semplice e comprensibile. Sono questi i due complimenti che apprezzo di più, mentre mi ferisce essere giudicata come una persona falsa, che agisce allo scopo di ingraziarsi gli altri. Ruffiana, come si dice.
Non c’è molto altro da aggiungere, almeno per ora. Ho neppure vent’anni, e tante curiosità. Mi piace scoprire quello che ho dentro, vivere momenti nuovi, provare, e un po’ mettermi alla prova. È con questo spirito che ho affrontato le esperienze più diverse. Il palcoscenico, ad esempio, recitando in un penoso allestimento della “Bottega dell’antiquario”; o la passerella, sfilando qualche volta come indossatrice. Poi nuoto, vado in palestra e suono con la banda di Monsummano. Il quartino, uno strumento piccolo piccolo che pare un giocattolo.
Naturale: oltre a quelle che cerco, ci sono le cose che mi succedono, come trovarmi a casa di chi mi ha bocciato al mio primo esame per la patente per vedere com’è il suo sito internet, sul quale fra poco sarei finita anch’io. Ma adesso, basta davvero. La mia mitica Saxo verde, temo, non era parcheggiata proprio bene, e non vorrei trovare una multa.

[Contenuto pubblicato per la prima volta su antoniomessina.it il 23/08/1999]

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